Ceto dirigente o dominante?
Il concetto di classe, storicamente molto antico, emerge per la prima volta nell’opera di Tito Livio. Lo storico testimonia che nella società romana, in età monarchica, i cittadini erano divisi in cinque classi, al di fuori delle quali v’erano i proletari. La classe, dunque, era un gruppo sociale definito quanto al censo degli individui, che con il tempo comportava rango e status nella catena delle gerarchie. Perciò il termine, usato senza aggettivi, indica solitamente una classe sociale, che viene intesa in modi diversi e in rapporto alle altre. Nell’era moderna con lo sviluppo capitalista Marx la definisce all’interno dei rapporti di produzione. I proprietari dei mezzi di produzione e di scambio sono la classe dominante, che domina appunto sulle altre che dispongono soltanto della forza lavoro e, in ragione di questo possesso, esercita in esclusiva il potere politico. Quegli aspetti che Marx avrebbe considerato come sovrastrutturali rientrano invece nel concetto di “ceto” elaborato dal sociologo tedesco Max Weber (1864–1920), secondo cui la classe è status, distinzione sociale, derivante non tanto dal ruolo svolto all’interno del processo produttivo, quanto dal rango raggiunto all’interno della società nel suo complesso. Alla fine dell’Ottocento, in ambito conservatore, emerge la nozione di classe politica (Mosca, 1858 -1841) teorizzata nel concetto di élite (Pareto, 1848-1923). La classe politica è il gruppo dei pochi organizzati che, all’interno di qualsiasi sistema, democratico o socialista che sia, governa e ha la supremazia sull’insieme dei molti disorganizzati.
Mentre le diverse categorie formulate da sociologi e politologi, quali classe dominante, élite etc. hanno una precisa definizione teorica, “classe dirigente” sembra invece sfumare, definirsi al minimo, come un generico involucro che riesce a contenere i concetti sopra richiamati. Non solo i comuni parlanti e i giornalisti, ma anche gli stessi sociologi e gli storici trovano comodo usare l’espressione “classe dirigente” perché il concetto, pur essendo poco accessibile, è tuttavia capace di distendersi nel tempo e di incorporare gruppi sociali diversi, che acquisiscono gradualmente una carica di direzione e di guida. Fanno dunque parte della classe dirigente non solo i gruppi che detengono la supremazia economica e politica, ma anche quelli che emergono per preminenza professionale, accademica, culturale, o di rappresentanza sindacale, o di controllo degli apparati mediatici e, all’interno di questi, perfino coloro che intrattengono le masse con l’“infosvago” (infotainment). Perciò, il potere politico e le funzioni amministrative sono soltanto un aspetto dello status di classe dirigente, la quale esercita, in quanto gruppo referente della comunità, poteri connessi alla cultura, all’informazione, all’istruzione, alla religione e così via. Una vera classe dirigente, indipendentemente da ruoli e funzioni, influenza l’intera collettività ed è sempre dominante. Ma non sempre il ceto dominante assurge a ceto dirigente. D’altra parte la scelta di attribuire una valenza positiva al termine “dirigente” e una negativa a quello “dominante” comporta un giudizio morale e politico sull’élite o sul notabilato che governa un paese.
