L’ideologia dello Stato Islamico: più coerente e consistente del nazionalsocialismo
di ROBERT MANNE, pubblicato in The Guardian – The Observer, 3 novembre 2016, traduzione di Sergio Federici (FSI Bologna)
La concezione dello Stato Islamico: più coerente e consistente del nazismo
Alle ideologie politiche occorrono decenni per formarsi. Quella dello Stato Islamico è l’ultima replica di una ideologia che si è sviluppata per 50 anni.
Nel giugno del 2014 le forze armate di un gruppo che al tempo si era dato il nome di Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham (Isis o Isil) si impadronirono di Mosul, la seconda o la terza città più popolosa dell’Iraq. Secondo una stima, gli Stati Uniti avevano investito, o meglio sprecato, 25 miliardi di dollari nell’esercito iracheno che ora fuggiva terrorizzato.
L’Isis aveva già dissolto il confine che dalla prima guerra mondiale divideva l’Iraq dalla Siria e che è derisoriamente indicato come il frutto del complotto anglo-francese “Sykes-Picot”. Poco dopo, l’Isis abbreviò il suo nome in Stato Islamico e dichiarò che il califfato secolare, abolito nel 1924 dal presidente turco Kemal Atatürk, era ora rinato.
Il califfo era l’ex capo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. Secondo lo Stato Islamico più di un miliardo e mezzo di musulmani viventi in ogni continente del globo dovevano ora fedeltà a Baghdadi.
L’Isis aveva occupato territorio in Iraq e in Siria durante i due anni o più trascorsi. Dopo la caduta di Mosul, lo Stato Islamico aveva la dimensione del Belgio. Ma è anche vero che fino a quel momento, a parte una manciata di studiosi e un piccolo numero di strateghi militari e di funzionari dello spionaggio, all’avanzata dell’Isis era stata data scarsa attenzione negli Stati Uniti.
All’inizio del gennaio 2014 il direttore del New Yorker, David Remnick, fece un’intervista ad ampio raggio sulla politica estera al presidente Barack Obama. Alcuni giorni prima, come Remnick segnalò ad Obama, la città sunnita di Falluja era caduta in mano all’ISIS. L’intervistatore pungolò Obama: “Anche nel periodo in cui lei è stato in vacanza, nelle ultime due settimane, in Iraq, in Siria e, naturalmente, in Africa, al-Qaeda sta risorgendo.”
Obama replicò in tono sprezzante: “Sì, David, ma penso all’analogia che a volte usiamo in questi casi, e penso che sia accurata: se degli studenti dilettanti indossano la tuta dei Los Angeles Lakers, questo non li fa diventare Kobe Bryant.”
Questo commento diventò famoso. A quel tempo l’amministrazione Obama non era ovviamente preoccupata per il potere crescente dell’Isis. Né Remnick né Obama sembravano aver capito che i rapporti tra al-Qaeda e Isis erano spezzati. Come accade, nel giugno del 2014 partecipai ad una conferenza a Canberra alla quale partecipò anche Kurt Campbell, un ex alto funzionario del Dipartimento di Stato americano, da poco andato in pensione. Non sembrava né meglio informato né meno perplesso di me dalla svolta degli eventi in Iraq.
Dopo la caduta di Mosul, l’indifferenza del mondo occidentale alla nascita dell’Isis, ora Stato Islamico, svanì rapidamente. Mentre si accumulavano le ipotesi sulla sicurezza della stessa Baghdad, il mondo veniva a sapere dei molti atti barbarici e atroci – delle decapitazioni pubbliche di ostaggi occidentali; dei massacri delle truppe nemiche catturate, dei musulmani ‘eretici’ sciiti e alawiti e dei Drusi e degli Yazidi, tutti con un proposito genocida apertamente ammesso; della creazione di mercati delle donne con il proposito della schiavitù sessuale; della lapidazione delle mogli adultere; del ripristino della pena della crocefissione; dei roghi, in un caso famoso di un pilota giordano catturato e rinchiuso dentro una gabbia; dell’uccisione degli omosessuali, buttati dal tetto degli edifici più alti delle città. Tutte queste morti erano pubbliche. Molte divennero famose nel mondo con l’ampia diffusione di video di alta qualità e di riviste on-line.
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Durante il periodo delle mie ricerche lo Stato Islamico pubblicò in parecchie lingue, compreso l’inglese, una rivista trimestrale on-line intitolata “Dabiq”. Dabiq era chiaramente scritto da un certo numero di intellettuali con una preparazione sulle principali fonti della religione islamica. Ogni numero era tra le 60 e le 80 pagine, e includeva articoli ben scritti, a volte molto lunghi.
