di STEFANO ROSATI (FSI-Riconquistare l’Italia Rieti)
Nel 1869 Stuart Mill, ispirato dalla moglie Harriet, frattanto morta, pubblicò il saggio La soggezione delle donne dove propugnava l’estensione del diritto di voto alle donne. Ma non a tutte le donne. Come ogni liberale, infatti, Stuart Mill legava il diritto di voto al censo perché solo chi paga le tasse non è propenso a finanziare con le tasse programmi di spesa pubblica a cuore leggero. Programmi che, per inciso, sono quelli che cambiano l’ordine delle cose veramente. L’ascensore sociale è la spesa pubblica fatta per bene, con rigore e severità. L’emancipazione sociale senza veri servizi pubblici finanziati tramite spesa pubblica è un fenomeno eccezionale, marginale, residuale: trascurabile.
Per un liberale questa “eccezionalità”- che non sposta di una virgola gli equilibri del sistema – va benissimo: si chiama merito (o meritocrazia di cui parlano gli ingenui), dà l’illusione che le cose possono migliorare e invece serve solo a confermarle e rafforzarle. Per Stuart Mill, ossia per un liberalismo aggiornato e moderno, il progresso richiede il diritto di voto anche alle donne, ma non a tutte le donne. Solo a quelle che hanno reddito sufficiente.
Insomma, il femminismo liberale, quello in cui siamo tutt’ora immersi, quello che vedete in televisione, quello secolarizzato, quello della prima donna presidente, della prima donna papa, della prima donna arbitro, della prima donna sulla luna, della pignatta di fagioli più grande del mondo non è altro che guinness dei primati. È totalmente, intrinsecamente, spudoratamente conservatore. Per costituzione è assolutamente incapace di cambiare nulla, anzi non gli interessa proprio di cambiare qualcosa che non sia altro che garantire la par condicio tra certi uomini e certe donne (quelli con adatto reddito o di adeguata classe sociale) nella lotta per la conservazione del potere all’interno di un ben individuabile ceto. Alcune limitate eccezioni sono benvenute, rafforzano la credibilità del sistema.
Insomma viviamo immersi nel femminismo liberale, un sottoprodotto di una cultura classista e schiavista, penosa e retrograda che non ha nulla a che vedere con l’emancipazione né della donna né dei sottomessi e degli sfruttati. Il femminismo senza socialismo è robaccia. Tiriamo la catena e voltiamo pagina.
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