Una malattia del passato
La parola “crisi” non evoca solamente il risultato di anni di speranze tradite e naufragate nel nulla, ma anche il momento culminante di una grave malattia da cui si può guarire solo adottando una cura radicale: un cambiamento sostanziale nello stile di vita e nell’atteggiamento verso una visione poco lungimirante percepita come unica realtà.
Per gli Stati Uniti la crisi del 1929 rappresentò una grande occasione di ricostruzione e di guarigione da una grave malattia che, trascurata troppo a lungo o addirittura non diagnosticata, esplose in modo improvviso e virulento imponendo una medicina fino ad allora non tenuta in debito conto.
La crisi offrì l’occasione di ripensare un modello di società e di ricostruire il tessuto economico, politico e finanziario allargando ampiamente i diritti sociali senza compromettere quelli individuali.
La Grande Depressione ci aiuta sicuramente a comprendere i nessi tra Prima e Seconda guerra mondiale e le dinamiche che portarono all’ascesa di Hitler in Germania, certamente favorita dagli eventi statunitensi e dalle loro ripercussioni sull’economia tedesca.
Il forte intervento finanziario degli Usa nella ricostruzione e nella riconversione industriale del dopoguerra spiega, infatti, l’impatto che la crisi del 1929 ebbe su tutti i paesi europei che avevano ricevuto crediti dalla nuova superpotenza d’oltreoceano.
Per queste ragioni, la crisi economica iniziata con il crollo della borsa di New York nel famoso giovedì nero del 24 ottobre 1929 fu diversa da tutte le precedenti per lunghezza, intensità ed estensione.
Il colpo fu tanto duro quanto imprevisto se si pensa alle parole e ai toni trionfali del presidente uscente Coolidge nel dicembre del 1928.
Cosa provocò una crisi di simile portata senza che nessuno ne percepisse l’incombenza se non economisti marxisti considerati inattendibili, o economisti americani ritenuti antipatriottici e disfattisti e per questo esclusi dal dibattito pubblico?
La complessità del quadro fu messa a nudo dalla molteplicità di risposte che l’amministrazione democratica di Roosevelt dovette fornire con il New Deal per rimettere in piedi un paese in ginocchio.
Gli anni successivi alla Prima guerra mondiale furono caratterizzati da una corsa al profitto che, alla metà degli anni ’20, aveva contribuito a diffondere il ricorso alla speculazione finanziaria, spesso non legata ad effettive capacità produttive ma all’idea che potesse esistere una sorta di circolo virtuoso tra finanza, investimenti e produzione.
L’economia statunitense prima della crisi era ampiamente finanziarizzata, priva di pianificazione, fragile nei consumi interni e negli sbocchi esterni e allo stesso tempo troppo ottimista nella presunzione di potersi autoalimentare.
La compressione dei salari che limitò la capacità di assorbire la produzione fu certamente uno dei fattori preponderanti della crisi.
I possessori di titoli e gli economisti più avveduti, in realtà. avevano già cominciato a percepire molto prima del citato discorso di Coolidge che in alcuni settori la crescita degli indici di borsa non corrispondeva a quella dell’economia reale, che tendeva a ristagnare.
Eppure, lo scarso controllo degli speculatori e dei giocatori di borsa e la riluttanza della Banca centrale ad innalzare il tasso di sconto contribuirono al perdurare della frenesia di facili guadagni per mesi.
A questi fattori interni, certamente rilevanti, si aggiunse il relativo restringimento dei mercati che, pur non contribuendo in modo determinante alla crisi, mise in evidenza la necessità per il capitalismo americano di ricercare nuovi mercati in assenza di paesi da colonizzare.
In sostanza la causa principale della crisi del 1929 fu la pretesa ottocentesca e deterministica dei liberisti dell’epoca che il mercato avesse la naturale capacità di autoregolarsi, senza alcun intervento esterno, men che meno dello Stato.
Alcuni storici parlano, non a torto, di una crisi più che altro psicologica, causata dall’eccessiva autostima e autoreferenzialità della società capitalistica statunitense.
I piccoli e medi risparmiatori furono naturalmente i più colpiti e dovettero ricominciare da capo la lotta per la sopravvivenza, non potendo più contare su promesse di facile arricchimento.
In meno di un mese anche le banche chiusero i cordoni del credito accentuando ulteriormente la crisi.
Le innumerevoli attività cresciute prima del “crollo” fallirono, le loro merci invendute si accumularono nei magazzini, i loro dipendenti vennero da un giorno all’altro licenziati, scatenando una crescita geometrica della disoccupazione.
Tutto ciò a dispetto dell’odierna apologia del progresso suona piuttosto familiare e, mentre nessuno sembra farci caso, si continua a trascurare una malattia del passato, perseverando nel fanatismo che ne impedisce la diagnosi.
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