L’argomento più importante su Dabiq era il desiderio dello Stato Islamico di distruggere quelli che considerava suoi nemici storici e attuali – specialmente i musulmani sciiti, i Rafida; i loro cugini siriani, gli Alawiti o i Nusayris; i popoli apostati, gli Yazidi e i Drusi; l’occidente cristiano, i “crociati”; e gli eterni nemici dei musulmani, gli ebrei. Nonostante la sua sofisticazione intellettuale, ogni pubblicazione di Dabiq conteneva articoli escatologici, concernenti, ad esempio, la natura del Dajjal (l’equivalente dell’Anticristo per i Rafida), oppure la battaglia imminente della fine dei tempi, dal cui campo di battaglia profetizzato, la città di Dabiq, la rivista prendeva nome.
La rivista aveva parecchie caratteristiche regolari. Ogni numero offriva dettagli sui trionfi militari dello Stato Islamico e dei suoi affiliati, inclusi sia le operazioni militari vere e proprie che gli attacchi dei “lupi-solitari” contro i nemici crociati in occidente. (Era però estremamente reticente sui retroscena). Ogni numero conteneva foto raccapriccianti dei nemici che aveva eliminato – gli ostaggi decapitati occidentali o giapponesi, il pilota giordano immolato, e decine di foto di cadaveri delle truppe nemiche catturate e degli Sciiti, Alawiti, Yazidi che aveva massacrato.
Ogni numero raccontava la storia di nobili mujaheddin “martiri”, nella rubrica “Tra i credenti ci sono uomini”. In una colonna regolare chiamata “Dalle nostre sorelle” si discutevano le questioni concernenti le donne – i vantaggi della poliginia; i meriti della schiavitù sessuale; e il ruolo indispensabile delle madri nel provvedere un’educazione adeguata ai “leoni cuccioli”– la generazione successiva di soldati. Tra le preoccupazioni maggiori di Dabiq c’erano l’orrore della vita nelle società infedeli (kuffar) dell’occidente e l’obbligo religioso dei musulmani sparsi per il mondo di intraprendere la migrazione nello Stato Islamico (hijrah) ora che il califfato era stato costituito.
Dabiq era ossessionato dalle micro – politiche interne della guerra civile in Siria, in particolare dal conflitto dello Stato Islamico con il suo precedente alleato in Siria, il Fronte al-Nusra. Diventò ossessionato anche dalla debolezza e dal tradimento della causa islamica da parte di Ayman al-Zawahiri, l’attuale guida di al-Qaeda. In diversi numeri Dabiq pubblicò strani articoli non islamici di uno dei suoi ostaggi occidentali, John Cantlie, che nello stile sarcastico di un “Lord Haw-Haw”[i] contemporaneo fustigava gli Stati Uniti per la loro crudeltà e la loro follia. Dabiq conteneva pure una rubrica regolare intitolata “Nelle parole del nemico”. Vi si provava un piacere speciale per i commenti dei massimi generali, politici e giornalisti americani che esprimevano ansia per la forza crescente dello Stato Islamico e per il pericolo che rappresentava.
Le pagine di Dabiq esprimono un’ideologia di notevole consistenza e coerenza interna, non meno consistente e coerente del marxismo-leninismo dell’Unione Sovietica durante l’epoca di Stalin; più consistente e coerente, secondo me, dell’ideologia del nazismo. Se si può assumere che Dabiq rappresenti la visione del mondo ufficiale dello Stato Islamico, è sorprendente quanto poco sia stato studiato dai ricercatori specializzati. È stato la mia fonte primaria per comprendere la mentalità della guida attuale dello Stato Islamico.
Occorrono decenni per formare le ideologie politiche. La concezione dello Stato Islamico rappresenta l’ultima replica di un’ideologia che si è sviluppata per oltre 50 anni. Tra gli studiosi c’è ancora un parziale dissenso su chi abbia dato i contributi più significativi. C’è comunque un consenso più o meno generale sul fatto che l’ideologia dello Stato Islamico sia fondata sugli scritti in carcere di un rivoluzionario egiziano dei Fratelli Musulmani, Sayyid Qutb, in particolare su alcune sezioni del suo commento “All’ombra del Corano”, ma soprattutto sulla sua opera visionaria “Pietre miliari” pubblicata nel 1964.
Qutb sosteneva che il mondo intero, inclusi i presunti stati islamici, fossero caduti in un’epoca di ignoranza pre-islamica, jahiliyya, o di oscurità pagana. Egli faceva appello a un piccolo numero di veri musulmani per formare un’avanguardia rivoluzionaria per riportare la luce dell’Islam nel mondo. In conseguenza del suo richiamo all’avanguardia, l’autorevole studioso dell’islam radicale Gilles Kepel ha definito “Pietre miliari” come la versione islamista del “Che fare?” di Lenin.
