I meravigliosi anni Trenta
di Luca Mancini (ARS Lazio)
Se oggi mi si chiedesse “in che epoca avresti voluto avere 30 anni?”, risponderei senza esitazione: “negli anni Trenta”. Non perchè io sia un guerrafondaio, ma perchè avrei voluto assistere ai più grandi esperimenti economico-sociali che l’umanità abbia mai visto.
Il 24 ottobre del 1929 a New York, dentro le caotiche stanze della borsa di Wall Street, accadde quello che per alcuni sembrava impensabile dopo i “ruggenti anni venti”, mentre per altri era diventata ormai una timida speranza. In quel giovedì di fine ottobre furono 12.894.650 le azioni che cambiarono di mano, a prezzi sempre più bassi, gettando nella disperazione molti risparmiatori e investitori. La seduta era iniziata in modo tranquillo, ma i prezzi dopo qualche ora presero a scendere a perpendicolo e alle 11,00 si era diffuso un clima di paura, a tal punto che nessuno più comprava. Mezz’ora dopo il mercato era in preda alla psicosi e si verificarono vere e proprie vendite da panico. Quel giorno è passato alla storia come il “giovedì nero” e come il momento più brutto dell’era del capitalismo. Da quel momento in poi, nel campo economico-sociale le cose cambiarono per sempre.
Mentre a Wall Street si respirava un’aria di profondo nervosismo e già si diffondeva la voce che undici noti speculatori si fossero tolti la vita, c’è da immaginarsi la faccia di Stalin, dall’altra parte dell’oceano che leggeva soddisfatto i giornali e i dispacci provenienti dagli Stati Uniti o da Londra, Parigi e Berlino. Se il leader dell’Unione Sovietica usciva per le strade di Mosca o San Pietroburgo la situazione era completamente diversa, come se i sovietici vivessero su un altro pianeta. Mentre nel mondo occidentale le attività chiudevano e si spargevano povertà, disoccupazione e disperazione, le nuove fabbriche sovietiche erano colme di lavoratori e la disoccupazione si avviava verso lo zero. Il liberismo economico, che aveva caratterizzato la politica europea e statunitense negli anni Venti, aveva fallito miseramente, mentre il “socialismo in un Paese solo” propugnato da Stalin trionfava. I russi, spinti dalla dottrina marxista e quindi consapevoli della fallacia del capitalismo, furono i primi a sperimentare un’organizzazione economico-sociale differente. Sotto la suddetta dottrina stalinista l’economia sovietica era interamente pianificata ed organizzata dallo Stato tramite i piani quinquennali, ossia dei piani che stabilivano determinati obiettivi economici (una precisa quantità fisica di beni da produrre) da raggiungere in un periodo di cinque anni. Sotto la guida dello Stato, vennero costruite un’infinita di fabbriche nelle sterminate campagne russe, mentre l’agricoltura venne interamente collettivizzata. Nella nuova organizzazione sovietica non esisteva la proprietà privata, non c’era spazio per giochini finanziari in borsa, esisteva soltanto l’economia reale e non c’erano capitalisti, ma non era tutto così perfetto. L’ossessione di Stalin per i capitalisti, portò il regime sovietico a compiere crimini rilevanti nei confronti dei contadini, i quali erano restii a cedere i loro piccoli poderi allo Stato per andare a lavorare nei campi comuni (kolchoz). Nella mente del leader sovietico era sufficiente avere un piccolo orto e magari due mucche per essere considerato un proprietario terriero (kulako) e pertanto un nemico del nuovo ordine costituito. Ad ogni modo, con il sangue dei contadini, in particolar modo di quelli ucraini che opposero una dura resistenza, gli obiettivi del governo sovietico vennero raggiunti e negli anni Trenta la differenza con i Paesi occidentali era evidente.
Mentre negli USA, nello stesso periodo, nessuno riusciva a capire dov’era il problema e la politica non faceva altro che spendersi in messaggi incoraggianti per il mercato, che puntualmente finivano nel nulla, in Europa qualcuno iniziò a guardare con interesse agli esperimenti sovietici.
Nelle stanze di Villa Torlonia a Roma, vi era spesso un Mussolini intento a leggere con estrema attenzione i dispacci provenienti da Mosca. In Italia la crisi del ’29 era stata avvertita meno, rispetto al resto d’Europa, per via di alcune politiche protezioniste che il governo aveva intrapreso.
