La moneta unica e il fu pensiero unico
Di Nicola Di Cesare (Ars Cagliari)
Siamo arrivati al dunque. Anche la stampa più riottosa e incline a giustificare l’utilità del diavolo, pur di conservare i benefici che il “sistema” liberoscambista a moneta privata ha riservato per se e i suoi manovratori, comincia a prendere in considerazione il fatto che il meccanismo di infeudazione dell’economia globale si sia tragicamente inceppato.
La tesi, fino a qualche tempo fa sostenuta dagli alfieri dell’austerità espansiva, secondo la quale il primo problema planetario fosse la propensione degli stati sovrani a generare debito (Schuld o colpa secondo i monetaristi di scuola Austriaca e Tedesca), fa acqua da tutte le parti e con essa i dispensatori dell’Eurorigorismo senza se e senza ma.
Ora siamo arrivati alla fase della timida ammissione che il problema sia generato da una “crisi di domanda” (e non di debito sovrano) e che quindi il tutto abbia origine dalla scarsa quantità di moneta presente nelle tasche dei consumatori (salariati e pensionati), per cui nelle alte sfere ci s’interroga se non sia il caso di stampare dal nulla denaro, in termini tecnici “allargare la base monetaria destinata ai consumi” fornito direttamente dalla banca centrale, da mettere in tasca ai cittadini Europei (non si capisce bene ancora come) per consentir loro di far ripartire il motore della produzione e del lavoro.
Per quanto tali ammissioni possano apparire come un passo in avanti, esse s’incentrano ancora su una concezione puramente mercatista, che vede nel libero mercato e nella spinta al consumo l’unica fonte di lubrificazione dell’economia e che ignora furbescamente il tema della sostenibilità sociale e della piena occupazione; si è ancora fermi alle cure palliative degli effetti e non all’eradicazione delle cause che nel frattempo si incancreniscono.
Come ha più volte sottolineato il Prof. Bagnai, quella attuale è in realtà una crisi di debito privato generato nei paesi a deficit di bilancia dalla forza artificiale dell’Euro; una distorsione che in caso di Helycopter money (ipotesi di scuola) amplierebbe tali debiti portando i sistemi creditizi dei paesi in difficoltà ad esplodere definitivamente; tuttavia questo è solo uno degli aspetti “funzionali” di quella che più che come una crisi si manifesta come un deficit sistemico strutturale generato dalle politiche tecnocratiche dell’Unione Europea e dell’Eurosistema.
A questo punto è bene mettere in fila i concetti per capire chiaramente la realtà delle cose senza perdersi in improbabili teorie.
La crisi attuale prende origine principalmente dalla privazione della capacità di finanziamento autonomo dei bilanci sovrani da parte delle banche centrali nazionali. Tale privazione ha generato negli anni l’esplosione dei debiti sovrani e l’inversione del moltiplicatore della crescita per effetto degli assestamenti di bilancio pubblico operati con sistematici avanzi primari.
Non potendo contare su politiche fiscali adeguate al sostenimento della competitività e nemmeno sulla possibilità di un naturale aggiustamento delle parità valutarie, l’unico strumento di correzione possibile è stato quello del recupero dei costi produttivi attraverso la riduzione dei salari reali da un lato e la riduzione della base occupazionale dall’altra.
Il taglio del salario disponibile è stato determinato in parte da politiche dei redditi rigidissime, sostenute dalla cancellazione dei diritti del lavoro e dall’altra dal poderoso aumento dei carichi fiscali sui redditi medio bassi (cioè sulla base imponibile più ampia e indifesa).
In questa situazione i mercati interni dei paesi del sud Europa sono implosi lasciando campo libero alle produzioni estere maggiormente competitive (e nei paesi del Nord surrettiziamente finanziate dai bilanci pubblici in spregio alle regole imposte agli stati del sud – Vedere il caso Germania) e al conseguente debito.
La struttura del credito sud Europeo, capitanata da gruppi bancari dell’Europa settentrionale, ha negli ultimi anni “lavorato” a sostegno degli acquisti delle produzioni del nord Europa fornendo capacità di credito al consumo illimitata che è andata a sostituire la perdita di effettivo potere di acquisto delle fasce sociali salariate e la perdita di capacità finanziaria delle piccole e medie imprese, storicamente sottocapitalizzate.
