Per finirla con il XXI secolo (1a parte)
di JEAN-CLAUDE MICHÉA
All’inizio del suo meraviglioso libretto su George Orwell, Simon Leys fa notare, e a ragione, che ci troviamo davanti a un autore che “continua a parlarci con una chiarezza e una forza di gran lunga superiore alla prosa che opinionisti e politici ci fanno leggere sui quotidiani ogni giorno“. Con le giuste proporzioni del caso, un tale giudizio lo si può applicare perfettamente all’opera di Lasch e in particolare a La Cultura del narcisismo, che è indubbiamente il suo capolavoro. Ecco, in effetti, un’opera scritta più di vent’anni fa e che rimane, con tutta evidenza, infinitamente più attuale della quasi totalità di saggi che hanno avuto la pretesa, da allora, di spiegare il mondo in cui abbiamo da vivere.
Grazie alla formazione intellettuale iniziale (marxismo occidentale e in particolare, la Scuola di Francoforte) Lasch s’è ritrovato assai presto immunizzato contro il culto del “Progresso” (o, come si dice ora, della modernizzazione) che costituisce ai nostri giorni il residuo catechismo degli elettori di Sinistra e dunque uno dei principali catenacci mentali che li trattiene in questa strana Chiesa nonostante il suo evidente fallimento storico. Presentando, qualche anno più tardi, la logica del suo itinerario filosofico, Lasch arriva a scrivere che il punto di partenza della sua riflessione era stata da sempre “una questione tutt’altro che semplice: come si spiega che delle persone serie continuino ancora a credere al Progresso quando l’evidenza dei fatti avrebbe dovuto, una volta per tutte, portarli ad abbandonare una simile idea?“.
Ora, il semplice fatto di porre tale sacrilega questione permette non soltanto di riallacciarci ai molteplici aspetti del socialismo d’origine ma contribuisce a togliere un certo numero di divieti teorici che, solidificandosi con il tempo, hanno finito con il rendere praticamente inconcepibile ogni rimessa in causa appena radicale dell’utopia capitalista. È così che, per esempio, la questione sollevata da Lasch rende nuovamente possibile l’esame critico dell’identificazione divenuta ormai classica – attraverso una qualunque e furbesca forma della teoria dei “trucchi della ragione” – tra il movimento, posto come ineluttabile, che sottomette tutte le società al regno dell’economia e il processo d’emancipazione effettiva degli individui e dei popoli.
In altri termini, se si traducono i concetti a priori dell’intelletto progressista davanti al tribunale della Ragione; se, di conseguenza, si smette di accettare come auto-dimostrata l’idea che qualunque modernizzazione di un qualunque aspetto della vita umana costituisca, per la sua natura, un beneficio per il genere umano, allora più niente può venire a garantire teologicamente che il sistema capitalista – grazie al semplice effetto magico dello “sviluppo delle forze produttive” – sarebbe votato a costruire, “con la fatalità che presiede alla metamorfosi della natura” (Marx) , la celebre “base materiale del socialismo”, o per dirla altrimenti, l’insieme delle condizioni tecniche e morali del “suo proprio superamento dialettico“.
Il che significa, in parole povere – per riferirsi ad alcune sfumature ben note – che lo sviluppo di un’agricoltura geneticamente modificata, la distruzione metodica delle città e delle forme di urbanistica corrispondenti o ancora l’abbrutimento mediatico generalizzato e i suoi cyberprolungamenti, non possono in alcun modo essere seriamente presentati come una premessa storicamente necessaria, o semplicemente favorevole, all’edificazione di una società “libera, egualitaria e decente“. Scorgiamo qui, al contrario, tanti evidenti ostacoli all’emancipazione degli uomini: più tali ostacoli si svilupperanno e si accumuleranno (si pensi per esempio a certe lesioni probabilmente irreversibili dell’ambiente) più diventerà difficile rimettere a posto le condizioni ecologiche e culturali indispensabili per l’esistenza di ogni società verosimilmente umana. Il che equivale a dire, essendo il capitalismo quel che è, che il tempo lavora ormai essenzialmente contro gli individui e i popoli, e che più quelli si accontenteranno di perseguire l’avvento di una società migliore, più il mondo che loro riceveranno in eredità sarà inadatto alla realizzazione delle loro speranze – comprese le più modeste.
Ora, questa idea costituisce la negazione stessa del dogma progressista che pone come definizione che la Ragione finisce sempre per imporsi e che, così, è cosa ormai acquisita il ventunesimo secolo sarà grande e l’avvenire radioso. Ecco perché la critica dell’alienazione progressista deve diventare il primo presupposto di ogni critica sociale. E sfortunatamente,si tratta di una critica che, fino ad oggi, non ha ancora superato lo stadio d’inizio.
Se l’ammirevole chiaroveggenza di Lasch ha un segreto, non è, di conseguenza, assai difficile da scoprire. Risiede nell’articolazione originale che ha sempre sottinteso la sua opera tra, da una parte, un’impermeabilità assoluta alle mitologie moderniste e, dall’altra, una fedeltà mai smentita al punto di vista dei lavoratori e delle semplici persone, ovvero di coloro che, giocoforza, hanno l’abitudine di decifrare una società considerandola dalla sola angolazione appropriata, cioè dal basso verso l’alto. Il beneficio più tangibile di una tale posizione – che è insieme politica ed epistemologica – è quello di rendere immediatamente percettibile l’illusione che affida alla Sinistra moderna, nella sua derisoria “pluralità”, quel poco di coerenza di cui ha ancora bisogno per assicurarsi la parvenza di autonomia indispensabile alla sua sopravvivenza elettorale.