Nel 1927 era stata redatta la Carta del Lavoro, ossia un programma di riforme economiche e sociali che avrebbe portato alla costruzione dello Stato corporativo. Quello che i giuristi Carlo Costamagna e Alfredo Rocco avevano pensato nel redigere il documento era un processo lungo e tortuoso, ma che nella loro idea avrebbe portato alla fine della lotta di classe. Mussolini e i suoi uomini erano consapevoli della fallacia del capitalismo liberista, ma erano anche ostili agli eccessi del sistema stalinista, così tentarono un altro esperimento economico-sociale. L’economia italiana sarebbe stata organizzata in corporazioni, ossia delle istituzioni dove vi erano sia i rappresentanti dei lavoratori che dei datori di lavoro di un determinato settore economico, i quali dovevano smettere di “combattersi” e trovare insieme il miglior assetto per la produzione in quel settore. Tutto ciò doveva essere fatto, partendo dal presupposto che l’interesse e il benessere della nazione erano più importanti di quelli di classe. La proprietà privata non era abolita, ma responsabilizzata socialmente e sottoposta al controllo dello Stato, il quale si assumeva il compito di controllare e dirigere le scelte delle corporazioni e si ritagliava un ruolo importante nell’economia, intervenendovi direttamente in determinati settori strategici, avendo come obiettivo primario il raggiungimento della piena occupazione. Per tutti gli anni Trenta il governo italiano fu impegnato nella graduale realizzazione del sistema corporativo con alterne fortune, ma dando così al mondo una terza possibilità.
In quegli anni molti furono attratti dal complesso sistema italiano, primi fra tutti i tedeschi che guardavano con occhi sognanti alle realizzazioni del regime fascista. Se nelle stanze di Villa Torlonia Mussolini leggeva attentamente i dispacci provenienti da Mosca, nelle camere del Nido dell’Aquila, tra le Alpi Bavaresi, Hitler leggeva avidamente i dispacci provenienti da Roma. Tuttavia i tedeschi decisero di non seguire l’esempio italiano e intrapresero un’altra via. Forse non avevano del tutto compreso i complessi meccanismi del corporativismo, visto che ci sono svariate testimonianze di eminenti professori tedeschi che affermano che il sistema italiano fosse troppo complesso e non adatto per una rapida rivoluzione socio-economica. La Germania nazionalsocialista intraprese così una forma di durissimo dirigismo statalista, non troppo lontano da quello sovietico. Si distingueva da esso per non aver abolito la proprietà privata, ma di fatto essa era sottoposta ad un durissimo controllo statale. Infatti nel 1936 il ministro dell’economia Hermann Göring varò il piano quadriennale per l’economia tedesca, il cui obiettivo principale era rafforzare l’autarchia del regime. Lo Stato intervenne direttamente nelle industrie strategiche, vennero tagliate il più possibile le importazioni, furono stabilite le politiche produttive di determinate aziende e fu avviato un’ingente programma di opere pubbliche, di cui la rete autostradale era l’opera più grande.
Nel 1933 anche a Washington capirono che il mercato non si sarebbe ripreso con le sue forze e così dopo aver lasciato milioni di americani nella povertà e nell’indigenza per ben quattro anni, decisero di fare ciò che per ogni buon americano era considerata praticamente una bestemmia: lo Stato sarebbe intervenuto direttamente nell’economia. Dopo tre presidenti repubblicani che difesero il liberismo fino all’ultimo giorno, venne eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt che varò un vasto piano di riforme che prendeva il nome di New Deal. Lo Stato avviò un vastissimo programma di lavori pubblici che ridiedero finalmente lavoro ai milioni di disoccupati statunitensi, la FED aumentò la quantità di denaro in circolazione, abbandonando la parità aurea del dollaro e fu avviata la creazione di un’apposita agenzia di elettrificazione che avrebbe portato la corrente elettrica anche nelle campagne, le quali finora non ne avevano giovato. Buona parte di questa energia elettrica era creata dalla TVA (Tennessee Valley Authority), un progetto pubblico per la creazione di centrali idro-elettriche nella valle del fiume Tennessee, il quale costituì la più grande realizzazione pubblica del New Deal.
Gli statunitensi scelsero una via più leggera rispetto a quella italiana, tedesca o sovietica, tuttavia ciò non risparmiò durissime critiche al presidente Roosevelt e ai suoi collaboratori, i quali vennero accusati di importare il fascismo o il comunismo negli Stati Uniti, dove la libertà d’impresa e la non ingerenza statale nell’economia erano considerati dogmi inoppugnabili.
Quando anche gli USA abbandonarono il credo liberista, fu ormai chiaro a tutti che l’era del laissez-faire era finita, come il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes, aveva già lucidamente previsto nel suo libro La fine del laissez-faire del 1926. Nella prima metà degli anni Trenta egli ebbe modo di raccogliere tutte le sue idee, espresse in diversi saggi precedenti, nel suo capolavoro Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che vide la luce nel 1936 e su cui si basarono tutte le politiche economiche del dopoguerra. Keynes, che si definiva liberale, riteneva che per salvare il sistema capitalista fosse necessaria una più equa redistribuzione della ricchezza, al fine di non escludere le classi subalterne dal mondo del lavoro, evitando così che esse rivolgessero tutte le loro speranze verso il fascismo o il comunismo. Per fare ciò era necessario che lo Stato intervenisse direttamente nell’economia nei momenti di crisi, creando nuovi posti di lavoro e quindi aumentando la domanda di beni sul mercato.
