Torniamo ad abitare il nostro presente e la nostra storia
di GIAMPIERO MARANO (ARS Varese)
Emuli del barone rampante di Calvino, gli intellettuali italiani si aggirano intorno a noi sospesi a tre metri dal suolo e senza alcuna intenzione di scendere giù. Temono di insudiciarsi il completino bianco da scolaretti e di cadere appestati al contatto con il nemico di sempre, buono per tutte le stagioni: l’Ur-clericofascismo del popolo, eterno bambino “tenuto a balia per millecinquecento anni da una religione”, come nell’ultimo scorcio dell’era berlusconiana scriveva Vassalli (L‘Italiano, 2007), quindi ridotto a “disfatta tiepida felice poltiglia sociale modellabile all’infinito“, secondo la definizione, questa invece fresca di giornata, proposta da Francesco Pecoraro.
In realtà, nel 2015 il “popolo”, né tiepido né felice, è talmente smarrito e disperato che chi volesse cercare il carattere italiano più profondo non lo troverebbe negli ultimi fuochi di consuetudini e usanze ormai esauste ma nei grandi autori che hanno modellato la lingua portandola al grado massimo del “raccoglimento” e dell’”intimità”, per citare le due parole davvero decisive usate da De Sanctis nelle righe finali della Storia: non a caso, gli stessi che, in assenza di un’entità politica, hanno gettato le premesse dell’unità nazionale.
Ecco, a me pare che con la raccolta L’abitante, uscita pochi mesi fa per le edizioni Italic Pequod, Domenico Lombardini (Albenga, 1980) intraprenda proprio questa ricerca dei padri, tentando, con un unico coraggioso movimento del pensiero, di recuperare la tradizione e di procedere oltre. Lombardini proviene da una solida formazione scientifica (è stato ricercatore biomedico), che non gli impedisce però di coltivare una vena apertamente (spregiudicatamente, direi) mistica. Un poeta in tutto figlio di questa epoca, frequentatore dei testi sacri della psicanalisi e della filosofia contemporanea, ha trovato la personale via d’uscita dalla Krisis novecentesca ricongiungendosi ai classici delle origini e del Rinascimento: Francesco d’Assisi, Jacopone, Dante, Bruno, Campanella, insieme a maestri contemporanei come Silvano Petrosino e Giuliano Mesa, sono ben presenti nei versi di Lombardini, e pour cause, perché nei periodi di smarrimento è necessario ripartire dall’arché e dalla ricapitolazione simbolica dell’universo.
In virtù di questa consapevolezza L’abitante può spesso donarci versi potenti che descrivono lo svuotarsi del cuore dall’egoismo ostile all’incontro con l’altro (“grande è la vita / nuda; altissima la povertà”) e l’esperienza della manque à être come acquisizione di forza: “riempirsi, sgravarsi, / annichilirsi, sovrabbondare di vita… / è un movimento in cui tutto si perde / e tutto rimane salvo e intatto / nella mano che si colma / vuotandosi, coincidenza amorosa degli opposti”.
In questa dimensione nella quale la dualità e il divenire si rivelano illusioni variopinte, “l’unicità signoreggia / e, sovrana e imperiale, il tempo trascende”, mentre noi stessi comprendiamo con stupore di “essere l’Essere”, cioè “luce / dentro la luce”. L’autoconoscenza si realizza al culmine di un percorso che non è puramente ascetico-negativo, perché il mondo e la creaturalità non si dissolvono annientati dall’Eterno ma brillano del suo stesso splendore: “farsi figlio e padre, / cerchio e punto. / abitare quella tensione, / trascendersi e mondanizzarsi”.
Viviamo il mondo e siamo vissuti dalla luce: è una scoperta, un evento – quanto di più lontano dal sogno, dalla nostalgia, dal desiderio sia dato concepire. Il senso dei versi di Lombardini sta proprio qui: nella decisione scomoda di tornare ad abitare il proprio presente e la propria storia, “graditi e bistrattati” nello stesso momento, com’è inevitabile che accada a chi percorre strade ancora sconosciute.
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