Questo mi sembra erroneo. Anche se “Pietre miliari” svolse un ruolo nella decisione della corte egiziana di impiccare Qutb, diversamente dal manifesto ispiratore di Lenin, le implicazioni politiche pratiche dell’opera principale di Qutb erano ambigue. Nondimeno, la visione di Qutb era così potente che molti studiosi hanno designato “qutbismo” l’ideologia fondante lo Stato Islamico.
La prima risposta alla questione di ciò che dovevano fare coloro che speravano di mettere in atto la visione di Qutb venne quindici anni dopo la morte del maestro, con “Il dovere trascurato”, lo scritto rivoluzionario clandestino di un ingegnere elettrico egiziano, Muhammad Abd al-Salam Faraj. Faraj esortò i musulmani ad adempiere il loro dovere religioso della jihad – che egli, come Qutb, interpretò come una lotta violenta al servizio di Dio – e a dedicarsi alla fondazione di un vero stato islamico. Il suo metodo preferito era l’assassinio del più importante nemico contemporaneo dei musulmani, l’apostata “Faraone”, una chiara allusione al presidente dell’Egitto, Anwar Sadat.
Faraj considerò il “nemico vicino”, lo Stato egiziano, come obiettivo strategicamente più significativo del “nemico lontano”, i crociati americani e gli ebrei sionisti. Nel 1981 il gruppo di Faraj ebbe successo nel complotto per uccidere Sadat. Come conseguenza, la vita di Faraj, come quella di Qutb, finì sulla forca. Il suo pamphlet rappresenta tuttavia l’inizio di un’epoca di vent’anni durante la quale i rivoluzionari jihadisti egiziani, sotto l’incantesimo degli scritti dal carcere di Qutb, condussero una lotta rivoluzionaria prolungata, sanguinosa e infine perdente contro il “nemico vicino” – con complotti per assassinare i leader apostati, i taghut; per organizzare colpi di stato; per incitare sollevazioni popolare.
Una risposta più influente alla questione di cosa si dovesse fare per implementare la visione “qutbista” fu data poco dopo la morte di Faraj, dallo studioso islamico palestinese Abdullah Azzam. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, Azzam si trasferì a Peshawar e vi stabilì un ufficio per l’organizzazione degli Arabi che avevano raggiunto l’Afghanistan per sostenere i combattenti jihadisti locali, i mujaheddin.
In discorsi di notevole eloquenza, in articoli della sua rivista, al-Jihad, e specialmente in due dei suoi brevi libri “La difesa delle terre musulmane” e “Unitevi alla carovana”, Azzam fece appello ai musulmani di tutto il mondo perché difendessero la loro nazione, la umma, che ora era sotto minaccia diretta. Azzam sosteneva che la difesa della umma con la jihad contro l’invasore infedele fosse un dovere non collettivo, ma individuale per ogni musulmano, obbligatorio come uno dei cinque pilastri della fede, come pregare e digiunare.
Azzam fu assassinato nel 1989, non si sa con certezza da chi. Ma al momento della sua morte aveva convinto una generazione di musulmani rivoluzionari che i mujaheddin erano stati capaci, attraverso la grazia di Dio e la loro morte gloriosa da martiri, di paralizzare la potenza militare dell’Unione Sovietica in Afghanistan.
Di più, egli vide nella lotta trionfale dei mujaheddin in Afghanistan un miracolo di un risveglio islamico mondiale – nelle terre musulmane jahili del presente, nella sua patria, la Palestina e in tutte le terre musulmane conquistate dai crociati, infine nell’intero mondo.
In Afghanistan Azzam aveva lavorato per un po’ di tempo con un ricco saudita di origini yemenite, Osama bin Laden. Infine le loro strade si divisero. Avendo assorbito sia la visione di Qutb che l’ambizione e il trionfalismo di Azzam (che assimilò alla sensibilità saudita), nel 1988 Bin Laden creò in Afghanistan un’organizzazione chiamata al-Qaeda, che infine sarebbe diventata il primo esercito globale della jihad.
Nel 1996, dopo il ritorno in Afghanistan, Bin Laden pose le sue mire sulla distruzione dell’unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti. Nella sua visione, gli Stati Uniti erano sotto il controllo degli ebrei. Erano responsabili di avere inflitto ai musulmani la ferita più crudele, la creazione di uno Stato ebreo nel cuore profondo della umma. Erano anche i sostenitori e i protettori indispensabili dei regimi taghut in tutto il presunto mondo musulmano. Forse la cosa peggiore: dal 1990, su invito della famiglia reale saudita dopo l’invasione irachena del Kuwait, gli Stati Uniti avevano occupato il territorio delle due città più sacre dell’Islam, La Mecca e Medina. Nel 1998 al-Qaeda esortò tutti i mujaheddin a uccidere americani ed ebrei.