Gli anni Trenta possono essere considerati un laboratorio in cui vennero condotti i più grandi esperimenti di riforma economico-sociale della storia dell’umanità moderna. I governi occidentali del secondo dopoguerra seppero far tesoro di tali esperienze e debellarono la dottrina liberista. In questo senso, l’assemblea costituente italiana fu particolarmente all’avanguardia, come è testimoniato dalla parte della nostra Costituzione che disciplina i rapporti economici, nella quale non vi è alcuna traccia del liberismo economico.
Oggi l’Unione Europea persegue un’anacronistica restaurazione liberista, ma la Storia ha già condannato il liberismo una volta e non tarderà a farlo una seconda.
Viva la Repubblica Sovrana!
articolo interessante!
Caro Luca, c’è da temere che il tuo desiderio si possa realizzare, che la seconda decade di questo secolo possa essere una riedizione degli anni ’30. Per me è un timore. Infatti i politici che hanno affrontato quella crisi erano straordinariamente inadeguati alla situazione e si sono lasciati andare a scelte che infine hanno portato al disastro mondiale. Stalin per tutti gli anni ’20 era stato fautore della tesi di Bucharin, dell’industrializzazione a passo di lumaca; fu la crisi degli ammassi della fine del 1927 a rendergli impossibile la prosecuzione della NEP, quindi a costringerlo ad avviare la collettivizzazione dell’agricoltura e l’industrializzazione accelerata. Poiché fu la crisi della NEP a forzare Stalin e non l’intelligenza della situazione, le sue scelte furono prese sotto l’effetto di una paranoia devastante: nei kulaki vide un nemico dichiarato del potere bolscevico e reagì dichiarando GUERRA dapprima ai kulaki, poi ai contadini in generale, sterminandoli a milioni (le cifre sono oscillanti, restano comunque milioni), facendo milioni di prigionieri che usò come schiavi nei gulag. Sono d’accordo sul fatto che l’industrializzazione conobbe notevoli successi, ma che uno Stato dichiari guerra al suo popolo è quanto di peggio possa fare, significa avere il boia come ministro degli interni. Mussolini per parte sua era stato liberista per tutti gli anni ’20; nel ’26 aveva rivalutato la lira a quota ’90, per la salute dei risparmiatori che lo sostenevano, tagliando i salari e gli stipendi – qualcosa di molto simile all’attuale situazione per cui il cambio forte costringerà il governo a tagliare del 20% le retribuzioni. Il corporativismo fu una finta: la corporazione doveva essere rappresentanza esclusiva dei lavoratori E degli imprenditori, ma gli imprenditori non vi mandarono mai i loro rappresentanti e si tennero la confindustria; il risultato fu che la corporazioni furono qualcosa di molto simile ai nostri attuali sindacati gialli, un anello di trasmissione burocratico da un governo, le cui scelte sono determinate da banchieri e industriali, ai lavoratori. Le misure degli anni ’30 non rilanciarono l’economia italiana; le scelte del regime si avviarono verso l’imperialismo e la partecipazione a guerre devastanti e vergognose. Il nazismo fu l’antikeyneismo nella forma più barbarica. Da sempre il liberismo ricorre alla spesa pubblica per superare le strozzature della domanda: lo fa autorizzando o spingendo gli Stati a farsi guerra tra loro; la guerra fa della domanda una voragine e rimette in moto l’economia senza turbare gli equilibri sociali, anzi assoggettando i lavoratori a condizioni ancora più gravose. Il nazismo è questo, dunque il contrario dell’idea di Keynes – quella di far intervenire lo Stato anche in tempo di PACE consentendogli di fare investimenti produttivi, creare occupazione, migliorare il livello di civiltà, così da pareggiare senza traumi e regressioni la domanda all’offerta. Lo stesso Roosevelt fu un keynesiano molto, troppo debole (Keynes lo criticò per questo, lo incitò a misure più energiche) e non riuscì a risolvere la crisi se non con la guerra – di nuovo. Insomma: negli anni ’30 la luce di Keynes è ancora troppo fioca, gli Stati affrontano il disastro del liberismo alla maniera liberista, con la guerra. Meglio evitare ogni nostalgia e sforzarsi perché il liberismo sia schiacciato in tempo.
Caro Paolo, sono pienamente d’accordo con quanto hai scritto. Soprattutto sul fatto che i prossimi anni possano essere come gli anni Trenta. Il punto è proprio questo: fare tesoro delle esperienze positive o negative del passato per costruire un futuro migliore. Esattamente come hanno fatto i nostri padri costituenti in Assemblea costituzionale, i quali hanno tenuto conto di queste esperienze che hanno caratterizzato gli anni Trenta. Che ci piaccia o no è da lì che la nostra riflessione deve partire, poiché quella fu la prima decade in cui si cercò di eliminare il liberismo. L’articolo vuole fare proprio questo, suscitare un dibattito su quelle esperienze. Non c’è nostalgia, ma tanto da riflettere…
Sinceramente non vedo in quest’articolo della nostalgia, a mio modesto modo di vedere lo vedo più un articolo ”Storia Vs Liberismo”. Ovviamente è soggettiva quella che si reputa la tesi di fondo di un articolo, solo l’autore può dire espressamente cosa voleva dimostrare.
