Le colpe di un sistema e le responsabilità dei suoi perpetratori
Riceviamo e pubblichiamo questa testimonianza di un giovane socio lombardo dell’ARS, MASSIMILIANO MASPERI
In uno dei nostri giorni di viaggio a Cuba, una mattina io e i miei compagni di avventure ci siamo fermati in una caletta. Niente di speciale o superaccessoriato, nessun complesso turistico o impianto e servizi più che basilari, ma onesta, con sabbia grossolana e uno splendido mare. E i bambini.
Inizialmente erano cinque, ed appena ci siamo sistemati e abbiamo accennato ad un calcetto ci hanno chiesto se avrebbero potuto prendere parte all’incontro. Un po’ scettici, li abbiamo smistati tra due squadre, con le quali ci siamo dati battaglia in una sfida calcistica tutt’altro che scontata. Ci hanno seguito poi (inizialmente, in verità, non voluti) anche a schiaccia sette, quindi lentamente ci hanno costretti all’acqua ad uno ad uno, con seguito di tuffi, schiamazzi, chiacchere, scherzi.
E noi abbiamo ricambiato a nostra volta, da bravi europei pansolidali, con penne e pennarelli, caramelle, qualche bibita. Ma la cosa di cui più di tutto erano innamorati era la palla. Ci hanno chiesto innumerevoli volte di chi fosse, se avrebbero potuto averla, se potevamo donarla al più piccolo di loro (nel frattempo, tra l’altro, erano diventati sette).
Quelli che di noi erano in grado di comprendere lo spagnolo, li hanno sentiti confabulare su come persuaderci a donargliela; qualcuno ha ipotizzato di rubarla ma subito un altro lo ha ammonito sul rischio della polizia. Quello con cui avevo, diciamo, legato di più si era persino offerto di comprarmela, al costo di due pesos cubani (che valgono circa otto centesimi di euro).
Ma quando abbiamo deciso che comunque la avremmo tenuta, data la concreta possibilità che i più grandi gliela rubassero immediatamente dopo che ce ne fossimo andati – e visto anche che eravamo ancora a metà vacanza – si è potuto vedere un velo di delusione nei loro occhi, che nemmeno una barretta di cioccolato per ciascuno è riuscita a dissolvere.
In quel momento hanno cercato di ripiegare su qualunque altra cosa: soldi, la mia maschera da sub, una macchina fotografica, persino il mio piccolo crocifisso, una collanina d’oro che tengo al collo da tempo immemore, regalo dei miei cari nonni per la mia cresima. Un po’ turbati da questo accesso di avidità, abbiamo gentilmente declinato e, data l’ora, ci siamo preparati a ripartire.
Quello che, di questo episodio, mi ha particolarmente colpito non è stata l’avidità in sé, ma le sue cause, soprattutto contestualizzate: Repubblica Socialista di Cuba, stato sociale (almeno, sulla carta della sua Costituzione) dal 1958, ovvero ormai da 57 anni. Ora, questa non sarà di certo la più ricca e sviluppata delle società che nel corso dei miei numerosi viaggi ho avuto modo di incontrare, ma non ho potuto fare a meno di notare la disparità economica non di poco conto tra gli abitanti dei centri urbani e i nuclei familiari rurali o costieri.
In quello che dovrebbe essere un paese socialista arretrato non mi aspettavo di trovare certe realtà, ma invece una povertà omogeneamente diffusa, con qualche sporadico e raro cittadino benestante. Eppure, anche il sistema che la redistribuzione assoluta della ricchezza ce l’ha scritta nell’anima si dimostra incapace di realizzare la sua stessa essenza. Che poi, a dirla tutta, nessun comunismo dichiaratamente tale, nella storia, è mai arrivato alla sua apoteosi, ovvero una società anarchica retta dal popolo stesso in collettività e cooperazione.
Si è sempre arenato alla fase della “dittatura del proletariato” (Marx docet), ma questo non è che un dettaglio. Il punto è che, ad un estremo (Cuba, ad esempio) o all’altro (gli ipercapitalisti Iuessé), la povertà è un dato di fatto, che nessuno dei due sistemi è riuscito a sradicare, nonostante questo obiettivo sia palesemente predicato da entrambi.
Ma allora sorge un dubbio: nessuno dei due sistemi “è riuscito”… o nessuno dei due sistemi “ha voluto”?
Non è che forse il problema non sta nel sistema adottato, entrambi frutto di lunghe e laboriose elucubrazioni di numerosi teorici di politica, economia e società, ma negli stessi uomini che lo hanno applicato e lo gestiscono tuttora?
Sembra quasi che entrambe le società siano diventate cieche alle esigenze della faccia più povera delle rispettive economie, ma nonostante ciò continuano questa guerra fredda attorno alla questione su quale sia il sistema migliore.
La verità, a mio avviso, è che il sistema adottato è completamente ininfluente, quello che conta veramente sono le persone che ne tengono in mano le redini. E anche se nel capitalismo tali redini passano anche per le mani delle grandi corporazioni finanziarie, mentre nel socialismo sono monopolizzate dallo stato, la realtà è una sola: la possibilità di sradicare la povertà, non necessariamente in tutto il mondo ma anche soltanto nella propria società, sta unicamente nella volontà di chi tiene tali redini.
È inutile atteggiarsi a difensori di un sistema, se quest’ultimo non è applicato pienamente: che il socialismo faccia quello per cui è nato, e che il capitalismo provveda a dare pari possibilità e mezzi anche a chi non può procurarseli unicamente da sé, prima di ergersi a supremo sistema socio-economico.
Perché se da un lato Cuba parteggia per l’eguaglianza dei suoi cittadini, dall’altra gli Stati Uniti hanno scritto nella Costituzione che la felicità è un diritto di ogni cittadino. Ma che felicità può esserci in una famiglia che, occupata a sopravvivere, non può neanche permettersi una palla per il proprio bambino?
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