Nella contemporanea trance agonistica di auto-denigrazione delle nostre capacità e di corsa fratricida ad addebitarci colpe che colpe nostre non sono, c’è una coppia di termini che sento spesso menzionare, che purtroppo o per fortuna conosco bene, e che sento la necessità di esplicare e spiegare: fondi europei.
Questa coppia di termini è entrata in sordina nella concezione popolare, se ne sente spesso parlare ma mai in modo puntuale ed esaustivo. Quante volte avete sentito “ci sono i Fondi Europei per i giovani!” oppure “se usassimo bene i Fondi Europei sarebbe tutta un’altra cosa!”?. Oggi lo si sente ancor di più, dato che sta iniziando il nuovo settennio di programmazione chiamato “Horizon 2020”. Ed in breve direi che i concetti che arrivano alla massa sono tre:
trattasi di soldi messi a disposizione dall’Europa agli Stati;
in Italia non riusciamo a spenderli o a spenderli bene e ben ci sta se ce li tolgono;
se sfruttassimo bene tali fondi la situazione sarebbe migliore.
Neanche a dirlo, niente di più sbagliato. Per la precisione, niente di più deviante. Perché, in realtà, quanto appena detto non è errato in assoluto, ma lo diventa considerando il fatto che anche le mezze verità, le omissioni, sono delle bugie. Perché, anche se non volete considerarle bugie in modo stringente, sono perlomeno devianti, facendo giungere l’ignaro ascoltatore a conclusioni tutt’altro che coerenti con la realtà dei fatti. Hanno lo stesso effetto delle bugie.
Partiamo dalla genesi. I fondi europei nascono come primo tentativo di redistribuzione all’interno del mercato UE. Sono vari ma per l’Italia l’accesso si riduce sostanzialmente a due, nello specifico il Fondo Sociale Europeo e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Senza entrare troppo nel particolare, possiamo definirli in tal senso: il FSE tratta i temi dell’occupazione (anche se piuttosto che crearla è una sorta di ammortizzatore sociale, ma ne parleremo più avanti nell’articolo), il FESR tratta i temi dell’investimento (anche se è più coerente parlare di finanziamento, ma ne parleremo più avanti nell’articolo).
Questi fondi sono la redistribuzione europea. Analizziamo però cos’è la redistribuzione. In ogni Stato del mondo la redistribuzione tra zone benestanti e zone con problemi (strutturali o dovuti a calamità o altro è di secondaria importanza nella presente trattazione) avviene per mezzo della leva fiscale. Nell’UE no. I sistemi fiscali sono propri di ogni Stato: le tasse pagate in Germania rimangono in Germania, le tasse pagate in Portogallo rimangono in Portogallo, ma per lavarsi la coscienza e far credere che la direzione politica intrapresa a Bruxelles sono gli Stati Uniti d’Europa, si sono creati tali fondi. Per farvi capire l’assurdità di definire i fondi forma di redistribuzione vi pongo un esempio: il Portogallo è considerato uno Stato “arretrato” nell’UE. Il Portogallo avrà quindi a disposizione qualche miliardo in più di Fondi rispetto alla Germania. Attenzione, qualche miliardo in più rispetto al proprio PIL, quindi ne avrà comunque meno della Germania in valore assoluto. Al contempo, però, i debiti pubblici di Portogallo e Germania, entrambi espressi in valuta estera, l’euro, camminano per strade parallele. Il Portogallo pagherà, poniamo, il 6% di interessi, la Germania l’1%. Morale della favola: il Portogallo avrà a disposizione qualche miliardo in più di fondi europei ma pagherà tanti miliardi in più di interessi sul debito. Dov’è quindi la redistribuzione? Ve lo dico io, non c’è.
E l’Italia? Noi siamo messi peggio del Portogallo, perché non solo abbiamo i suoi problemi di interessi sul debito, ma siamo anche considerati un paese benestante, salvo le Regioni del sud – il che è vero anche se ormai solo per inerzia – e quindi riceviamo dall’UE meno soldi di quanti ne diamo. In realtà, a voler fare i precisi e volessimo considerare tali fondi come redistribuzione, dovremmo valutare che si, è vero, noi siamo più ricchi di altri, ma se nel termine redistribuzione facessimo entrare anche l’accezione di elementi di riequilibrio delle asimmetrie create dall’UE, è fuor di dubbio che noi abbiamo perso molto più degli altri. Ed allora è giusto che ce ne tornino meno di quanti ne mettiamo?
E qui partirei analizzando la prima idea inculcata nelle menti della massa: “trattasi di soldi messi a disposizione dall’Europa agli Stati”.
Signore e signori, l’Europa non è un entità terza agli Stati che ne fanno parte. L’Europa, o più precisamente l’UE, siamo noi, ed i soldi che l’Europa, o più precisamente l’UE, mette a disposizione sono soldi che provengono dagli Stati, da noi. E ce ne tornano meno. Per il fatto che siamo considerati ricchi ma anche per il fatto strettamente pratico che la gestione e la struttura a monte del tutto deve essere pagata e finanziata. Quindi, quando sentiamo al tg che avremmo 41 miliardi di euro di fondi europei, o più precisamente di “Fondi Strutturali Europei”, stampiamoci in testa che sono soldi nostri che passano per Bruxelles e tornano in Italia, in misura minore. Non è l’Europa che ci dà soldi, ma noi che diamo soldi all’Europa. La stessa ce li ridà in misura sensibilmente inferiore. Qui risiede la mezza verità, l’omissione, la bugia.