Io in questo articolo ci vedo:
-la nostalgia non per gli anni 30 in quanto anni 30, ma in quanto periodo storico nel quale si sono intraprese per la prima volta su larga scala azioni di governi sovrani volte ad imprimere un forma di direzione al ciclo economico(che poi è la tesi del libro di Keynes ‘’la fine del laissez faire’’, anch’esso citato dall’articolo)
-non vedo nessun esaltazione del bolscevismo, del nazional socialismo, del fascismo e giammai del Roosveltismo, anzi l’unico ‘’slancio’’ lo vedo quando si cita l’impianto della Costituzione del 48’.
-per quanto riguarda l’insegnamento che un lettore ricava dalla lettura dell’articolo, almeno per me, è che il liberismo puro dello stato ‘’minimo’’ sia insostenibile nel tempo, prima o poi porta a delle reazioni, in quegli anni ci fu una fortissima reazione che portò addirittura ad uno stato ‘’totalitario’’ (con sue annesse tragiche conseguenze come da te giustamente evidenziate). Ora le condizioni di vita, per nostra fortuna, non sono le stesse degli anni 20, ma a livello concettuale, ideologico, le elitè con tenace costanza perseguono un fine politico di riportarci allo Stato minimo. Anche stavolta in un modo o in un altro ci sarà una reazione.
Io so bene che Luca non voleva affatto esaltare le nefandezze di Stalin, Hitler, Mussolini; credo che volesse dire qualcosa su cui tutti noi siamo d’accordo, cioè che gli anni ’30 dimostrarono come il mercato, lasciato a se stesso, non si mantenga in equilibrio, ma entri in una spirale critica devastante. Io voglio sottolineare che questa confutazione del liberismo fu però SOLTANTO oggettiva, e non SOGGETTIVA: gli uomini, cioè i capi, non seppero comprenderla, lasciarono che Keynes restasse “vox clamantis in deserto” e si accanirono a usare la vecchia ricetta liberista contro la crisi da domanda, cioè la guerra. Come dice Luca nella sua risposta, solo il dopoguerra (i costituenti) ha assimilato la lezione che Keynes per primo aveva tratto dalla realtà.
Dissento da Paolo Di Remigio. Secondo me Keynes imparò tutto dalle esperienze sovietica e nazionalsocialista.
In fondo è molto positivo il giudizio che Keynes diede dell’Unione sovietica o almeno è sorprendente. Tieni conto Paolo che Keynes andò in Unione sovietica nel 1925. Fino al 1924 era stato un liberista e un liberoscambista (lo dice lui in saggi del 1929, raccolti in “Come uscire dalla crisi”). E nel 1926, dunque dopo il viaggio in unione sovietica, scrive “La fine del laissez faire”. Il giudizio di Keynes sull’URSS è riassunto qua: https://books.google.it/books?id=2K48CgAAQBAJ&pg=PT80&lpg=PT80&dq=%22Keynes%22+%22unione+sovietica%22+%22viaggio%22&source=bl&ots=SkiZ3rJmvv&sig=T4UWkNKTlbCTDEi9NpSUFQKA3vw&hl=it&sa=X&ved=0CCcQ6AEwAWoVChMIp6eRkKyByQIVQmEPCh3R4ADf#v=onepage&q=%22Keynes%22%20%22unione%20sovietica%22%20%22viaggio%22&f=false
Ma Keynes imparò molto anche dal nazionalsocialismo. Se si leggono le conferenze che andava svolgendo dal 1929 in poi, raccolte in “Come uscire dalla crisi”, si vede un progressivo accostarsi di Keynes verso soluzioni di diretto intervento produttivo dello stato (ma in fondo nel 1933 ancora poche), verso il controllo della circolazione dei capitali e in parte delle merci. E soprattutto c’è la volontà di far risalire i prezzi e quindi di promuovere l’occupazione ma non c’è nessuna menzione della piena occupazione. Ebbene in 3 anni, con una economia NON DI GUERRA, come riconosce John Kenneth Galbraith, il problema della piena occupazione in Germania fu risolto (è questa la ragione storica del consenso straordinario che ebbe il folle Hitler). Quando Keynes pubblicò la teoria generale, il nazionalsocialismo aveva già raggiunto la piena occupazione . Il giudizio di Galbraith sulle politiche economiche nazionalsocialiste è riassunto qua https://www.appelloalpopolo.it/?p=5415 (la fonte è di “destra” ma cita ampiamente le opinioni di economisti “di sinistra”) dove trovi altri due link a due articoli di studiosi di sinistra. I provvedimenti presi (utili distribuibili al massimo al 6%; il resto viene prestato forzatamente allo stato al tasso del 5% e poi se non erro del 2,5% e altri simili, assolutamente non furono liberisti e andarono molto al di là del keynesismo, nel vincolare il grande capitale, o meglio nel funzionalizzarlo.
