Mozione del Direttivo FSI-Riconquistare l’Italia su Covid-19 (per il Congresso del 27 e 28 marzo 2021)
Mozione del Comitato Direttivo del FSI su Covid-19
1. Cosa è accaduto.
A distanza di un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria legata all’epidemia della malattia Covid-19 fare il punto sulla questione è un esercizio difficile ma quanto mai necessario.
Si è trattato di un evento fulmineo: tra l’inizio di gennaio e la fine di febbraio dell’anno scorso, quindi in soli due mesi, si è passati dalle prime notizie su un possibile nuovo virus in Cina all’adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale e della possibilità di svolgere attività collettive, di rilievo pubblico e costituzionale di portata inedita per numero di cittadini coinvolti e incidenza sulla vita sociale. Si è trattato di un evento imprevisto: pur essendo le epidemie degli eventi ricorrenti nella storia umana, e nonostante molteplici allarmi lanciati dal mondo scientifico riguardo alla concreta possibilità del manifestarsi di una pandemia, il sentire comune era che il progresso tecno-scientifico degli ultimi decenni avesse reso impossibile il ripetersi di tali avvenimenti. Si è trattato infine di un evento traumatico: le risposte degli individui e della società, guidate entrambe dalle decisioni dei governi nazionali, hanno prodotto effetti sconvolgenti nel breve periodo e destinati ad incidere sulla nostra vita in modo duraturo.
Dal punto di vista politico la scelta del tipo di risposta all’emergenza è stata nel suo complesso la decisione più importante degli ultimi decenni. Le risposte sono state (relativamente) simili all’interno dei paesi occidentali: tuttavia quelle adottate dall’Italia presentano le loro specificità. L’Italia è stata per alcune lunghe settimane tra febbraio e marzo l’epicentro mondiale dell’epidemia e pare aver adottato, all’interno dei paesi occidentali, le misure restrittive più numerose, più forti e più durature. Nonostante questo, il numero dei decessi e dei contagi rimane tra i più alti al mondo.
Dalla fine di febbraio l’emergenza sanitaria ha assorbito per alcuni mesi tutte le energie dell’opinione pubblica, tutte le pagine dei giornali, tutti i minuti delle trasmissioni di approfondimento televisivo. Sin dall’inizio il dibattito pubblico italiano sulla risposta da dare all’emergenza ha mostrato tutti i suoi difetti: rifugio nello scientismo e fuga dalle responsabilità politiche, rimbalzo di responsabilità tra stato centrale e regioni, tendenza alla polarizzazione delle posizioni in gioco. Quest’ultimo aspetto è quello che ancora oggi impedisce un dibattito sereno e costruttivo sulle risposte che la politica deve dare all’emergenza.
Il dato da registrare è che ad inizio emergenza si è diffuso tra la popolazione, a causa di una terroristica e martellante campagna sui mezzi di informazione, un fortissimo sentimento di paura. Il popolo allora si è stretto intorno al suo governo e ha difeso in modo quasi plebiscitario le sue decisioni, per quanto apparentemente impopolari esse fossero. Si è altresì ritenuto che ogni vero dibattito sulle risposte da dare all’emergenza fosse pericoloso e che si dovesse lasciare spazio ad un unico punto di vista, proposto come originato dalla Scienza, vista come monolitica espressione di certezza. Questa situazione ha anche portato all’inedito affermarsi di virologi ed epidemiologi come nuove star mediatiche, portatrici di verità da elargire al popolo, ignorando il fatto che molto spesso questi personaggi esprimevano pareri in contrasto tra loro, o successivamente sconfessati dagli eventi, o addirittura opposti rispetto a quanto dai medesimi affermato alcuni mesi prima.