Il meccanismo si è inceppato di fronte all’evidenza del fatto che i debiti contratti a favore di enti creditizi privati prima o poi vanno ripagati, soprattutto se regole sempre più stringenti sul controllo del credito lo impongono.
La morale di questa tragica storia è la seguente.
La generazione di moneta ad alto potenziale non può essere messa nelle mani di un Ente privato quale è la BCE che non risponde alle logiche pubbliche di governo dell’economia reale senza che questo generi gli squilibri disastrosi che abbiamo dinanzi.
Gli Stati sovrani possono definirsi tali se e solo se sono in grado di soddisfare la propria domanda di moneta in modo autonomo, socializzandone il corrispondente valore, senza ricorrere al credito privato come sono costretti a fare oggi gli pseudo Stati (non più Stati) dell’eurozona.
Il sistema del credito, interamente privato, è soggetto a crisi di sistema che non possono essere risolte nell’ambito del mercato senza compromettere l’esistenza di milioni di persone incolpevoli ed è pertanto evidente che debba esistere un risolutore di ultima istanza pubblico che possa ricreare l’equilibrio tra valore della moneta e livello di occupazione, facendosi carico della creazione della moneta mancante, la quale tuttavia non può andare a beneficio dei soggetti privati falliti ma che deve essere ricompresa nella creazione di valore pubblico.
Gli Stati, privati della capacità di autofinanziamento, non possono operare in regime di pareggio di bilancio senza ricorrere ad avanzi primari e quindi a una spirale recessiva per l’inevitabile effetto matematico del conseguente demoltiplicatore del reddito e del servizio sul debito (questo incontrovertibile fenomeno lo può comprendere anche uno studente del primo anno di economia).
Una moneta come l’Euro non ha la capacità di ricostruire l’equilibrio delle bilance di pagamento dei vari stati aderenti utilizzando il riallineamento del cambio, a meno che queste non siano ripianate “esternamente” cioè attraverso opportuni trasferimenti “a perdere” di risorse dagli stati in surplus agli stati in deficit, pertanto tali bilance sono soggette prima o poi ad essere insolventi trasmettendo la loro insolvenza ai bilanci pubblici in una spirale recessiva senza fine.
L’incapacità di autonomo finanziamento degli stati e il divieto per gli stati di investire direttamente nell’economia reale, genera una crisi strutturale di domanda nel mercato interno e una conseguente disoccupazione oltre i limiti di tollerabilità sociale.
La disoccupazione generata dall’incapacità di finanziamento autonomo degli stati sovrani con l’adozione di una moneta unica e “rigida” (cioè costruita sul presupposto della “stabilita” dei prezzi), il cui monopolio di emissione appartiene a società private, genera a sua volta consistenti buchi di bilancio dovuti al mancato gettito da un lato e dalle spese sociali di sostegno dall’altro.
I fenomeni combinati di dilagante disoccupazione e di tagli ai sistemi sanitari e pensionistici hanno già presentato il conto in Italia con il repentino abbassamento dell’aspettativa di vita e un poderoso passivo nel saldo tra nascite e morti1.
Tutto queste considerazioni finali riconducono a soluzioni che ripropongono il modello sociale ed economico previsto dalla costituzione Italiana del 1948 e attuato con pieno successo fino al 1981, anno in cui i poteri finanziari privati, infiltrandosi tra le maglie dei governi dell’epoca, hanno dato avvio alla stagione dello smantellamento della capacità autonoma di finanziamento dello Stato Italiano, cominciato con la piena autonomia della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro e proseguito poi con la privatizzazione del sistema pubblico del credito, il divieto di intervento dello Stato nell’economia reale, l’adozione della moneta unica e l’inserimento in costituzione del pareggio di bilancio.
Oggi, in Italia e non solo, siamo vittime del peggiore degli errori a cui la storia economica abbia mai assistito e che nessuno, se non il corpo sociale sovranista, è in grado di risolvere portandosi al governo del paese.
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1 – http://www.repubblica.it/cronaca/2016/01/12/news/demografia_calo_record_abitanti-131104745/
“il modello sociale ed economico previsto dalla costituzione Italiana del 1948 e attuato con pieno successo fino al 1981”
Che il modello costituzionale sia stato applicato e addirittura con pieno successo nel periodo antecedente il 1981 è una cosa che mi lascia perplesso. Non mi risulta che in quel periodo vi fosse la piena occupazione. Al più abbiamo avuto periodi di abbondanza di lavoro che sono somigliati alla piena occupazione. Mi sentirei piuttosto di dire che che il modello costituzionale non è stato mai pienamente applicato. A meno che con piena occupazione non si intenda proprio quel meccanismo di allocazione della forza lavoro che avevamo prima e che certamente presentava i suoi difetti, fra i quali quello di non aver debellato la disoccupazione se non occasionalmente e nel quale per chi si ritrovava disoccupato erano solo fatti suoi.
