Le vittime della vacuità del PIL e del debito pubblico
di GIAN FEDERICO ARKEL (ARS Varese)
Oggi, nei paesi “occidentali”, o meglio “americanizzati”, tutto dipende dal PIL. Se il PIL è elevato, il paese è considerato ricco; se basso, povero. Quando il PIL aumenta dello 0,5%, il governo esulta come se avesse compiuto il miracolo e ad alcuni di noi scappa un sorriso. Quando cala della stessa cifra, stiamo tutti ad accusare la palese insufficienza delle riforme, chinando la schiena, avviliti ed appesantiti di un macigno non nostro, benchè una nostra corresponsabilità esista solo per il fatto di accettare inermi quasi tutto quello che ci viene ordinato.
Soprattutto gli ultimi governi Berlusconi hanno propagandato il principio della “fiducia nei mercati”, perché in una popolazione fiduciosa aumenta la propensione alla spesa e, di conseguenza, aumentano gli ordini e le produzioni; si incrementa il lavoro, si investono capitali in beni soprattutto immobili, titoli ed azioni. La maggior richiesta ne aumenta il valore e va decisamente a incidere anche sul PIL.
Tutto ciò crea un ciclo “positivo” ma “vuoto” di contenuti in quanto non sorretto dalla sostanza rappresentata dal reale valore di quanto acquistato e supportato da retribuzioni proporzionali. Infatti, prima o poi i valori saranno irreali e la sopravvalutazione ne impedirà l’acquisto: il cosiddetto “scoppio della bolla”. Se poi il timore di perdere quanto investito è elevato, si immetterà sul mercato tutto ciò che in precedenza è stato acquistato, creando un surplus e una relativa svalutazione di titoli, azioni e prodotti tale da rischiare di non rappresentare, a quel punto, neppure il reale valore del bene.
Osserviamo, quindi, come il fattore psicologico possa modificare l’economia reale creando cicli positivi e negativi e influenzando, pertanto, PIL e debito pubblico.
Solitamente sopravvivono al momento di crisi economica quegli Stati e aziende che, oltre a non essersi esposti acquistando titoli o azioni, soprattuto estere, hanno creato dapprima le basi del reale valore della propria economia investendo in istruzione, ricerca ed innovazione. L’invenzione di nuovi prodotti, metodi, materiali, cure crea la base per alimentare un nuovo ciclo positivo e probabilmente migliorativo delle condizioni della popolazione.
Come dicevo, il fattore psicologico non supportato da un reale valore della propria economia influenzerà il PIL ed il debito pubblico, calcolato in percentuale sul PIL. Da esso conseguiranno la dipendenza di un Paese dai creditori e la possibilità di avere proprie e autonome politiche economiche essendo più o meno ricattabili.
Il PIL come indicatore di ricchezza comprende, oltre alle spese dello Stato, gli investimenti ed i movimenti di denaro – inclusi, in in UE dall’autunno scorso, anche quelli che in realtà hanno valenza sociale negativa e non sono indicatori del progresso e del benessere reale: prostituzione, contrabbando, spaccio ecc. Così come il PIL non rispecchia il reale benessere della popolazione, anche il debito pubblico, essendovi correlato, non identifica la tipologia della spesa, che avrà necessariamente una forte ricaduta sociale.
La Romania di Ceausescu, per esempio, estinse praticamente il proprio debito pubblico con l’obiettivo di eliminare la dipendenza nei confronti degli Stati esteri (lodevole proposito) ma dovette razionare tutto: benzina, cibo, energia elettrica. Ciò produsse un tale malcontento tra la popolazione che nel 1989, dopo otto anni di sacrifici, si verificarono la rivoluzione e l’uccisione del dittatore comunista. La Norvegia, nonostante ultimamente presenti indicatori economici in fase moderatamente “negativa”, è attualmente l’unico Paese al mondo con il “credito pubblico”. Ha un buon sistema sociale, un alto indice di sviluppo umano, senso del bene comune e lungimiranza negli investimenti. Altri Paesi, come l’Italia, hanno visto un aumento del debito pubblico negli anni ’80 per le migliorie apportate allo “Stato sociale”, non compensato, però, per scarsa lungimiranza, da un progressivo aumento delle tasse. Attualmente, in regime di perdita di sovranità l’Italia ha cercato rimedi all’abbattimento del debito pubblico con elevate tasse ma senza successo a causa della stagnazione e recessione economica impostaci e dell’impossibilità di intraprendere manovre correttive formative, di ricerca e sviluppo che nel medio e lungo periodo porterebbero certi benefici. Altri Stati ancora con altissimo debito pubblico, come il Giappone, presentano un ottimo sistema sociale o pessimo come lo Zimbabwe.
Questo per evidenziare quanto gli indicatori economici coi quali siamo cresciuti, da cui dipendiamo, di cui siamo succubi e vittime possono essere influenzati dalla “psicologia di massa” e non dalla reale economia e dal benessere e progresso di una popolazione. Indicatori che in realtà rappresentano poco e nulla: vuoti e freddi numeri, pressochè insignificanti per comprendere i reali fenomeni sociali e di sviluppo di una Nazione. Non indicano né la ricchezza, che può essere nelle mani di pochissimi, né lo sviluppo sociale, tecnologico, formativo-culturale ed umano di un Paese.
Un PIL medio-basso e un elevato debito pubblico causato da una notevole spesa sanitaria e per il welfare che in passato caratterizzava l’Italia e oggi alcuni paesi dell’America Latina come potrebbe essere condannabile?
Per questo uno Stato dovrebbe essere sempre sovrano e indipendente (al massimo contemplando forme di stretta collaborazione con altri Stati sovrani), in grado di controllare direttamente i propri settori strategici e rimanere neutro rispetto alle politiche ostruzionistiche internazionali. E dovrebbe accentrare il proprio debito, se proprio dev’essere contratto, nelle mani di quegli stessi cittadini a cui spettano servizi e prestazioni cosicchè vi sia un ritorno in termini di efficienza, qualità ed equità di trattamento.
Oggi siamo vittime silenti di indicatori come il PIL e il debito pubblico che in realtà poco indicano ma che impediscono il benessere di una popolazione rendendola dipendente da terzi ed incapace di agire. Dobbiamo liberare le nostre menti da anni di propaganda in tale senso ed affidarci al benessere reale che è possibile creare con uno Stato che abbia a cuore le sorti ed il futuro del popolo. Dovremo affidarci maggiormente ai nuovi indicatori come l’ISU (Indice di sviluppo umano), che contempla: la promozione dei diritti umani, il diritto ad una convivenza pacifica, la difesa dell’ambiente naturale, lo sviluppo sostenibile delle risorse territoriali, lo sviluppo del sistema sanitario e delle politiche sociali a protezione delle fasce deboli, l’educazione di base, la partecipazione democratica, le opportunità di sviluppo ed inserimento nella vita sociale ed, ebbene sì, anche lo sviluppo dell’economia: meglio, però, se locale!
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