Quanto all’Italia, credo che essa vantò la più ferrea disciplina di vincoli alla circolazione dei capitali, con una serie di normative che si conclusero nel 1934, quando Keynes, nella raccolta di saggi più volte citati, non arrivava ad essere così duro con il capitale anglosassone (va detto che i saggi mostrano come Keynes avesse a cuore di far uscire l’Inghilterra dalla crisi, non di far finire la crisi mondiale;magari la condizione dell’Italia era diversa e richiedeva interventi più stringenti).
Keynes si limitò ad estrarre dalle esperienze autoritarie il necessario o meglio “la teoria Keynesiana maturò in un dialogo tra la mente di Keynes e le esperienze degli stati autoritari”.
A mio avviso, quando si valuta la politica economica di un paese, bisogna astrarre dalla sua struttura democratica o meno. Sono due discorsi completamente separati. Poi ci si interrogherà se certe politiche economiche possono essere attuate solo da stati autoritari o totalitari (Keynes riconobbe che forse le sue idee trovavano più agevolmente attuazione in stati autoritari, ossia in stati nei quali, salvo i casi di pura dittaura borghese alla Pionochet, c’è un potere non capitalista o non soltanto capitalista, che può limitare più agevolmente il capitale). Gli altri stati, ossia le democrazie capitalistiche, ci arrivano in ritardo e fanno il minimo possibile, sicché come riconosce Galbraith, gli USA ebbero bisogno di dieci anni più della germania e della seconda guerra mondiale per raggiungere la piena occupazione che la Germania raggiunse in meno di tre anni.
Stefano, non sono un esperto di Keynes; ma le tue affermazioni mi lasciano perplesso, perché negli anni ’20 in Urss non c’è ancora la pianificazione, ma la NEP. Domani leggerò con attenzione i testi che mi hai indicato e scriverò il mio parere.
Lo stretto collegamento fra il pensiero di Keynes e le esperienze fascista e bolscevica sono un dato scontato per chiunque ne conosca minimamente il pensiero.
Puntuale l’intervento di Stefano. Un po’ timida la sua formulazione quando scrive che “le democrazie capitalistiche ci arrivano in ritardo”. La verità, che gli ultimi 15 anni hanno reso evidente come mai prima nella storia, è che democrazia e voto universale sono sperimentati metodi di governo del capitale: “le oligarchie finanziarie, in generale, preferiscono i governi democratici a quelli autoritari. La stabilità del sistema è consolidata da periodiche consultazioni popolari che ratificano l’operato dei governi – questo è il normale significato delle elezioni parlamentari democratiche – ed evitano all’oligarchia pericoli molto reali di dittatura personale o militare” (Baran e Sweezy, Il capitalismo monopolistico).
L’alternativa non è mai stata fra democrazia e dittatura, come vorrebbero i pennivendoli di regime, ma fra l’attuale dittatura del capitale finanziario e una dittatura retta da élites politiche.
Vero, anche perchè la Costituzione è pura e semplice carta da culo, fino a che…non viene applicata.
Il che sembra una cosa banale ma è il contrario.
Chi crede nella democrazia è un ignorante che non ha mai conosciuto la gloriosa storia dell’elitismo italiano.
Persino il marxista Sapir è srrivato a sdoganare la dittatura come UNICA, SOLA, SINCERA forma di rappresentanza popolare.
Il resto è solo ed esclusivamente oligarchia.
Ecco, francamente mi hanno stancato i provocatori squilibrati e misantropi trincerati nell’anonimato, del tutto disinteressati alla forma dialogica dell’apprendimento, utili quanto una forchetta nel brodo, legati a una comunicazione violenta e assertiva proprio perché assicurati dal profilo anonimo.
Mi può cortesemente indicare la provocazione, lo squilibrio e la misantropia?
La ringrazio anticipatamente.
Certo: sarò cortese. Le dev’essere sfuggito che sta commentando in un sito di persone che – oltre a credere nella democrazia costituzionale (e questo basti a spiegare la mia reazione) – credono nel ragionamento puntellato da argomenti solidi piuttosto che nella declamazione da profeta in cerca di gregge. Spero di essere stato esauriente. Saluti
La “democrazia costituzionale” non sfugge alle analisi di Pareto, Mosca e Michels, esattamente come non vi sfuggirebbe il Sacro Romano Impero o la Russia di Putin o la Corea di Kim Il Sung.
Se vogliamo, la differenza è che rispetto ad altri tipi di regime, quello costituzionale è, almeno in teoria, finalizzato (il concetto di “democrazia sostanziale”) al perseguimento di determinati obiettivi socioeconomici.
Bene, se intende che lei, credendo in questa particolare forma di governo, intende perseguire questi obiettivi, siamo perfettamente d’accordo.
Se invece crede che la Prima Repubblica fosse una democrazia, allora temo che sia in errore.
Era una partitocrazia, mentre il sistema attuale, se non le fa schifo questa parola un pochino datata, è una plutocrazia.