Seconda idea inculcata nelle menti della massa: “in Italia non riusciamo a spenderli o a spenderli bene e ben ci sta se ce li tolgono”.
Noi diamo all’Europa più di quanto riceviamo e, soprattutto, dobbiamo cofinanziare per circa la metà. Per esempio, se sentite parlare di 100.000 € di fondi europei questo significa che: l’Italia ha dato circa 70.000,00 € a Bruxelles, Bruxelles ne ha ridati 50.000,00 all’Italia, la P.A. Italiana ha cofinanziato con altri 50.000,00 € e così esce fuori la frase: “ci sono 100.000,00 € di fondi europei per i giovani!”. “Ha cofinanziato con altri 50.000,00 €”, però, sebbene sembri una frase senza grandi conseguenze, in realtà cela in sé il fatto che tale obbligo di cofinanziamento genera enormi problemi pratici. Vige infatti da anni una norma di legge voluta da Bruxelles. Tale norma si chiama “Patto di stabilità” e non permettere agli enti locali di spendere più di quanto incassano. E se la P.A. non riesce a cofinanziare i fondi europei che succede? I fondi europei non vengono spesi e come a girare il coltello nella piaga se tu Regione X non riesci a spenderli, tu Regione X nel futuro perderai quei soldi, non ti verranno più dati. Quindi l’UE elimina la possibilità di spesa degli enti locali tramite il patto di stabilità, poi dice agli stessi che hanno a disposizione dei soldi che per poter spendere dovranno raddoppiare di tasca loro ed al contempo dice loro che se non ce la faranno a cofinanziare perderanno tutto. Atteggiamento fortemente opinabile.
Ma c’è di più. Non ti verranno più dati soldi anche se non adempierai a tutte le incombenze amministrative che tali fondi si portano dietro. Poniamo un esempio concreto: la Calabria. La Calabria ha seri problemi di gestione di questi fondi, talvolta non riesce a spendere e anche quando lo fa non riesce a rendicontare bene o ad adempiere tutti gli obblighi di controllo e certificazione. Ed anche questo è giudicato da Bruxelles, sempre nell’ottica di “fare i compiti a casa”.
Ho nominato spesso le Regioni ed è giunto il momento di fare un’ulteriore considerazione. La struttura dei fondi è complessa e la massima semplificazione è: c’è chi gestisce i fondi – prevalentemente le Regioni – chi li usa e li rendiconta, chi controlla chi li rendiconta e chi controlla chi controlla chi li rendiconta. Viene il mal di testa. E se chi li gestisce lo fa male, o meglio lo fa non secondo le regole imposte, sarà sanzionato. La cosa che lascia interdetti, però, è che se i soldi che noi diamo all’UE sono prevalentemente statali, quelli che ritornano arrivano prettamente alle Regioni, prime delegate di Bruxelles per la maggior parte dei PO (Programmi Operativi). Chi gestisce i fondi di fatto non è lo Stato, ma sono le Regioni. Le Autorità di Gestione sono le Regioni, che poi magari subdelegano alle Province o creano Organismi Intermedi ad hoc per la gestione. Gli errori quindi non devono essere commessi da nessuna Regione, Provincia od Organismo Intermedio, con lo Stato che sta a guardare e spera che i singoli enti locali non facciano troppi danni. La domanda sorge spontanea: perché le prime delegate di Bruxelles sono le Regioni e non lo Stato? Forse per lo stesso motivo perché la Sanità è divenuta regionale con la sciagurata riforma del titolo V della Costituzione di inizio secolo: distruggere lo Stato. Stiamo attenti ad ostracizzare lo Stato nelle questioni importanti, sovra-regionali, perché non è vero che verranno valorizzate le particolarità -non c’è alcuna particolarità regionale nella sanità, per esempio – ma è vero solo che le differenze si accentueranno. Nella sanità è già successo, nei fondi europei la tendenza è già ben avviata.
Arriviamo così alla terza idea inculcata: “se sfruttassimo bene tali fondi la situazione sarebbe migliore”.
Per carità, la suddetta affermazione non è falsa in sé, è come dire “l’acqua è bagnata”. Lo so che l’acqua è bagnata. Per avere invece idea di quanto ci convengano o meno i Fondi Strutturali Europei bisogna imbattersi nella classica analisi costi-benefici, partendo analizzando il costo-opportunità della faccenda (in parole semplici, cosa sarebbe cambiato in una situazione B, senza fondi europei).