Uno dei firmatari della fatwa di Bin Laden era il più influente rivoluzionario qutbista egiziano degli ultimi 20 anni, Ayman al-Zawahiri. Durante il 2001 Zawahiri condusse parte del suo gruppo, al-Jihad, dentro al-Qaeda. La loro unione fu stretta con una doppia conversione. Zawahiri adottò la concentrazione sul “nemico lontano” di Bin Laden. Da parte sua Bin Laden adottò la tattica che Zawahiri e altri rivoluzionari islamisti egiziani avevano abbracciato da lungo tempo: gli attentati suicidi, ossia quelli che ora i qutbisti chiamavano le “operazioni di martirio”– una tattica vitale in una guerra asimmetrica, tecnologicamente ineguale. Il primo risultato della loro unione fu l’11 settembre, l’attacco alle torri gemelle e al Pentagono. All’epoca Zawahiri fu responsabile, nel modo più chiaro con le sue memorie del 2001 “Cavalieri sotto la bandiera del profeta”, della sistematizzazione dell’ideologia politica fondata sulla visione di Sayyid Qutb.
L’ideologia non aveva ancora raggiunto la sua destinazione ultima e forse finale. Una conseguenza dell’11 settembre fu l’invasione e l’occupazione dell’Iraq guidata dagli USA nel marzo 2003. Quando avvenne, un leader della resistenza sunnita fu un rivoluzionario jihadista giordano, Abu Musab al-Zarqawi, che aveva stabilito il suo campo di addestramento nel 1999 in Afghanistan, a Herat, e poi, dopo l’invasione americana dell’Afghanistan e gli attacchi ai Talebani, si era trasferito in Iraq attraverso l’Iran, per prepararsi alla prevista invasione statunitense.
Zarqawi fu responsabile dell’introduzione di parecchi nuovi elementi nell’ideologia politica ispirata da Qutb e sistematizzata da Zawahiri. Zarqawi immise nel suo cuore un odio settario e sterminatore degli sciiti.
Facendo ricorso alla teoria strategica di Abu Bakr Naji, l’autore di “La gestione della brutalità”, e alla teologia di uno studioso jihadista, Abu Abdullah al-Muhajir, l’autore di un’opera più comunemente conosciuta come “La giurisprudenza del sangue”, Zarqawi estese enormemente lo scopo, il metodo e l’ambito ammesso dell’uccisione.
Organizzò decapitazioni pubbliche di ostaggi. Allargò enormemente l’uso degli attentati suicidi, con giustificazioni teologiche sempre più spietate, prendendo di mira non solo le forze di occupazione e i loro alleati iracheni, ma anche civili sciiti innocenti e sunniti politicamente nemici, guadagnandosi il titolo ben meritato “lo sceicco dei macellai”.
Prima di Zarqawi, la creazione di uno Stato Islamico e, ancor più, la ricostituzione del califfato erano stati vaghi sogni dei “qutbisti”. Con Zarqawi divennero temi impellenti di un’agenda politica attuale. Prima di Zarqawi, inoltre, il pensiero dei qutbisti non era stato condizionato dalle sottocorrenti apocalittiche o escatologiche dell’islam sunnita. Sotto Zarqawi questo iniziò ad emergere in superficie.
Zarqawi fu ucciso nel 2006. Ciononostante, i suoi due successori, Abu Omar al-Baghdadi, che fu ucciso nel 2010, e Abu Bakr al-Baghdadi, il primo califfo dello Stato Islamico, abbracciarono pienamente, anzi estesero il settarismo anti-sciita, la ferocia giurisprudenziale e strategica, l’ambizione immediata di costruire uno Stato Islamico, e la dimensione apocalittica che Zarqawi aveva iniettato nella ideologia politica cresciuta dalla visione di Qutb.
Un sostenitore dello Stato Islamico, forse il giornalista yemenita Abdulelah Haider Shaye, ne catturò con ammirevole precisione in una sola frase la genesi ideologica: “Lo Stato Islamico è stato abbozzato da Sayyid Qutb, insegnato da Abdullah Azzam, globalizzato da Osama Bin Laden, trasferito nella realtà da Abu Musab al-Zarqawi, e implementato dagli al-Baghdadi: Abu Omar and Abu Bakr”.
Robert Manne è professore emerito di politica e collega del vice-rettore a La Trobe University a Melbourne. Questo è un estratto edito dal suo libro “La mentalità dello Stato Islamico” pubblicato questo mese da Black Inc.
[i] Soprannome di un conduttore radiofonico di nazionalità inglese che faceva propaganda per il regime nazista.
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