Al posto del confronto tra numerose posizioni, ciascuna con la sua sfumatura, il dibattito è stato dominato dalle due posizioni estreme: da una parte le posizioni “ufficiali” di governo, TV e giornali, favorevoli alla restrizione delle libertà civili, delle attività collettive e delle attività di rilievo pubblico e costituzionale (lo studio, la cura delle altre malattie, le manifestazioni e riunioni politiche) e finanche delle funzioni (la giurisdizione), in nome del “principio di massima precauzione”, dall’altro il campo del suo opposto assoluto: i “negazionisti” dell’emergenza, i “no mask”, i complottisti, i moderni demoni e le moderne streghe. A questa polarizzazione ha fatto riscontro a livello istituzionale la marginalizzazione del Parlamento, sede naturale di dibattito, in favore di un accentramento di poteri nelle mani del governo e dei suoi emissari, spalleggiati da un comitato tecnico-scientifico sul cui operato non molto è dato sapere.
Ancora oggi non è permesso sottolineare in pubblico la necessità di un bilanciamento tra libertà, attività collettive e valori pubblici di rilievo costituzionale da un lato, e sicurezza dall’altro, tra lavoro e salute, tra diritto dei giovani a vivere la loro irripetibile gioventù e degli anziani a non morire prima del tempo, tra l’esigenza di evitare morti dovuti alla paura del Covid e alle misure anti-Covid e l’esigenza di ridurre i morti per Covid. L’accusa di “negazionismo” è sempre dietro l’angolo. La minaccia dell’esclusione sociale agisce come formidabile deterrente. Si tratta, in ultima analisi, dell’affermazione di una visione del mondo per cui solo gli esperti hanno accesso alla verità e hanno titolo per prendere decisioni, in omaggio alla filosofia scientista, vera religione dei nostri tempi. Il vero problema, infatti, non è costituito dalla modestissima minoranza di veri negazionisti, che con il tempo, davanti all’evidenza e ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, hanno in gran parte dovuto abbandonare le loro irrazionali posizioni. Il vero problema sono gli altri negazionisti, la totalità dei politici, dei giornalisti e di decine di milioni di italiani che negano legittimità a ogni osservazione critica relativa alla gestione della pandemia e prima ancora ad ogni forma di dialogo: l’unico pensiero ammesso è che più si chiude, più si introducono limitazioni, più si fa credere o si crede o si finge di credere che la malattia colpisca tutti in egual modo, meno si discute il principio di massima precauzione, più le persone hanno paura di avere contatti con le altre, più si ascoltano e seguono gli scienziati-star, più si spera o crede nella efficacia del vaccino, e meglio è.
Questa polarizzazione è altresì funzionale all’occultamento delle vere cause dei disastrosi risultati ottenuti dal nostro Paese nella prevenzione della diffusione e nella cura del contagio, che sono da ricercare indubbiamente anche in tre decenni di tagli alla sanità pubblica, nonché in numerosi errori commessi durante questo anno, e non nel supposto rifiuto della realtà da parte di un’esigua minoranza di connazionali.
Riteniamo quindi che sia giunto il momento di fare la nostra parte per ridare vigore al pubblico dibattito, e per sollecitare un ritorno alla centralità del Parlamento, in considerazione del fatto che uno stato di emergenza che si prolunghi oltre l’anno non è più la risposta ad una momentanea difficoltà ma l’istituzionalizzazione di un assetto politico e sociale che costituisce uno scardinamento della democrazia. Lo facciamo con l’umiltà di chi si sente come una semplice frazione dell’opinione pubblica e non come unico e infallibile interprete. Sappiamo che tra le decine di milioni di terroristi e di terrorizzati, negatori della legittimità del dibattito, e le poche decine di migliaia di negazionisti del virus, ci sono alcuni milioni di italiani che per carattere rifuggono il panico, che ottunde la mente, e non rinunciano a ragionare. Ad essi ci rivolgiamo.
