Scuola e Informazione: antidoti alla deriva del Capitale
“(…) eccovi la candela che vi vien porgiuta
per questo Candelaio che da me si parte,
la qual in questo paese, ove mi trovo,
potrà chiarir alquanto certe Ombre dell’idee,
le quali in vero spaventano le bestie e,
come fussero diavoli danteschi,
fan rimanere gli asini lungi a dietro;
ed in cotesta patria, ove voi siete,
potrà far contemplar l’animo mio a molti,
e fargli veder che non è al tutto smesso (…)”
Giordano Bruno, Candelaio, dedica, 1582
La crisi economica è una crisi di debito pubblico. Per anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Un po’ di austerità e di rigore nei conti non potrà che far bene. Flessibilizzare e precarizzare ulteriormente il mercato del lavoro non potrà far altro che rilanciare l’occupazione. Dallo scoppio della crisi nel 2008 – ma anche da prima – assistiamo alla ripetizione ad nauseam di queste proposizioni che, sistematicamente, vengono spacciate per asserzioni inequivocabilmente, scientificamente ed universalmente valide. Ascoltiamo e leggiamo elogi entusiasti del Jobs Act e della Buona Scuola così come del Pareggio di Bilancio e del Quantitative Easing da parte di commentatori bipartisan di quotidiani, riviste ed emittenti radiotelevisive. Poi, come macigni, arrivano i dati dell’Istat e di tutti gli altri istituti di rilevazione statistica a testimoniare i fallimenti delle politiche attuate dai governi italiani, ma anche europei, da più anni a questa parte. Eppure questi dati vengono poco o nulla recepiti dalle masse, dai lavoratori, dagli appartenenti alla middle class. D’altronde, questo era stato uno degli input che avevano dato origine al dibattito sulla necessità dell’istituzione della media education, specie tra gli osservatori più pessimisti e spaventati dall’avvento della televisione, dal rischio consumo passivo e a-critico e dalla rielaborazione indotta di un messaggio: il consumatore mediatico sottoposto alle logiche commerciali dei media fa fatica a opporsi in qualità di destinatario ai messaggi lanciati dagli emittenti in un circuito semiotico che appare monodirezionale (il lettore/ascoltatore/telespettatore raramente ha l’opportunità di replicare al messaggio recepito dall’emittente).
Quindi il politico tal dei tali potrà sostenere indisturbato che l’ennesima legge X avrà effetti splendidi sull’economia Y fornendo in più dei dati che agenzie di stampa e commentatori televisivi si affretteranno a rilanciare nei loro spazi dedicati all’attualità. Dati, però, che possono anche essere parziali o peggio ancora falsi. La televisione, così come la radio, i quotidiani e le riviste ci mostrano la realtà. Ma ciò è vero? La realtà è “reale”? Il filosofo franco-algerino Jacques Derrida ha avuto modo di interrogarsi su tale questione, affermando che l’attualità e dominata da due caratteristiche: artefattualità ed attuvirtualità. In questa riflessione ci interessa solo la prima caratteristica: la realtà mediatica è artefattuale, è artificialmente prodotta e mediata (formattata) da dispositivi mediali. Insomma:
“(…) l’attualità, per l’appunto, è fatta (…) essa non è data ma attivamente prodotta, vagliata, investita, performativamente interpretata da numerosi dispositivi fittizi o artificiali, gerarchizzanti e selettivi, sempre al servizio di forze e di interessi che i “soggetti” e gli agenti (produttori e consumatori di attualità – talvolta sono pure dei “filosofi” e sempre degli interpreti) non avvertono mai abbastanza. L’ “attualità”, per quanto la “realtà” cui si riferisce sia singolare, irriducibile, testarda, dolorosa o tragica, giunge a noi attraverso una fattura finta [fictionelle] (…) Non si dimentichi mai tutta la portata di questo segnale: quando un giornalista o un uomo politico sembra rivolgersi a noi, a casa nostra, guardandoci dritto negli occhi, egli (o essa) sta leggendo, sullo schermo, dettato da un “suggeritore”, un testo elaborato altrove, in un altro momento, talvolta da altri, ossia da tutta una rete di redattori anonimi” (cfr. Derrida, Jacques e Stiegler, Bernard, 1996, op. cit. pp. 3-4).
