Famiglia e lavoro
di MARCO TROMBINO (FSI Genova)
Da molti anni i demografi trattano del problema delle “culle vuote” in Italia, ossia l’importante calo di natalità che ha interessato il nostro paese negli ultimi decenni, tanto più stupefacente se lo mettiamo a confronto con l’alto tasso di fecondità che ha riguardato la stessa Italia nella prima parte del XX secolo. In poco tempo uno sconvolgimento culturale ed antropologico ha portato la fecondità della Penisola ai tassi più bassi mai registrati nella storia umana, fino al picco negativo del 1995 dove si era toccato il tasso di 1,19 figli per coppia; si ricorda che il “tasso di sostituzione”, ossia la quota per mantenere stabile la popolazione è di 2,1 figli per coppia.
Uno studio del 2018 del gruppo Gefira ha stimato che, se per ipotesi l’Italia non ricevesse più immigrazione dall’estero, a questi tassi nel 2100 ci ritroveremmo con una popolazione di 20 milioni di abitanti, in buona parte anziani; giusto per fare un paragone, nel 1861 all’atto dell’Unità d’Italia il nostro paese aveva 21 milioni di abitanti, con un’estensione territoriale inferiore (non si era ancora compiuta l’annessione di Lazio e Triveneto). Fermo restando che sono molto opinabili l’orientamento politico di Gefira e l’intento con cui questo gruppo ha realizzato tali stime, le proiezioni demografiche di gran parte degli altri sociologi mostrano dati non tanto distanti da quelli esposti, anche se di solito senza formulare previsioni così avanzate nel tempo.
Fatta la doverosa premessa che nessuno vuole tornare all’epoca dei nostri bisnonni in cui era normale fare 5 o 6 figli per coppia – in un pianeta sovrappopolato da 7 miliardi e 700 milioni di abitanti non è davvero più il caso – un divario numerico così consistente, che nemmeno i flussi migratori riescono più a colmare, tra giovani e anziani pone problemi enormi, non solo gestionali, ma anche organizzativi e fisici: riuscire a fornire assistenza ad una massa di anziani sempre crescente, in un’economia asfittica in cui molti dei nostri migliori talenti emigrano, finirà per provocare un’implosione sociale in tempi ben più brevi della fine del secolo in cui viviamo. Siamo spesso abituati a calcolare i fattori economici sotto forma di soldi e cifre; è l’ora che cominciamo anche a considerare il peso di chi siamo e quanti siamo, fisicamente parlando.
Molti motivi di una diminuzione così drastica nel numero di bambini nella nostra popolazione sono di stampo culturale, e qui la politica non può fare più di tanto: il desiderio di avere e crescere un figlio risponde a pulsioni istintive ed affettive, quindi di genere pre-politico, non certo risolvibili con un banale decreto legge. Tuttavia è anche vero – ed è supportato da sondaggi e statistiche sociologiche – che una parte della denatalità sia dovuta alla evidente difficoltà che i giovani hanno nell’inserimento nel mondo del lavoro, che molte coppie rinunciano ad avere il terzo figlio o anche il secondo figlio non potendoselo permettere non soltanto per ragioni finanziarie, ma talvolta anche organizzative: incompatibilità della gestione dei bimbi all’asilo e a scuola con gli orari di lavoro, difficoltà nel trovare asili nido, difficoltà di inserimento professionale per la madre spesso oggetto di non dichiarate discriminazioni all’atto del colloquio di lavoro, e così via. Questo problema è particolarmente sentito da quelle coppie che sono costrette a spostarsi in un’altra città per motivi professionali (in un’epoca di tanto encomiato “lavoro flessibile” è una situazione altamente frequente) dove non possiedono una rete parentale ed amicale in grado di supportare la gestione dei piccoli.
All’art. 31 la nostra Costituzione recita: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi […]” E proprio qui troviamo uno dei punti meno applicati della nostra Carta Costituzionale. La formazione della famiglia vede oggi incentivi pubblici al limite della barzelletta. I contributi, o Assegno Familiare, per i figli a carico, per redditi lordi di qualche decina di migliaia di euro, ammontano a poche decine di euro mensili: chiunque abbia mai fatto la spesa al supermercato sa che basta riempire il carrello a meno di metà con prodotti per l’infanzia e questa cifra è già stata spesa; e, per il resto del mese, bisogna arrangiarsi con lo stesso stipendio di chi non ha mai avuto figli. I contributi per il coniuge a carico, per redditi sopra i 45.000 euro, non sono previsti nemmeno se la famiglia ha 4 figli. Non ci vuole molto a concludere che i lavoratori con figli subiscano una vera e propria discriminazione di ordine economico. Statistiche demografiche indicano che perfino la fertilità degli stranieri residenti in Italia, per gli stessi motivi, è non solo più bassa dei loro paesi di origine, ma è addirittura sotto la soglia di sostituzione (sic!) e, se per ipotesi l’Italia fosse abitata solo dai suoi immigrati senza ricevere flussi dall’estero, la popolazione decrescerebbe comunque. Tenuto presente quanto ridicoli siano gli incentivi per i figli, c’è casomai da sorprendersi che vi siano ancora coppie disposte a figliare.
I motivi di tanta spilorceria nell’incentivare la famiglia è sempre lo stesso: mancano i soldi. Ovvero: siccome l’Italia non è più un paese indipendente, siccome non possiede più da decenni una sua sovranità monetaria, siccome è costretta a pagare gli interessi passivi di un debito pubblico creato artificialmente da banche private, non ha i fondi per adempiere al fondamentale obbligo costituzionale di cui all’art. 31. Ecco perché riconquistare l’indipendenza e la sovranità monetaria diventa obbligatorio: senza questa conquista, ogni dibattito su nuove politiche familiari diventa fuffa. Per mancanza di denaro.
E sia chiaro che chi governa l’Italia oggi, dopo aver blaterato per anni sul “valore della famiglia” (Lega in primis), in realtà si guarda bene dallo scucire soldi per l’infanzia e l’istruzione. L’aiuto principale di cui hanno bisogno le famiglie oggi sono lavoro stabile, stipendi adeguati e assegni più consistenti per figli a carico. Senza andare a cercare esempi troppo rivoluzionari, nella vicina Francia hanno il quoziente familiare. Da noi invece, i Leghisti che adesso hanno responsabilità di governo e che hanno avuto in passato la responsabilità del Dicastero dell’Interno (governo Berlusconi IV 2008-2011, più svariati sottosegretari all’Interno nei governi Berlusconi II e III) non sono stati nemmeno capaci di promuovere una legge analoga in Italia, e anzi hanno espanso il precariato lavorativo dei giovani tramite Legge Biagi e Decreto Dignità. Salvo poi lamentarsi che “la famiglia è in crisi”.
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