Dall’inizio della pandemia ci siamo chiesti quale fosse il fine che il governo voleva perseguire. Ad oggi non è ancora chiaro nelle dichiarazioni, ma ci sembra evidente nelle disposizioni prese: si vuole impedire qualsiasi contagio nell’attesa dell’eradicazione totale del virus. Diciamo con forza che questa strategia è inattuabile, oltre ad essere presuntuosamente scientista. È pensiero magico in assenza della minima razionalità.
2. Contro il principio di massima precauzione.
Partiamo quindi con il deciso rigetto del cosiddetto “principio di massima precauzione”, che ci ha condotto ad adottare tutte le misure più restrittive, spesso nella forma più intensa, e quasi sempre per più tempo degli altri, al punto che senza dubbio l’Italia deve essere considerata il modello estremo delle politiche restrittive, che si è contrapposto all’impostazione di stati che hanno limitato poco la vita sociale e libertà civili (Svezia e Giappone in particolare), senza per questo ottenere risultati peggiori dei nostri in termini di lotta alla pandemia.
Si tratta di una nozione che non trova riscontro in nessuna attività umana, nemmeno nel campo della salute. Infatti, in medicina, il principio di precauzione è non interventista: si interviene sul paziente solo se i benefici superano abbondantemente i danni eventualmente inflitti in una gestione del rischio a tutto tondo e non limitata al solo intervento. Il concetto di “massima precauzione” risulta talmente ridicolo che non serve spendere tempo a confutarlo: basti dire che se fosse applicato nel campo dei trasporti, il limite di velocità sulle autostrade sarebbe di 50 km/h al massimo, e in generale porterebbe alla rinuncia a qualunque attività umana. Viceversa, è doveroso riaffermare che la necessità di salvaguardare la sicurezza fisica delle persone va dialetticamente contemperata con l’importanza di salvaguardare tutti gli aspetti della vita sociale. La giusta via di mezzo fra queste esigenze, spesso contrapposte, andrà individuata per mezzo del pubblico dibattito, aperto, libero da tabù e non viziato da preconcetti. E il Parlamento dovrà tornare ad essere il luogo dove questo dibattito troverà il suo culmine, e dove le decisioni andranno prese. Occorrerà innanzitutto riconoscere che il diritto alla vita, per quanto importante, non può essere un valore supremo a cui tutti gli altri diritti devono sottomettersi, né lo è mai stato nell’intero corso della storia umana. Andrà dunque ridicolizzato ogni politico intellettuale o giornalista che osi invocare il principio di massima precauzione. Precauzioni sì, ma non massime. Cauti, ma non stupidi.
3. Basta con le misure di valore esclusivamente simbolico e terroristico: mascherina all’aperto; coprifuoco; autocertificazione.
Una volta sgombrato il campo da questo equivoco, è chiaro che si deve andare a vedere volta per volta quali misure possano effettivamente sortire un effetto importante nel limitare la diffusione dell’epidemia, o più correttamente per limitarne gli effetti nefasti di sovraccarico del sistema sanitario, e per ognuna di esse soppesare anche il prezzo da pagare per metterla in atto. Se certe disposizioni potevano essere accettate a marzo 2020, nella totale oscurità conoscitiva, oggi non sono più tollerabili. Stiamo parlando infatti di una malattia molto contagiosa, ma con la stragrande maggioranza di asintomatici/sintomatici lievi. Inoltre, il rischio non è distribuito in maniera identica nella popolazione. La quasi totalità dei decessi riguarda soggetti molto anziani con patologie pregresse. Alla data del 27 gennaio 2021, secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, su 85000 morti totali, nemmeno 1000 sono rappresentati da soggetti sotto i 50 anni. Queste conoscenze ci portano a credere che le restrizioni possano essere diversificate per classi di età/rischio, investendo maggiori risorse per proteggere gli anziani e allo stesso tempo incrementando quell’immunità di gregge tanto cara quando si parla di politiche vaccinali quanto stupidamente misconosciuta nel caso speculare dell’immunità naturale. Questo metodo, se correttamente applicato, metterebbe subito fine a molte pratiche dal valore puramente simbolico, prima fra tutte l’utilizzo della mascherina all’aperto (in assenza di assembramenti), la cui utilità non trova riscontro in alcuno studio serio. A chi, in preda alla paura, replicasse che si tratta di una misura in più che non costa nulla, replicheremo che esistono invece notevoli effetti psicologici, dall’instillare diffidenza nei propri simili al sentirsi continuamente sottoposti ad una sorta di metaforico giogo, alla vergogna di essere obbligati a tenere un contegno che non ha alcuna funzione. La mascherina all’aperto andrà semplicemente consentita e al più raccomandata. Ugualmente andranno aboliti il coprifuoco, misura che ha palesemente esclusiva efficacia terroristica, e l’autocertificazione, per chi è fermato all’interno dell’area nella quale può stare: si vietano gli assembramenti, non i movimenti per scopi non reputati necessari.
