Votare NO: non “contro Renzi”, bensì per fermare un processo di aggressione alla sovranità popolare che va avanti da quarant’anni
di RICCARDO PACCOSI (FSI Bologna)
In genere, se realizzo con i miei compagni di lavoro un’opera artistica – comica o drammatica che sia – non mi metto a spiegarne i diversi piani di lettura. Rispetto al video comico IL NOH PER IL NO di alcune settimane fa, però, faccio un eccezione in modo da poter esprimere, tramite tale spiegazione, un mio ultimo appello a votare NO al quesito referendario del 4 dicembre.
Al netto della scelta stilistica di utilizzare una comicità surreale-demenziale, infatti, il video che ha girato in queste settimane si è proposto di veicolare alcune considerazioni teoriche e storiche ben precise.
Abbiamo sentito, nei vari dibattiti di questi giorni, critiche alla Riforma Renzi-Boschi che assumevano i presupposti di quest’ultima criticandone, quindi, soltanto l’aspetto dell’efficacia. Dunque, hanno circolato sui media numerose osservazioni sul fatto che la riforma sarebbe pasticciata, sul fatto ch’essa non limiterebbe i costi della politica e sul fatto che, soprattutto, non garantirebbe il dichiarato obiettivo della “governabilità”.
Se davvero fossero queste le ragioni di opposizione alla riforma, allora tanto varrebbe votare SI. Avrebbe cioè qualche ragione il fronte filo-governativo nel sostenere, come sta facendo, ch’è meglio una riforma imperfetta piuttosto che l’immobilità.
Il punto, invece, è che sono proprio gli obiettivi dichiarati della riforma a dover essere rigettati, primo fra tutti il concetto anti-parlamentarista e anti-democratico di “governabilità“, che domina il dibattito politico italiano da diversi decenni.
Ma procediamo in ordine cronologico. Se avete visto il video comico fino ai titoli di coda, avrete notato una sequenza di citazioni che parte dagli anni ’70 per poi arrivare fino ai giorni nostri. Quella sequenza intende esprimere la seguente tesi: un gigantesco imbroglio ideologico viene portato avanti, da oltre quarant’anni, con il solo obiettivo di indebolire gli organisimi di rappresentanza e di mediazione popolare (partiti, sindacati, parlamento) e, di conseguenza, con il risultato d’indebolire quel relativo ma effettivo potere popolare che si è consolidato negli Stati-nazione europei a partire dal Dopoguerra.
L’inizio dell’attacco alle istituzioni di mediazione, è partito a sinistra. Riprendendo la dicotomia categoriale fra costituzione “materiale” e “formale” ideata dal costituente Costantino Mortati, due figure teoriche molto distanti fra loro – Norberto Bobbio e Toni Negri – negli anni 1976-1977 presero a divulgare la seguente idea comune: la società sta cambiando, le strutture di mediazione – cioè partiti e sindacati – non riescono più a svolgere un ruolo di rappresentanza nei confronti di questa nuova composizione sociale; le conseguenze da trarre rispetto a questo fenomento di trasformazione, ebbene, sia secondo Bobbio che secondo Negri constano del fatto che tutto quanto sia colpa della Costituzione e che, di conseguenza, quest’ultima sia da considerare superata. Quali articoli e commi della Carta impedirebbero la relazione fra società e istituzioni rappresentative, ovviamente, i due teorici in questione non si sono mai presi la briga di spiegarlo.
Subito dopo, il ritornello “è tutta colpa della Costituzione quindi bisogna cambiarla” si è spostato a destra, traducendosi in un progetto politico vero e proprio. Questo progetto ha preso forma intorno al 1980 col Piano di Rinascita Democratica della P2 ed è proseguito, nei suoi lineamenti essenziali, fino ai giorni nostri. In buona sostanza, il progetto in questione parte dall’idea di superare l’impianto parlamentarista della Repubblica e, soprattutto, di ridurre il livello di rappresentanza fra popolo e organismi elettivi: meno rappresentanza, meno contrappesi e contropoteri per l’azione governativa.