Personalmente non stravedo per nessuno dei due sistemi oligarchici, ma dovendo scegliere, viva Andreotti, viva Craxi, viva Mattei, viva Moro, viva Fanfani, viva La Pira.
Se i partiti sono partiti “di massa”, ben strutturati su tutto il territorio, con una base militante molto estesa e attiva, ben venga la “partitocrazia”, termine diffuso dagli anni ’60 con accezione negativa e intento polemico. ma adatto in realtà a descrivere la forma di democrazia più credibile. Credo (crediamo) che la forma di democrazia più compiuta sia quella sociale (sostanziale), rappresentativa e partitica (e del resto il ruolo istituzionale dei partiti è esplicitato in Costituzione: https://www.appelloalpopolo.it/?p=11470). I partiti (quelli veri, non quelli attuali, post-ideologici, mere espressione di potere) devono tornare ad essere il ponte tra il popolo e le istituzioni (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13089).
Un conto è asserire che nella democrazia dei partiti, o partitocrazia – che è l’unica forma vera o sostanziale di democrazia – c’è pur sempre elitismo (sulla base degli studi e delle osservazioni degli autori citati), e quindi svolgere una mera asserzione descrittiva che non implica una critica della democrazia; posizione che mi troverebbe persino d’accordo, sebbene ci tenga a sottolineare che per me l’elitismo democratico è una scelta di valore irreversibile, rispetto all’elitismo antidemocratico. Un conto è scrivere che “Chi crede nella democrazia è un ignorante che non ha mai conosciuto la gloriosa storia dell’elitismo italiano”. Qui l’elitismo si contrappone alla democrazia e non si sovrappone ad essa, come dovrebbe essere; e sembra porsi l’alternativa democrazia/elitismo con in più l’opzione dichiarata per l’elitismo. E’ una opinione politicamente abominevole, irrazionale, rabbiosa, manifestazione di “isteria del frequentatore della rete”, non a caso proveniente da chi non si firma con nome e cognome.
Mi firmo con nome e cognome, se è quella la cosa che interessa.
Sull’abominevole, irrazionale, odioso, ecc… mi sia consentito di farmi una risata, con rispetto parlando.
Bè… ecco che tutta la critica marxista e anarchica da una parte, fascista ed elitista dall’altra, alla democrazia liberale, diventa “opinione politicamente abominevole, irrazionale, rabbiosa e isterica”. Chi non è liberal democratico è matto o giù di lì. Sembra di leggere Scalfari.
Per quanto poi riguarda l’anonimato, pensavo che il nickname – specie quando adottato con regolarità – fosse la formula abituale di comunicazione forumistica. Se questo sito non vuol essere un ritrovo interno di ARS i nicknames non dovrebbero dare adito a scomuniche. Senza dire che Marx, Lenin, i citati Baran e Sweezy, Sorel, Mosca, Pareto, Spengler e tanti altri le loro opere le hanno firmate per esteso.
E’ vero che Matteo ha usato un linguaggio opinabile nel suo primo intervento. Ma è anche vero che da quando è stata lanciata l’ARS gli spazi di dibattito su questo forum si sono ristretti paurosamente. E’ il prezzo da pagare per operare in ambito politico e rispetto la vostra scelta. Allo stesso modo voi rispetterete la scelta di chi non intenda assoggettarsi a criteri di political correctness.
Mi sembra che la rispettiamo. Noi possiamo essere sprezzanti con le teorie che rifiutano la democrazia come cornice esattamente come i sostenitori di queste teorie possono essere sprezzanti con le teorie democratiche. E alle accuse di ingenuità o di insincerità o di ignoranza rivolte ai democratici ed espresse giustamente senza rispetto del politicamente corretto, possiamo rispondere con accuse di isteria, di depressione e di stress rivolte agli antidemocratici, sempre senza rispettare il politicamente corretto.
Il punto non è fare a gara a chi è più salace, il punto è che pretendere di essere al contempo rivoluzionari ed istituzionali è quantomeno…dubbio?
Io non sono “antidemocratico”, perchè per esserlo bisognerebbe che la democrazia, almeno per poco tempo, sia esistita, mentre non possono che esistere elite, filopopolari o antipopolari, nazionali o cosmopolite, liberali o socialiste o quel che sarà.
O, nel vostro caso (nel caso abbiate successo) sovranista.
Certo, fare la rivoluzione ed accettare il terreno liberaldemocratico della competizione elettorale la vedo grigia, ma…in bocca al lupo.