È necessario un bilanciamento. Bisogna evitare misure estreme e unilaterali, come la chiusura delle attività commerciali, degli impianti sportivi, dei cinema, dei teatri, delle biblioteche, dei musei e delle sale concerto.
Per quanto attiene invece a misure la cui potenziale efficacia appare più plausibile (fermo restando comunque che una discreta mancanza di correlazione tra l’adozione di nuove misure ed effetti sulla curva dei contagi porta le menti più indagatrici ad interrogarsi sulla realtà di tale efficacia), è necessaria però un’attenta valutazione dei danni che esse procurano. È inutile qui citare i danni economici subiti da molte categorie, già colpite duramente dalla crisi economico-finanziaria. Bisogna però ricordare che si tratta di danni che non sono limitati al momento, ma che a livello collettivo possono riverberarsi ben oltre: quando un tessuto produttivo viene sfrangiato, quando attività familiari vengono acquistate da capitali stranieri, quando vengono perse quote di mercato in favore di aziende di altri paesi, il danno, se non permanente, richiederà comunque lunghi anni di sforzi e sacrifici per essere riparato. E va ricordato che una depressione dell’economia nazionale in ultima analisi finirà per riverberarsi su tutti, anche su chi crede di essere al sicuro, sotto forma di riduzione di risorse disponibili per i servizi di base di cui tutti beneficiamo. Infine, esiste un legame, che non può essere trascurato, tra crisi economica, chiusura di imprese, e perdita dell’occupazione da un lato, e salute psicofisica dei cittadini.
Sia pure con limitazioni, talvolta notevoli, che potrebbero non rendere conveniente la riapertura per alcuni imprenditori, tutte le attività al chiuso andranno astrattamente riaperte. A maggior ragione andranno riaperte le attività ricreative o culturali o sportive svolte negli impianti sportivi, escludendo la doccia e prevedendo altre misure di contenimento. Si tenga conto che la maggior parte delle persone sono impaurite e non torneranno per anni a svolgere attività collettive o sociali, sicché il numero degli iscritti a una palestra, dei bambini membri di una squadra di calcio, dei frequentatori di balere del liscio, e così via, sarà molto inferiore a quello pre-Covid.
Socialità, soprattutto dei bambini e dei ragazzi, e rapporti con i malati.
Ma ci sono anche altri danni oltre a quelli puramente economici. In particolare, i bambini e gli adolescenti coinvolti dalle restrizioni stanno subendo un danno irreversibile alla loro formazione, sia prettamente scolastica che più in generale di educazione alla socialità. La DAD, se fa perdere poco ad alcuni studenti (i bravi e i seguiti a casa) fa perdere parecchio ad altri (i medi) e pressoché tutto quel poco che avrebbero imparato ad altri ancora (i meno bravi). Essa dunque è anche fonte di enorme ingiustizia. La chiusura (temporanea, ma che rischia di durare anni) di tante associazioni sportive, ricreative, culturali, si traduce in un inaridimento della vita sociale ed in una sempre maggiore chiusura nell’individualismo. L’adozione forzosa di uno stile di vita più sedentario avrà effetti sanitari che, pur non immediatamente visibili, si riverbereranno nei prossimi anni sotto forma di peggiori condizioni di salute della popolazione. Senza contare che le misure restrittive hanno l’effetto di diminuire il ricorso al SSN per patologie diverse da Covid-19, sia per l’indisponibilità delle strutture, sia per la paura di recarsi negli ospedali, aumentando nel lungo periodo il numero dei decessi e delle disabilità. Inoltre dobbiamo citare anche le restrizioni alle visite dei parenti in ospedali e case di riposo, i cui effetti in termini di salute mentale e anche fisica sono difficilmente quantificabili ma certamente tutt’altro che trascurabili.
