Obama e i giochi a somma zero
“Dobbiamo assicurarci che sia l’America a scrivere le regole dell’economia globale, e dovremmo farlo oggi mentre la nostra economia è in una posizione di forza. Se non saremo noi a scriverle, allora – indovinate un po’- sarà la Cina a farlo. E quelle regole saranno stabilite a vantaggio dei lavoratori e degli affari cinesi”.
Così Barack Obama, in un discorso tenuto l’8 maggio 2015 in una fabbrica della Nike a proposito del TTP – il Trattato di Partenariato Transpacifico, omologo al trattato che con altrettanta determinazione sta sponsorizzando sulla sponda atlantica del mondo, il TTIP.
L’affermazione è coerente con il discorso pronunciato un anno prima a West Point, quando Obama aveva ribadito la sua profonda fede nell’eccezionalismo americano: “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, se i nostri interessi supremi lo domandassero… L’opinione pubblica internazionale è importante, ma l’America non domanderà mai il permesso […] Credo nell’eccezionalismo americano con tutte le fibre del mio essere”. Si tratta di una visione del rapporto fra gli USA e il resto del mondo comune a tutta la classe politica americana, democratica o repubblicana che sia, salvo poche e ininfluenti eccezioni; una visione arrogante, squisitamente imperialista – tanto obsoleta quanto tenacemente radicata – dove non è concepibile uno spazio di relazioni reciprocamente soddisfacenti ma solo quello della prevalenza degli interessi americani.
John Walsh in un articolo su Counterpunch, ne analizza le pericolose implicazioni. Walsh si chiede retoricamente cosa dia agli Stati Uniti – un paese con 320 milioni di abitanti – il diritto di stabilire le regole in una regione che ne conta quasi dieci volte di più, e dove un paese come la Cina può vantare un PIL che espresso in termini di potere d’acquisto ha ormai superato quello americano. Un sorpasso che la recente iniziativa cinese di creare la Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB) ha reso ancora più manifesto, non solo dal punto di vista economico ma anche politico: nata in contrapposizione alle istituzioni finanziarie occidentali del FMI e della Banca Mondiale – dove si pretende ancora ignorare le mutate condizioni geo-economiche e si continua ad attribuire ai paesi emergenti lo stesso ruolo marginale di settant’anni fa – in poco meno di un anno l’AIIB ha registrato la precipitosa adesione di 58 nazioni, fra cui, nonostante l’irritazione americana, paesi come l’Inghilterra e Israele, Germania e Francia, l’Arabia Saudita e persino (udite, udite!) l’Italia.
È il segno di un declino che lo stesso Obama ammette involontariamente: quel suo “dovremmo farlo oggi mentre la nostra economia è in una posizione di forza globale” implica la consapevolezza che quella posizione sta rapidamente cambiando.
L’approccio del gioco a somma zero (vinco io, perdi tu), quale traspare dalle parole del Nobel-sulla-fiducia, prevede che chi si trova in vantaggio stabilisce le regole a proprio favore. Questa è una logica che porta inevitabilmente al rancore, al sentimento di rivincita e prima o poi al conflitto. In un mondo multipolare, dai rapporti di forza instabili quale si va delineando oggi, essa è tanto anacronistica quanto pericolosa.
In questo mondo bellicoso l’unica strategia che possa sperabilmente assicurare una certa pace e prosperità per l’intero pianeta è quella del gioco a somma positiva: io vinco, tu vinci. Una strategia che sia la Cina che la Russia danno a intendere di voler perseguire nel loro rapporti con gli altri paesi emergenti, rapporti in cui si vuol far prevalere l’aspetto cooperativo e non quello competitivo.