Questa illusione, per così dire trascendentale, è l’idea ben nota secondo cui il sistema capitalista rappresenterebbe per natura un ordine sociale conservatore, autoritario e patriarcale, fondato sulla repressione permanente del Desiderio e della Seduzione, repressione che esigerebbe la disciplina del Lavoro e del quale la Famiglia, la Chiesa e l’Esercito sarebbero gli agenti privilegiati. Una tale rappresentazione è di certo molto tranquillizzante per uno spirito tutto moderno. Pertanto esige che si dimentichi come dal 1848 Marx avesse preso la precauzione di invalidare in anticipo un’interpretazione dei fatti tanto furiosa quanto inverosimile.
“La Borghesia – annotava – non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione e dunque i rapporti di produzione, ovvero l’insieme dei rapporti sociali” allorché “detenere senza cambiarlo l’antico modo di produzione era, al contrario, per tutte le classi industriali anteriori, la condizione prima della loro esistenza. Ecco perché – aggiungeva – man mano che il sistema capitalista progredisce tutti i rapporti sociali stabili e fissi, con il loro corteo di concezioni e di idee tradizionali e venerabili, si dissolvono: i rapporti nuovamente stabiliti invecchiano prima ancora di crescere. Ogni elemento di gerarchia sociale e di stabilità di una casta se ne va in fumo, tutto quello che era sacro è profanato“.
Uno dei più grandi meriti teorici di Lasch è, sicuramente, quello di aver saputo prendere sul serio questa ipotesi di Marx e di aver tentato di provarne il potere chiarificante di tutti gli aspetti della società americana. Naturalmente, a partire dal momento in cui si riconosce che il sistema capitalista porta in sé – come le nubi la tempesta – lo stravolgimento perpetuo delle condizioni esistenti, un certo numero di conseguenze indesiderabili o iconoclaste non potranno esimersi dal presentarsi. Su questo rapporto, uno dei passaggi più irritanti de La Cultura del narcisismo, rimane, con ogni evidenza, quello in cui Lasch sviluppa l’idea che la genialità specifica di Sade – una delle vacche sacre dell’intelligentsia di sinistra – consisterebbe nell’essere giunto “in uno strano modo” ad anticipare fin dalla fine del diciottesimo secolo tutte le implicazioni morali e culturali dell’ipotesi capitalista, così come era stata formulata per la prima volta da Adam Smith, questo è vero, con spirito assai diverso.
“Sade – scrive Lasch – immaginava un’utopia sessuale dove ciascuno aveva il diritto di possedere chiunque: esseri umani, ridotti ai loro organi sessuali, diventano allora rigorosamente anonimi e intercambiabili. La sua società ideale riaffermava così il principio capitalista secondo cui uomini e donne non sono in ultima analisi che oggetti di scambio. Incorporava egualmente e spingeva fino ad una nuova e sorprendente conclusione la scoperta di Hobbes che affermava che la distruzione del paternalismo e la subordinazione di tutte le relazioni sociali alle leggi di mercato avevano spazzato via le ultime restrizioni alla guerra di tutti contro tutti, così come le illusioni pacificatrici che la mascheravano.
Nello stato di anarchia che ne derivava , il piacere diventava la sola attività vitale, come Sade fu il primo a capire; un piacere che si confonde con lo stupro, l’assassinio e l’aggressione sfrenata. In una società che avesse ridotto la ragione a un semplice calcolo, questa non saprebbe imporre alcun limite al perseguimento del piacere, né alla soddisfazione immediata di un qualsiasi desiderio, per quanto perverso, folle, criminale o semplicemente immorale esso fosse. In effetti, come condannare il crimine o la crudeltà se non a partire dalle norme o criteri che trovano la loro origine nella religione, nella compassione o in una concezione della ragione che respinge le pratiche puramente strumentali? Ora, nessuna di queste forme di pensiero o di sentimento hanno un posto logico in una società fondata sulla produzione delle merci“.
Se accettiamo questa analisi, diventa d’un tratto più facile cogliere i legami metafisici essenziali che uniscono dall’origine, seppure in modo evidentemente incosciente, i due momenti teorici dell’idea capitalista: da una parte l’esortazione falsamente “libertaria” ad emancipare l’individuo da tutti “i tabù” storici e culturali che si suppone ostacolino il suo funzionamento come pura “macchina desiderante”; dall’altra, il progetto liberale di una società omogenea di cui il Mercato auto-regolatore costituirebbe l’istanza contemporaneamente necessaria e sufficiente per ordinare a profitto di tutti il movimento browniano degli individui “razionali”, ovvero finalmente liberati da ogni altra considerazione oltre a quella del loro ben compreso interesse.
Quello che Lasch definisce “individuo narcisistico moderno” con la sua paura di invecchiare e la sua immaturità così caratteristiche – di cui l’americano delle classi medie non è stato che la prefigurazione beffarda – non è, in definitiva, nient’altro che l’espressione psicologica e culturale del compromesso liberal-libertario divenuto col tempo storicamente realizzabile. E tutta l’arte di Lasch è nello stabilire con rigore come questo incontro, a prima vista sorprendente, ha finito col trovare nella metamorfosi del capitalismo contemporaneo le sue condizioni pratiche di possibilità.
[continua Qui]
(Prefazione all’edizione francese di The Culture of Narcissism di Christopher Lasch, Climats, 2000; fonte: nazioneindiana.com)
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