Cosa distingue un ceto pienamente dirigente da uno soltanto dominante? Si potrebbe riconoscere dirigente il ceto che si fa Stato e si identifica con il popolo, o comunque si prodiga per averne il consenso, sia pure in assenza di istituti o di circostanze in cui possa essere espresso. Pur curando i suoi interessi, la classe dirigente ha l’abilità di farli coincidere con il bene pubblico o almeno di accordarli con esso, o di farli sembrare coincidenti. Il ceto dominante invece è del tutto estraneo al popolo, avulso dalla nazione, straniero per lo Stato, insensibile a un’idea qualsiasi di patria. Il baronaggio meridionale, per esempio, era ceto dominante ma non dirigente, perché ignorava il popolo borghese e opprimeva il popolo contadino, e non si identificava con lo Stato; al massimo era fedele all’idea monarchica, ma non alla dinastia regnante. Per quella classe parassita un re valeva l’altro; essenziale diventava per essa una qualsiasi istituzione che tutelasse e salvaguardasse i privilegi dei proprietari terrieri latifondisti. Perciò, una qualsiasi dinastia, autoctona o allogena che fosse, ma che si offrisse a garantire i privilegi, trovava il barone pronto a cambiare nastro e giubba: Borbone o Savoia per me pari sono. Storicamente dunque, tra i connotati del ceto dominante, oltre a una palese estraneità al popolo e allo stato, il più abietto è la slealtà e la fellonia istituzionale, l’avere come punto di riferimento i centri di potere esterni allo stato di appartenenza, e agitare questi come spauracchio per imporre scelte di politica sociale antipopolare: punto di approdo che l’attuale classe politica italiana sembra avere già raggiunto. Ma negli anni della Prima Repubblica, a partire dal dopoguerra e fino al compimento dell’ambigua operazione passata alla cronica come “mani pulite”, la classe politica espressa dai partiti sia di governo che di opposizione, compatibilmente e in convivenza con la condizione di paese vinto e occupato, fu ceto dirigente, se non altro per il fatto che il sistema elettorale proporzionale lo costringeva a restare ancorato, pur nella degenerazione clientelistica, agli interessi del territorio e della popolazione che lo esprimeva.
Questo ceto cominciò a dissolversi o a mutarsi geneticamente con l’abbandono del sistema proporzionale sorto nel 1946 e in vigore fino al 2005. I referendum radicali dei primi anni Novanta indetti contro le leggi elettorali miravano a distruggere il sistema dei partiti politici di storia e tradizione europea e rientravano nel disegno generale di americanizzare l’intera società. Passando dal proporzionale al maggioritario, il ceto politico cominciò la lunga marcia per sganciarsi progressivamente dalla necessità di conquistare il consenso popolare. La graduale deriva verso il maggioritario, il doppio turno, il premio di maggioranza, la preferenza finta o imposta, è stata la ventennale operazione per rendere inutili, “indifferenti” i risultati elettorali. La sua riuscita, che sembra concludersi ai giorni nostri, è la presa d’atto, il sigillo dell’avvenuta concentrazione e trasmigrazione della vera dominanza politica presso centri di potere stranieri.
Non che il consenso elettorale sia necessario per far nascere un ceto dirigente, ma questo non può fare a meno del legame con il popolo come imprescindibile per la saldezza delle istituzioni. La storia, infatti, ci offre casi di ceti autenticamente dirigenti non sorti dal consenso popolare. I senatori dell’antica Roma repubblicana furono certamente un ceto dirigente di altissimo livello politico tuttora insuperato nella storia europea, ma non erano eletti dal popolo come tutte le altre magistrature; erano essi la res publica, ma non potevano concepirla senza il popolo (senatuspopulusque) . Anche oggi che il consenso popolare si esprime non solo ma soprattutto nelle elezioni, una classe politica che, pur non eletta, voglia ignorare il consenso popolare, sta progettando la sua metamorfosi in ceto dominante. Perfino il regime fascista, che rese inutili le elezioni, affinò e perfezionò lo strumento della propaganda ingannevole per farsi accettare dal popolo.
Alla luce di queste considerazioni è indubbio che, da almeno un ventennio, in Italia i governi sono formati da un ceto dominante, segmento ed espressione di una iperclasse apolide, i cui interessi coincidono con quelli della finanza sovranazionale. Nessun legame popolare coltiva questo notabilato eurounionista che, anno dopo anno, distrugge la Costituzione e ritocca la legge per rendere irrilevante e insignificante qualunque esito elettorale. A questa classe politica il consenso non serve. Non più eletta ma cooptata e designata dall’estero, essa rappresenta un baronaggio che si annida nella coalizione unica dei partiti di sinistra destra, nelle banche, nelle università e negli apparati massmediatici, estraneo al popolo e legato agli interessi stranieri. Come non vi è conflitto tra classi, scomparse o livellate dalla macelleria sociale, così non v’è conflitto all’interno della coalizione unica dei dominanti cooptati e designati, i quali non devono bilanciare poteri come in democrazia, ma vogliono innanzitutto sopravvivere politicamente, cioè conservare rendite e posizioni di potere. Le eventuali lotte accanite che scoppiano al loro interno, sono soltanto liti tra servi nel sottoscala su chi meglio serve i padroni euroatlantici dei piani alti.
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