Mi sono un po’ documentato sulle evoluzioni di Keynes. Mi sembra che fino alla fine egli abbia ritenuto il meccanismo di mercato irrinunciabile, che dopo un’iniziale condiscendenza (molto apprezzata dai pianificatori nel brain trust di Roosevelt) alla programmazione (documentabile nella “Fine del laissez faire” ma anche nel discorso radiofonico “La pianificazione statale”, dove però è esplicitamente affermato: “La pianificazione consiste nel fare quelle cose che sono per loro natura al di fuori della portata dell’individuo… Quello a cui dobbiamo porre rimedio è il fallimento dell’intelligenza collettiva… rispetto all’intelligenza individuale. E dobbiamo rimediarvi, se possiamo, senza danneggiare l’energia costruttiva dello spirito individuale e senza ostacolare la libertà e l’indipendenza dei privati”), Keynes nella “Teoria generale” l’abbia rifiutata e abbia limitato l’intervento dello Stato al controllo del saggio di interesse e alla spesa pubblica. Egli criticò la timidezza di Roosevelt nel servirsi della spesa pubblica, ma da una posizione era contraddittoria: temeva che la spesa dello Stato invadesse i campi dell’investimento privato: ne voleva la quantità, ne rifiutava la qualità. Quanto al suo atteggiamento nei confronti dell’Urss degli anni ’20 dal link di Stefano risulta che per Keynes i bolscevichi non hanno nulla da insegnare in campo economico, che il comunismo ha dalla sua parte non l’efficienza, ma il fanatismo religioso. Sui regimi degli anni Trenta Keynes è molto duro; in “Autosufficienza nazionale” (aprile 1933) trovo: “Nei paesi in cui coloro che auspicano l’autarchia sono al potere, sembra a mio giudizio che senza eccezioni siano state compiute molte follie. Mussolini forse è sul punto di mettere il dente del giudizio. Ma la Russia dà prova del peggior esempio mai visto forse nel mondo di incompetenza amministrativa e del sacrificio di quasi tutto ciò che fa la vita degna di essere vissuta anche per delle teste di legno. La Germania è alla mercé di pazzi scatenati, benché sia troppo presto per giudicare la sua capacità di conseguire dei risultati”. Insomma, mi sembra che io avessi un’immagine di Keynes troppo “keynesiana” e Stefano, e ancor più Lorenzo, un’immagine troppo rivoluzionaria rispetto a un pensiero molto legato al liberalismo.
La discussione si è poi spostata sul problema della maggiore efficienza della democrazia o del totalitarismo ad attuare scelte economiche ed è diventata polemica. Io non sono d’accordo sui termini nella quale è stata impostata: non credo che sia sostenibile l’opposizione democrazia-totalitarismo. L’opposizione vera è tra Stato e totalitarismo; ciò che li distingue è il pluralismo. Lo Stato è tale solo se è pluralistico, se garantisce più partiti, più religioni, più sindacati ecc.; lo Stato che si identifica con un solo partito, una sola religione, ecc. è totalitarismo, cioè non-Stato, cioè tirannia. L’idea dello Stato moderno nasce a fine ‘500, quando, dopo un secolo di guerre di religione, ci si accorge che la religione non può più garantire la pace sociale perché si è moltiplicata in sette che tentano di sterminarsi tra loro. Quindi, l’inautenticità più o meno grave di gran parte delle democrazie non permette di rivalutare il totalitarismo (ciò che tradizionalmente si chiamava “tirannia”) sotto nessun profilo, perché la questione decisiva non è se la democrazia sia autentica o guidata dalle élite, ma se essa sia la forma istituzionale di uno Stato autentico (pluralista) oppure no; se lo è, va comunque difesa contro la tirannia, che è il male assoluto, e migliorata.
Caro Paolo, io non sono (semplicemente) keynesiano proprio perché reputo che lo Stato debba intervenire sempre, non solo in funzione anticiclica e che debba farlo con i vari strumenti reputati opportuni di volta in volta per i fini che lo stato si pone. Credo di aver dimostrato con il link sul nazionalsocialismo che quei “pazzi”, come giustamente li chiamava Keynes (che però erano più bravi o almeno più socialisti di Keynes in economia) abbiano ottenuto i migliori risultati mai ottenuti in tre anni con una economia non di guerra. Quella politica economica è un modello da studiare molto più di Keynes ed è consentita dalla nostra Costituzione che non limita l’intervento secondo le linee della teoria generale, ormai mitigate da Keynes (rispetto alle opinioni espresse fino al 1933-34 nei saggi che sopra ho citati, visto che l’Inghilterra era a suo dire uscita dalla crisi – ossia i prezzi avevano ricominciato a crescere e c’erano aspettative di profitto ma non la piena occupazione). In definitiva reputo: a) che per ragioni di semplificazione si attribuiscano a Keynes proposte che furono attuate da stati prima che lui le proponesse o in misura maggiore di quanto lui suggerisse durante la crisi (salvo radicalizzare dal 1929 al 1933-1934 le proprie posizioni per poi attenuarle nella teoria generale); b) che la nostra Costituzione non è semplicemente Keynesiana, perché prevede la programmazione volta ad indirizzare l’attività economica a fini sociali e non semplicemente la piena occupazione ma anche un salario dignitoso e altro (da qua le gloriose partecipazioni statali, che riguardavano anche latte e pomodori – la cirio); né esclude che raggiunta la piena occupazione lo stato possa intervenire ancora, ovviamente sottraendo lavoratori e spazi all’attività privata (salvo facendo entrare nel territorio italiano altri lavoratori provenienti dall’estero).