4. Che fare?
Curare in casa con immediatezza.
Partiamo col dire che il modo per trovare un accettabile compromesso tra misure limitative delle libertà individuali e della vita sociale, collettiva e pubblica, e la necessità di attenuare il contagio, si può trovare solo con l’aiuto di un sistema sanitario degno di questo nome, fornendo assistenza domiciliare precoce (come varie reti auto-costituite di medici stanno facendo in modo autonomo, violando gli insufficienti protocolli regionali) ed eventualmente curando in strutture dedicate e non nei normali ospedali. È infatti ormai chiaro che cure domiciliari tempestive consentono nella maggior parte dei casi di evitare l’ospedalizzazione dei pazienti, e dunque il ricorso alla terapia intensiva, vero collo di bottiglia della capacità di assistenza. Per dispiegare pienamente questa importante opzione andrebbero potenziate le capacità della medicina territoriale, ad esempio reclutando gli specializzandi (giovani, e dunque a basso rischio) per effettuare assistenza domiciliare per un certo numero di ore (retribuite) settimanali, esercitando un maggiore controllo sui medici di medicina generale, affinché se non rientrano fra i soggetti a rischio non si esimano dal prestare visite a domicilio ogni qual volta sia richiesto (dotandoli degli opportuni presidi sanitari volti a garantire la loro sicurezza), e definendo protocolli di cura in continua e tempestiva evoluzione sulla base delle esperienze raccolte sul campo. A questo proposito vale la pena citare come su questo fronte si siano invece registrati colpevoli inerzie e ritardi, come ad esempio nell’acquisto degli anticorpi monoclonali, inspiegabilmente ignorati per molti mesi dall’AIFA.
Basta con il terrorismo informativo.
A fianco di questo, occorrerà agire con decisione sul ruolo che i mezzi di comunicazione hanno nel diffondere la paura. Se, come alcuni sostengono, questa è una guerra, le guerre si combattono facendo ricorso al coraggio e comunque alla calma, non alla paura. Dunque, basta con le notizie terroristiche, basta al rito mediatico della conta quotidiana dei morti, basta agli scienziati superstar che pontificano contro l’irresponsabilità del popolo ignorante o si avventurano in previsioni catastrofiche della cui infondatezza nessuno chiede loro conto. La comunicazione sia pacata, moderata ed istituzionale. Occorrerà adoperarsi per convincere le persone, anche le più emotive, che con questa malattia si deve convivere, fino all’immunità di gregge raggiunta anche grazie al vaccino, con gli adeguati accorgimenti; che è giusto che chi ha più timore prenda più precauzioni e chi ne ha meno ne prenda meno; che la gravità della malattia per gli anziani con patologie è molto superiore alla gravità per gli infra-cinquantenni, tra i quali, in quasi un anno, ci sono stati meno di mille morti (tra sani e con patologie pregresse diagnosticate), ossia meno di un terzo delle persone che annualmente muoiono per incidente stradale; che sotto i diciannove anni il rischio di morte è assolutamente irrilevante, essendovi stati soltanto pochissimi morti di ragazzi affetti da gravi patologie; che quindi le famiglie composte da persone giovani e sane, non conviventi con genitori anziani, salvo adottare enormi precauzioni quando incontrano i parenti anziani, possono condurre una vita pressoché normale; che i nonni conviventi con figli e nipoti, se sono autosufficienti e dotati di un diverso luogo in cui vivere, è bene che per un periodo vadano a vivere da soli; che lo Stato farà tutto quanto necessario per fornire tempestivamente le migliori cure in casa a chi dovesse averne bisogno.