Il tasso di disoccupazione in quegli anni fu molto prossimo al tasso frizionale (piena occupazione) e oscillò tra il 4 e il 7,5%. Oggi dopo una lenta e costante risalita è sopra l’11% statistico; il tasso reale attuale calcolato secondo i metodi utilizzati fino al 1981 è del 24%; esattamente il quadruplo. Può visionare qui http://goofynomics.blogspot.it/2013/07/58-anni-di-disoccupazione-in-italia.html e qui http://it.adviseonly.com/blog/economia-e-mercati/grafico-della-settimana/perche-disoccupazione-italia-sottovalutata/ dei resoconti interessanti. Grazie per l’intervento.
I resoconti sono interessanti ma trovo che la risposta conferma ciò che dicevo. Sì sta parlando di un periodo di bassa disoccupazione e non di piena occupazione. Wikipedia colloca il tasso frizionale fra il 3% e il 4% e nel grafico nostra disoccupazione tocca il 4% solo intorno al 1963 ritornando rapidamente al 6% dal quale era partita all’inizio. Un situazione non rosea, certo meno peggiore di adesso, ma con percentuali sempre superiori a quella frizionale. L’intervento statale ha dunque contribuito abbassare occasionalmente la disoccupazione. Vi sono stati periodi di grandi assunzioni di lavoratori, chi entrava entrava e chi resta fuori restava fuori.
Nel trovare lavoro era cruciale l’intermediazione personale. Parecchie persone sono entrate alle ferrovie, all’enel (che nacque proprio nel ’62 dall’unificazione di enti preesistenti) o altrove tramite qualche “amicizia”. Anche nella grande industria privata era così, inoltre i lavoratori di quest’ultima erano soggetti al licenziamento in casi di grosse ristrutturazioni. Le eventuali ricollocazioni lasciavano comunque parecchi esclusi. Per i lavoratori di attività più piccole era anche peggio, dovevano arrangiarsi.
Che io ricordi il diritto al lavoro, costituzionalmente previsto, non è mai stato garantito in pieno ma solo ad alcune categorie, con buona pace dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge.
Caro lettore Giovanni. Le sue conferme le vede solo Lei. Le serie storiche interessate raccontano di un periodo in cui l’Italia passando dal 4 al 7 % nel tasso di disoccupazione dovette sopportare due crisi petrolifere e un boom demografico che crearono non pochi problemi al sistema industriale Italiano e alle politiche per l’occupazione. Si aggiunga anche che tali dati non tengono conto del lavoro nero che all’epoca era rilevantissimo, molto più di oggi in cui il fenomeno è sostanzialmente legalizzato (vaucher). Tutto ciò porta inequivocabilmente, sia dal punto di vista empirico che scientifico, a considerare quello come un periodo di sostanziale piena occupazione. Io non conosco la sua età ma sappia che all’epoca i migliori giovani diplomati erano chiamati dalle imprese direttamente dagli elenchi scolastici e avviati a una carriera lavorativa stabile. Tutto ciò parla di un paese nel quale l’obiettivo (perché gli obiettivi sono certi, i risultati contestuali) della piena occupazione era perseguito con buon successo. Per quanto riguarda “gli aiutini” nei concorsi, non avendo dati statistici a supporto (ai quali ci si dovrebbe sempre riferire), posso solo rilevare che almeno all’epoca i concorsi si facevano e non si eludevano trasformando gli Enti pubblici in SPA. Personalmente ho decine di amici e familiari che hanno avuto accesso al pubblico impiego senza avere nessuna raccomandazione. La saluto.
Che il cosiddetto trentennio dorato non fu poi così dorato non credo di essere solo io a pensarlo. Solo che che l’epoca attuale è talmente peggiore da far apparire quella come fosse l’El Dorado.
Ad ogni modo mi interessava solo capire cosa voi intendete per “piena occupazione” e penso che la vediamo diversamente, sarebbe inutile proseguire oltre.