Quanto ciò sia dettato da contingenze tattiche piuttosto che da una vera e propria filosofia politica è materia opinabile; ma strumentale o sincera che sia, la via ragionevole e questa. Il discorso di Putin al Valdai International Discussion Club, il 24 ottobre dell’anno scorso a Sochi, che è stato largamente ignorato dai media occidentali benché meritevole di ben altra diffusione presso la nostra opinione pubblica, esprime un atteggiamento geopolitico antitetico alla visione che caratterizza ogni presidenza statunitense, quella di Obama inclusa: il primato americano e il suo planetario destino manifesto.
Ora, nella retorica ufficiale la “predestinazione” viene comunemente estesa al popolo americano nel suo insieme, ma solo in quanto rappresentazione simbolica della Nazione; nella realtà il popolo americano è solo uno dei tanti strumenti a disposizione degli unici legittimi titolari dell’eccezionalismo: i gruppi elitari che detengono il potere e lo esercitano, direttamente o tramite le multiformi filiere politiche, burocratiche, militari e lobbistiche.
I due trattati transoceanici per cui tanto si sta adoperando il presidente Obama sono dunque progettati a esclusivo vantaggio di costoro e delle multinazionali che ne sono espressione. Si tratta di un ulteriore passo avanti nella costruzione di quel nuovo ordine mondiale che la globalizzazione sottintende, e che gli Stati Uniti – per destino manifesto, appunto – si immaginano chiamati a presiedere.
Alle popolazioni coinvolte spetta il ruolo passivo del consumatore culturalmente omogeneizzato e acquiescente, e in quanto tali è loro esclusa ogni partecipazione al progetto.
“I thought it wrong to consult the peoples about the structure of a community of which they had no practical experience“: ritenevo sbagliato consultare i popoli a proposito della struttura di una comunità di cui essi non hanno alcuna esperienza pratica. Questa singolare logica, sostenuta da uno dei padri fondatori dell’Europa, Jean Monnet, è la stessa che regge i negoziati TTIP/TTP: opacità, paternalismo, reticenze, contraffazioni.
Ai parlamentari non è consentito l’accesso alla documentazione, o se lo hanno è parziale e sotto vincolo di non pubblicizzazione. La gente dispone solo delle informazioni ufficiali, la cui attendibilità è assimilabile a quella di uno spot pubblicitario, e il dibattito pubblico viene accuratamente soffocato grazie anche alle compiacenti disattenzioni dei media. Per contro le multinazionali hanno accesso sistematico ai lavori e tramite le loro organizzazioni lobbistiche ne orientano la direzione a loro piacimento.
In pieno orgasmo da fine corsa, Obama vuole chiudere la partita dei trattati come “fiore all’occhiello” di un’amministrazione fallimentare, che tradendo tutte le aspettative ha solo confermato le politiche dell’amministrazione precedente, rendendo di fatto indistinguibile il suo mandato da quello di George Bush. Spinge per una loro approvazione al Congresso con procedura d’urgenza (fast track), il che limiterebbe il dibattito e impedirebbe la presentazione di emendamenti. Obama può contare sull’appoggio dei repubblicani e buona parte dei democratici, ma si è trovato tra i piedi l’opposizione della senatrice Elizabeth Warren – accademica ed economista – che giudica la procedura inaccettabile e accusa Obama di avere secretato il testo, “imbavagliando” di fatto il Congresso.
(Fra i due, tra l’altro, c’è vecchia ruggine per l’insistenza della senatrice a chiedere il ripristino di una regolamentazione bancaria del tipo Glass-Steagal Act, la cui abolizione a opera di Clinton nel 1999 è all’origine, secondo molti, della crisi finanziaria del 2008. Una misura che Obama non ha nessuna intenzione di prendere, nonostante le sue roboanti dichiarazioni all’indomani dell’insediamento, qualche mese dopo la bancarotta Lehman Brother).
La reazione di Obama è stata quella di accusare la Warren e chi come lei avanza critiche e riserve, di “diffondere false notizie”. Fra i disfattisti ha incluso Lori Wallach, giornalista e attivista contro la globalizzazione, direttrice del Global Trade Watch, conosciuta per la meticolosità e serietà con cui conduce le sue inchieste.