L’attualità quale noi la percepiamo dai media è “mediata” – mi si concederà il gioco di parole – ovvero è falsificabile ed infatti Derrida utilizza il termine fictionelle che potremmo rendere in italiano attraverso il termine finzionale. Una realtà finzionale – o fictionale – è quella proposta nelle sceneggiature cinematografiche e televisive, una realtà non vera ma simile alla “realtà vera”. Il problema è che in qualità di destinatari di messaggi mediati monodirezionali – pur nel limite delle nostre rispettive specificità e conoscenze che rendono difficilmente utilizzabile la nozione di “massa” – entriamo, successivamente al momento della ricezione, in un processo di rielaborazione e reinterpretazione di tali messaggi. Si viene a creare un processo durante il quale
“(…) Le persone discutono infatti i messaggi dei media anche successivamente a tale attività; li elaborano in modo discorsivo e li condividono con altri individui, a prescindere da se o no tali individui abbiano partecipato al processo di ricezione originario. In questo ed altri modi, i messaggi dei media vengono ritrasmessi al di là del contesto iniziale della ricezione, e trasformati grazie ad un processo di continua narrazione e resoconto, interpretazione e reinterpretazione (…) Nel ricevere e appropriarsi dei messaggi dei media, gli individui si impegnano inoltre in un processo di autoformazione e autocomprensione (…) ci impegniamo implicitamente nella costruzione di un senso di noi stessi, di chi siamo e quale posto occupiamo nello spazio e nel tempo. Modelliamo e rimodelliamo costantemente le nostre capacità e il repertorio di conoscenze che possediamo, mettiamo alla prova i nostri sentimenti e gusti e allarghiamo gli orizzonti della nostra esperienza. Per mezzo dei messaggi e dei contenuti di significato forniti (tra le altre cose) dai prodotti dei media, plasmiamo attivamente la nostra identità” (Thompson, John B. , 1995, op. cit. pp. 66-67).
I messaggi dei media – che sono artefattuali – concorrono a determinare le nostre conoscenze, le nostre credenze, i nostri comportamenti e le nostre identità. Charles Sanders Peirce, filosofo statunitense vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo e dotato di interessi variegati che spaziavano dalla logica alla matematica, ebbe modo di dedicarsi proprio alle riflessioni sulle “credenze”. Padre del Pragmatismo, Peirce si è dedicato nel corso delle sue riflessioni al processo cognitivo alla base della ricerca scientifica ed ha mostrato come il nostro comportamento sia derivato dalle nostre credenze. Noi crediamo qualcosa e ciò determinerà il nostro comportamento (abito o habit): «le nostre credenze dirigono i nostri desideri e formano le nostre azioni (…) il dubbio non ha mai questo effetto» (Maddalena, Giovanni, a cura di, 2005, op. cit., p. 191). Alla base di questo processo vi è, dunque, una dialettica tra dubbio e credenza: lo stato cognitivo del dubbio è qualcosa che l’uomo tende ad evitare, aggrappandosi ad una credenza, in quanto provoca un senso di disagio e di irrequietezza. Ma «appena abbiamo raggiunto una credenza ferma, siamo completamente soddisfatti, sia che la credenza sia falsa sia che sia vera (…) noi andiamo in cerca di una credenza che dobbiamo pensare sia vera. Ma di ciascuna delle nostre credenze pensiamo che sia vera, e il dir questo, infatti, è una semplice tautologia» (ivi p. 192). Ma come si crea una credenza? I metodi enumerati da Peirce sono quattro: tenacia, che consiste nel restare aggrappati in maniera cieca ad una opinione ed evitare qualsiasi cosa possa farla vacillare (cosa che a Peirce sembra simile al comportamento degli struzzi che nascondono la testa sotto la sabbia alla vista di un pericolo); autorità, utilizzato specialmente dalle istituzioni statali e religiose che fissano una credenza attraverso la coercizione del popolo (arresto, esilio, tortura, carcere) che – impaurito – finirà per omologare le proprie credenze; a-priori, successivo in ordine temporale al metodo dell’autorità nasce perché il popolo prima o poi inizierà a pensare in maniera autonoma, ma le credenze ottenute così si riveleranno troppo simili al singolo gusto personale; il metodo scientifico, unico valido in quanto persegue il fissarsi di credenze condivise in quanto scientificamente e logicamente evidenti (ivi p. 193-203).