La scuola.
La scuola è il fondamento della società, il luogo dove i futuri cittadini vengono educati e preparati al loro ruolo economico e sociale. Per questo, va compiuto ogni sforzo perché le scuole restino aperte, sfruttando anche il fatto che il virus colpisce i giovani poco e in forma lieve. Andranno tutelati gli insegnanti a rischio, che potranno svolgere le lezioni da casa, eventualmente reclutandone di più giovani e in buona salute per la didattica in presenza. Ma è essenziale che la scuola continui, perché da essa dipende il futuro del nostro paese. Messi al sicuro gli insegnanti anziani o portatori di patologie gravi, c’è un rischio minimo di contrarre la malattia che si può e si deve sostenere, come accade a tantissimi lavoratori del settore sanitario, delle fabbriche e di numerosi settori della P.A, per assicurare continuità alla scuola in presenza.
Le restrizioni tra regioni e le visite ai familiari.
Le restrizioni al movimento fra le regioni sono inaccettabili. Le regioni sono strutture di carattere amministrativo, i cui confini non possono in alcun modo tramutarsi in barriere per il movimento dei cittadini. Se restrizioni temporanee al movimento devono esserci, perché l’emergenza sanitaria lo richiede, esse dovranno essere a carattere locale (esempio: restrizioni individuate da un certo raggio di movimento rispetto alla propria residenza), ma non potranno essere legate alla divisione in regioni, in quanto ciò rischia sempre più di tramutare queste in una sorta di staterelli autonomi, in spregio al principio dell’Italia una e indivisibile. Allo stesso modo, dovranno sempre essere garantite le visite ai familiari, ovunque situati, poiché il legame fra genitori e figli o fra nonni e nipoti resta una struttura fondante della società, a cui non è opportuno mettere limitazioni.
Vaccini e conclusioni.
Un discorso a parte merita poi la questione dei vaccini. Già prima dell’avvento del Covid-19 questo era diventato un tema controverso, che vedeva la scienza ufficiale (o meglio, la sua strumentalizzazione politica) contrapposta ad un sempre più vasto movimento di protesta, che se da un lato era spesso sopra le righe, dall’altro era espressione di una crescente sfiducia dei cittadini nelle verità istituzionali e della necessità di un dialogo, necessità a cui non si è trovato di meglio che rispondere con obblighi di legge e propaganda mediatica condotta con arroganza e superficialità. Oggi che i vaccini contro la malattia Covid-19 si stanno rendendo disponibili, sia pure con non pochi dubbi sulla loro reale efficacia, noi riteniamo che non si debba ostacolare la loro diffusione, ma che si debbano al contempo rispettare i dubbi di tanti. Siamo quindi contrari a qualunque forma di obbligo vaccinale, così come a misure che sono state ventilate quali l’istituzione di un passaporto sanitario. Riteniamo inoltre che, nel medio-lungo periodo vada attuata una forte azione indirizzata alla creazione di un’industria farmaceutica pubblica nazionale, che si dedichi allo sviluppo di vaccini (e non solo), sgombrando così il campo da qualunque dubbio riguardo ad influenze della ricerca del profitto sull’adozione di politiche vaccinali (e, più in generale, sanitarie).
Per concludere auspichiamo che la paralisi che sembra attanagliare oggi la società italiana possa essere superata, e che si inneschi un salutare dibattito propedeutico al ritorno ad una situazione di quasi-normalità. Sapendo che con questo virus sarà necessario convivere, senza farsene schiacciare.
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