A questa reazione ha risposto l’avvocato e saggista Ralph Nader con una lettera aperta al Presidente, in cui lo sfida a un pubblico dibattito con i critici anziché limitarsi ad accusarli di allarmismo ingiustificato.
A fronte della massa di commenti inconsapevoli [?] da parte di giornalisti che presentano i negoziati come semplici accordi di promozione commerciale, poche voci in dissenso avvertono che si tratta invece di veri e propri trattati la cui attuazione comporterà seri rischi per l’ambiente, per la salute dei consumatori, per le condizioni di lavoro e per la sovranità stessa degli stati rispetto alle grandi multinazionali. Per fare chiarezza, chiede Nader “non sarebbe tempo che lei, signor Presidente, interagisse con i cittadini preoccupati e i loro rappresentanti, piuttosto che asserire unilateralmente che Elizabeth Warren sbaglia?… Perché non confrontarsi in un dibattito televisivo con la senatrice?”.
Nader prosegue:
“[…] Esattamente come il NAFTA e il WTO, il TPP [e il TTIP] è un sistema sovra-nazionale di gestione autocratica che subordina il nostro sistema giuridico e lo elude a favore di tribunali segreti, le cui procedure sono in contrasto con il nostro concetto di processo aperto, giusto e indipendente. Questi accordi, come Lei sa, prevedono coercitive disposizioni sui diritti e i privilegi delle multinazionali. [Per contro] Le retoriche rassicurazioni sui diritti dei lavoratori, dell’ambiente e dei consumatori non stabiliscono alcun dispositivo altrettanto vincolante.
[…] Il pubblico sarebbe interessato ad ascoltare le Sue spiegazioni circa l’effetto negativo che precedenti analoghe esperienze hanno provocato sulla nostra economia e sui lavoratori americani.
[…] Lei sostiene che Elizabeth Warren è in errore sulla clausola “Investor-State Dispute Settlement”, che consente alle multinazionali di sfidare i nostri regolamenti sulla salute, sulla sicurezza e quant’altro citandoci in giudizio non nei nostri tribunali ma davanti a corti internazionali di arbitraggio. Bene, sarebbe una perfetta base per un dibattito pubblico, non crede?
[…] Negli anni è emerso perfettamente chiaro che sono pochissimi i legislatori o i presidenti che leggono realmente il testo di questi accordi […] i più si accontentano di memoranda preparati da funzionari dell’USTR o delle organizzazioni lobbistiche.
[…] Qualcuno potrebbe anche chiedersi come mai Lei non chiami questo accordo “trattato”, come fanno altri paesi. Forse perché un accordo richiede solo il 51% dei voti del Congresso, anziché i due terzi richiesti per la ratificazione di un trattato?
[…] Secondo il Washington Post lei ha descritto come “disinformazione” le critiche che circolano sul TPP, e affermato che le avrebbe “respinte molto duramente se avesse continuato ad ascoltare cose del genere”. Bene. Le respinga duramente davanti a decine di milioni di persone avendo come controparte la senatrice Warren. E se d’accordo, si assicuri che gli americani interessati abbiano prima una copia dell’accordo, in modo che i telespettatori siano un pubblico informato.”
La lettera chiude con la rituale formula anglosassone “I look forward to your response“, rimango in attesa della sua risposta.
Rimaniamo in trepida attesa anche noi: chissà che un dibattito pubblico negli USA non ne provochi uno anche qui. Dopotutto l’Obama locale ce l’abbiamo già, manca solo una Elizabeth Warren. Possibile che in tutto il Parlamento italiano non se ne riesca a trovare una?
Riferimenti:
http://www.counterpunch.org/2015/05/04/i-dare-you-obama/
http://www.counterpunch.org/2015/05/18/obama-on-the-tpp-beckoning-us-to-the-graveyard/
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