Si possono analizzare i totali e si giunge a tele conclusione. Per poter spendere 100.000,00 € lo Stato ne deve dare 70.000,00 all’Europa, cercare di cofinanziare con altri 50.000,00 e poi potrà finanziare qualche privato. Ha un’uscita di cassa di 120.000,00 € ma può finanziare solo 100.000,00 €. Senza fondi europei avrebbe un’uscita di cassa di 120.000,00 € potendo investire (magari anche finanziare, ma non solo) 120.000,00 €. La conclusione è banale.
Si può altresì analizzare la qualità della spesa, la sua funzionalità. Lo Stato ha dei soldi e deve decidere come spenderli. L’obiettivo è influire, riuscire ad indirizzare l’economia, nell’interesse dei cittadini. Per decidere, per essere influente, da sempre, lo Stato ha avuto delle aziende. Le stesse potevano agire in regime di monopolio (guarda caso nei settori essenziali) fino a giungere pian piano a forme meno invadenti come le partecipazioni di minoranza. Ma il minimo comun denominatore è: se hai la proprietà o parte di essa di un’azienda, tu puoi decidere, scegliere ed influire. Se invece spendi queste decine di miliardi in fondi europei tu non stati influendo, ma stai semplicemente finanziando progetti di privati. Sei passivo. Non sei pro-attivo. Puoi selezionare i progetti migliori, presentare bandi ad hoc per determinate situazioni sensibili, ma l’operatività è lasciata al privato di turno. Zero influenza, zero indirizzamento. Se ci si pensa bene si sta agendo da finanziatore, da banca. Lo Stato per mezzo dei fondi europei perde la sua prerogativa di interventismo nell’economia relegandosi al ruolo di mero finanziatore. Ed un’amara considerazione sorge spontanea: oggi il nostro Stato è la BCE, quindi il tutto è perfettamente coerente all’archetipo europeo, ma da qui a poter definire tale approccio corretto e giusto ce ne passa. Un conto è finanziare un progetto economico (lavoro da sempre svolto dalle banche), un conto è intervenire in economia per indirizzarla (lavoro da sempre svolto dallo Stato).
Come forma di resistenza succede anche che organismi di diritto pubblico partecipino ai bandi, o che si creino Società in house che gestiscano o partecipino ai bandi esse stesse, e tutto per cercare di mantenere parte di quei soldi nella P.A., per poter indirizzare l’investimento o magari, nei casi migliori, la ricerca. Ma non sarebbe più semplice pagare le tasse a Roma e Roma decide come e quando e a chi dare i soldi? No, dobbiamo dare i soldi a Bruxelles, per riceverne meno, dover cofinanziare la metà con i salti mortali, creare altre Società in house a cui far vincere i bandi, rendicontare bene e cercare di spendere tutto in fretta e senza pensare. Che ansia. E L’ansia non è mai una buona consigliera.
Nell’ottica della funzionalità della spesa e per concludere vorrei analizzare ciò che è il FSE. Il FSE ha svariati aspetti ma la sua ottica di fondo, nell’intervento statale o per meglio dire pubblico, è passiva. Lo Stato vede ciò che succede e passivamente interviene. Interviene passivamente sulle persone, riqualificando all’infinito i disoccupati quando il problema è la creazione di lavoro, come interviene passivamente con le imprese, dando loro sussidi quando magari sarebbe bello creare infrastrutture e domanda. Per esempio, ci sono tirocini formativi chiamati in vario modo per i quali le provincie si accollano il salario del giovane inserito. Non è un investimento statale, ma un finanziamento alle aziende nella forma di costo del lavoro. Magari sfruttato nei meri momenti di picco d’attività. Non si è creato lavoro. Si è creato un sussidio. Non si è deciso in cosa investire, ma si è finanziato a fondo perduto l’investimento di un privato.
Stessi discorsi si potrebbero fare nel FESR, dove convivono progetti bellissimi di ricerca ed innovazione (che finanziano dal CNR a start-up) e progetti che sono finanziamenti a fondo perduto che non creano lavoro e non sono costruttivi in alcun senso li si voglia guardare.
E’ questo il punto. Non ci servono i fondi europei, ci serve abolire l’ottica europea che rende illegittimi gli “aiuti di Stato” e tornare ad avere uno Stato interventista, che accompagni il privato e non sia un mero salvagente, anche perché è lui stesso che in questo modo sta affondando.
Lo Stato deve investire, non deve finanziare, non solo.
Ottimo spunto Carmine.
Voglio approfondire anch’io l’argomento, c’è sicuramente un denominatore comune fra fondi europei, modifica titolo V costituzione, intasamento procedurale e normative appalti pubblici (il codice appalti sarà cambiato minimo 7 volte negli ultimi 10 anni)
[…] Un post che mette in luce alcuni aspetti che ribaltano la narrazione della stampa sui fondi europei che non saremmo, colpevolmente, in grado di spendere. Ricordando l’articolo di Carmine Morciano del FSI di Bologna dell’ottobre del 2015, sul tema Fondi europei vs Stato sovrano […]
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Ottimo spunto Carmine.
Voglio approfondire anch’io l’argomento, c’è sicuramente un denominatore comune fra fondi europei, modifica titolo V costituzione, intasamento procedurale e normative appalti pubblici (il codice appalti sarà cambiato minimo 7 volte negli ultimi 10 anni)