Tutto questo è stato propagandato attraverso un’opera di discredito – in tutto e per tutto identica a quella a suo tempo messa in atto dal fascismo – contro gli organismi di mediazione sociale e potere popolare quali partiti e sindacati. I dispositivi ideologici sono stati tutti all’insegna del disprezzo della democrazia: contro la lentezza di quest’ultima, dicevano e dicono i coreuti del “fare le riforme”, occorre la velocità e la governabilità; contro “i costi della politica”, occorre ridurre quantitativamente la rappresentanza popolare e così via.
Dunque, tutto ciò che ha assunto e assume la locuzione “fare le riforme“, non esprime altro che un quarantennio di propaganda anti-democratica contro la Repubblica parlamentare e alla quale, purtroppo, si sono conformati tanto la destra quanto la sinistra.
Il colmo della mistificazione ideologica è ravvisabile nel fatto che questo dibattito sia iniziato, a sinistra, proprio per denunciare il deficit di rappresentanza ma poi, attaccando gli organismi della mediazione e del potere popolare, abbia finito per promuovere un progetto di riduzione ulteriore della medesima.
Nel corso dei decenni, l’aggressione alla democrazia parlamentare e al potere popolare si è espressa in vari modi e tramite vari attori politici:
– si è espressa col progetto – propugnato da Gelli, poi da Craxi e infine da Berlusconi – di trasformare la Repubblica in senso presidenzialista;
– coi referendum promossi da Mario Segni, nei primi anni ’90, per far sì che il sistema istituzionale italiano scimmiottasse – unico in Europa – il modello bipolare-bipartitico dei paesi anglosassoni;
– coi tentativi di realizzare il semi-presidenzialismo e il monocameralismo, espressi dalla Bicamerale di Massimo D’Alema a metà anni ’90;
– nelle reiterate dichiarazioni sul “superamento della Costituzione” pronunciate da Beppe Grillo fra il 2008 e il 2011;
– nel lungo processo di eversione, ordito dai poteri economici (Corriere della Sera in testa), che ha reso l’Italia uno dei pochi paesi al mondo – e l’unico in Europa – senza finanziamento pubblico ai partiti; lasciando così questi ultimi totalmente foraggiati, indirizzati e dipendenti dalle èlite economiche;
– nei tentativi di riforma dell’Articolo 138 – quello che regola le modifiche alla Carta – propugnato nel 2013 dal Governo Letta;
– ma soprattutto, due azioni di riforma hanno dimostrato come in gioco non ci sia soltanto la Costituzione italiana, ma il costituzionalismo stesso come dottrina dello Stato vigente nei paesi europei dal XIX secolo; le azioni in questione sono la riforma dell’Articolo 81 messa in atto dal governo Monti nel 2012 e il ridimensionamento del concetto di Nazione nella riforma dell’Articolo 55 prevista dalla Renzi-Boschi: in un caso come nell’altro, il progetto è constato e consta dell’attribuire a organismi eurofederali NON elettivi – Commissione Europea e Banca Centrale Europea – l’autorità decisionale e definitiva sulle politiche sociali ed economiche; di fatto, questo rappresenta la fuoriuscita dal paradigma del costituzionalismo e l’introduzione graduale di una nuova forma di assolutismo.
In conclusione, votare NO significa cogliere l’occasione per effettuare una cesura storica. Il progetto di eversione anti-parlamentare e anti-democratica che le classi dominanti stanno portando avanti da oltre tre decenni, infatti, subirebbe la sua prima battuta d’arresto o, come minimo, subirebbe un forte scacco sul piano simbolico.
Domenica non si vota pro o contro Renzi, bensì pro o contro il concetto anti-democratico e post-umano di “governabilità” propagandato dalla classe dominante.
Domenica si vota per ristabilire il primato della rappresentanza elettiva, contro quella propaganda criptofascista sui “costi della politica” che tale rappresentanza vuole invece ridimensionare.
Domenica si vota per affermare il principio della sovranità popolare contro i tentativi, da parte degli ideologi della globalizzazione, di attribuire potere decisionale alle istituzioni non elettive dell’Unione Europea e di riportare indietro, così, le lancette della storia al Settecento ovvero alla fase precedente la nascita del costituzionalismo.
Domenica si vota pro o contro la locuzione “fare le riforme”, ovvero pro o contro quell’ideologia che vuole uniformare la società agli interessi del mercato e delle minoranze elitarie che controllano quest’ultimo. E questo significa, altresì, che domenica si vota per prendere posizione su un conflitto di classe.
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