Qualche lettore, adesso, potrebbe considerare come stucchevoli queste riflessioni: arriviamo, dunque, al nocciolo della questione dopo questo – forse prolungato – preambolo. Allo stato attuale della crisi economica sembra di trovarci di fronte a credenze sulla crisi stessa che si generano in maniera simile al metodo dell’autorità per come Peirce ce lo spiega: le istituzioni (nazionali e sovranazionali come governi, Commissione Europea, BCE, FMI) in maniera subdolamente coercitiva spingono il Popolo ad omologarsi alla credenza in base alla quale questa crisi è di debito pubblico e la si supera solo con una ulteriore spinta verso la finanziarizzazione dell’economia e lo smantellamento dello Stato Sociale. Non ci sono più torture o arresti preventivi a “disciplinare” l’uomo medio, ma la Propaganda, l’artefattualità e la realtà fictionale (Peirce, d’altronde, morirà prima di vedere all’opera la macchina del consenso di massa negli anni precedenti lo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale). Poco alla volta, in questi anni, le voci critiche nei confronti del regime dell’austerità si sono moltiplicate, ma spesso si è assistito alla proliferazione di posizioni discutibili come quelle di chi l’austerità vuole combatterla rimanendo nell’euro o come quelle di chi sostiene la necessità di tutelare il diritto al lavoro senza euro ma all’interno dei vincoli commerciali della UE. Inevitabilmente questo tipo di credenza che sta proliferando appare come il terzo passaggio, ovvero quello dell’a-priori: alla base della speranza illusoria che si possano riformare le istituzioni della Troika (o Brussels Group, se preferite) vi è una evidente comprensione lacunosa del problema in questione nonché un certo esercizio eccessivo del gusto personale. Capire e superare la crisi si può solo approcciandosi a tali problemi con il ricorso più aderente possibile al metodo scientifico: ciò, però, è un qualcosa di difficile attuazione al momento – nonostante i primi timidi passi di qualche esponente politico del PD ed il dibattito in fase embrionale e non del tutto “esploso” – a causa dello stato critico in cui versano la scuola e l’informazione italiana. La Costituzione della Repubblica Italiana afferma in vari passaggi, per di più in maniera esplicita, la funzione e l’importanza capitale dell’istruzione pubblica (Art. 9), mentre in altri passaggi questa funzione è piuttosto implicita (Art. 3 c.2; Artt. 33 e 34). Ma da oltre un ventennio governi di vario colore sembrano piuttosto orientati a far collassare tutto il sistema dell’istruzione pubblica: riduzioni progressive delle risorse economiche – già l’Italia fa i conti con uno storico sottofinanziamento della scuola rispetto agli altri membri UE in percentuale del PIL – conseguente riduzione del numero di professionisti della didattica e degli strumenti necessari allo sviluppo del cittadino (inclusi i fondi all’edilizia scolastica), nonché riforme basate su una didattica tesa a svuotare l’istruzione della propria autonomia e della propria funzione primaria alla quale si sostituisce la tensione verso la formazione di manodopera per il mercato del lavoro (cfr. Alcaro, Mario, 2003, op. cit.), hanno progressivamente trasformato le scuole italiane (e le parole spese dall’attuale Governo-Renzi tramite il Ministro dello Sviluppo Economico Poletti sulla necessità dell’alternanza scuola-lavoro suonano quanto mai preoccupanti).
D’altro canto, nemmeno l’informazione sembra passarsela bene, visto che l’ONG statunitense Freedom House ci ha inserito al sessantacinquesimo posto su centonovantanove nella classifica dei Paesi con maggiore libertà di stampa. La regola non scritta del “dimmi che editore hai e ti dirò chi sei” nonché la storica longa manus dei partiti politici sulla Rai dimostrano ampiamente come una corretta informazione ed un elementare dibattito sulla crisi siano formalmente ostacolati. Il giornalismo è piegato alle logiche del mercato in base alle quali bisogna vendere, non informare, e persino la scuola vede mutare il proprio ruolo giacché è spinta a fornire manodopera qualificata a datori di lavoro che non abbisognano di competenze e conoscenze tipiche del cittadino per come dovrebbe essere (l’implementazione delle capacità manuali e del problem solving nelle riforme della didattica scolastica è strumentale ad un bisogno di lavoratori bravi e produttivi ma scientificamente indotti in uno stadio di assenza pressoché totale di capacità cognitive autonome – devi produrre, non pensare). Con questo torniamo al punto iniziale: come salvarsi dal baratro?
Scuola e informazione sono i due campi di battaglia principali su cui si giocherà la guerra tra il Popolo e le élites neoliberiste. La scuola deve creare donne e uomini in grado di compiere il proprio dovere di cittadini che partecipano al progresso della società e l’informazione deve essere strumentale ad un corretto esercizio della democrazia.
BIBLIOGRAFIA:
– Alcaro, Mario, 2003, Economia totale e mondo della vita. Il liberismo nell’era della biopolitica, Manifestolibri, Roma
– Derrida, Jacques e Stiegler, Bernard, 1996, Écographies de la télevision, Éditions Galiléè/Institut national de l’audiovisuel, Paris (tr. it. Ecografie della televisione, 1997, Cortina, Milano)
– Maddalena, Giovanni (a cura di), 2005, Scritti scelti di Charles Sanders Peirce, UTET, Torino, pp. 185-203
– Thompson, John B. , 1995, The Media and Modernity. A Social Theory of the Media, Polity Press, Cambridge (tr. it. Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, 1998, il Mulino, Bologna)
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