Quanto al pluralismo, esso in democrazia può esserci o non esserci. Negli anni 1994-2014, nel potere politico ve ne è stato molto meno che durante il primo ventennio, visto che dentro il partito fascista si discuteva di politica estera, di politica monetaria, di legge bancaria e di moltissime altre cose, con un’ampiezza di tesi non registrabile nel secondo ventennio. Io difendo la democrazia per difendere la mia libertà di dire ciò che voglio, per quanto insignificante sia la mia espressione. Ma questo non è pluralismo, bensì libertà personale. Il pluralismo in democrazia può esserci o non esserci. E lo stesso può accadere negli stati a partito unico.
Stefano scrive: “Il pluralismo in democrazia può esserci o non esserci. E lo stesso può accadere negli Stati a partito unico.”
Stefano sottolinea la differenza tra libertà personale e pluralismo. In effetti questi concetti non sono perfettamente sovrapponibili poiché può aversi “libertà personale” in una situazione di “pensiero unico” (come oggi) e, allo stesso modo, di pluralismo in una situazione di assenza di libertà personali. Tuttavia non si può dedurre da ciò una maggiore desiderabilità del “pluralismo in assenza di libertà personali” rispetto a una in cui siano garantite le “libertà personali” ma si sia in regime di “pensiero unico”. Sono, in tutta evidenza, due forme complementari di tirannide. Al cui vertice ci sono sempre e immancabilmente delle élites.
L’una (libertà personale e pensiero unico) è la tirannide economica, fondata sulla preminenza assoluta del denaro, talmente assoluta che può permettersi anche la libertà d’espressione, in quanto non rappresenta una minaccia; è il modello statunitense.
L’altra (pluralismo e assenza di libertà personali) è la tirannide politica, fondata sull’ideologia, tale per cui ogni dissenso può essere accolto e discusso solo all’interno del partito che governa il paese; è il modello cinese.
Io, se permettete, voglio il buono dell’una e dell’altra soluzione, e respingo decisamente il male presente in entrambe. Dunque voglio un sistema politico pluralista, ma incardinato in una Costituzione che renda impossibile la dittatura economica.
Chiedo troppo? Ragazzi sveglia, perché se una soluzione così non arriva lo fondo io un partito.
Sono d’accordo con la distinzione di Stefano tra democrazia e pluralismo. Quando parlavo di pluralismo come essenza dello Stato non mi riferivo alle libertà personali, mi riferivo alla presenza legittimata all’interno dello Stato di organizzazioni quali possono essere i partiti, le chiese, i sindacati, le accademie, insomma i corpi intermedi che hanno intelligenza politica, ossia percepiscono la dipendenza del loro interesse particolare dall’interesse generale, quindi mediano tra gli interessi dei gruppi e l’interesse generale: questo pluralismo caratterizza la qualità dello Stato, differenzia tra libertà e tirannia; per chiarezza possiamo chiamarlo libertà politica. Le libertà personali, nel senso della persona privata, sono una funzione della prosperità economica: infatti la persona privata è essenzialmente proprietario che stabilisce a suo arbitrio legami contrattuali con gli altri proprietari; e quando si è poveri c’è poco da fare contratti. Quindi è possibile, come dice Stefano, che ci sia democrazia senza pluralismo, anzi è proprio ciò che viviamo, come rileva Fiorenzo: le “libertà” che l’Unione Europea ci offre sono a) l’estensione della proprietà privata a tutti gli ambiti vitali e b) la scambiabilità mediante contratto di qualunque bene o prestazione. Questo allargamento della “libertà” personale è contestuale alla vanificazione del pluralismo: come negli Stati Uniti, tutte le TV trasmettono gli stessi programmi, tutti i giornali diffusi seguono lo stesso frame, tutti i partiti hanno le stesse politiche, tutti i sindacati ripetono lo stesso T.I.N.A. ai lavoratori. L’elemento comico è che l’appiattimento della libertà politica a libertà personale realizzato dalla UE, ossia dalla finanza globalizzata, con la promessa dello scatenamento delle potenzialità economiche, quindi con la prospettiva di un arricchimento generale inaudito (ricordate Prodi? “Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più”) si è risolto in una spaventosa crisi economica che vanifica con la povertà le stesse libertà personali. Quindi ci troviamo quasi senza libertà POLITICA (quella dei corpi intermedi) e quasi senza libertà PERSONALE (quella liberale da prosperità economica), dunque con il compito di recuperare entrambe – come dice Fiorenzo. Solo su un dettaglio dobbiamo ancora essere chiari. Se è perfettamente legittimo parlare di democrazia senza pluralismo, quindi di democrazia totalitaria, quella che permette la scelta DEI governanti ma non permette scelte AI governanti (questo si verifica quando si afferma il carattere soltanto TECNICO, non politico, delle decisioni economiche – come fa il neoliberismo), secondo me non è altrettanto legittimo parlare, come fa Stefano alla fine del suo commento, di totalitarismo pluralista. Il totalitarismo può essere pluralista solo contro se stesso, nella misura in cui non può impedire completamente ciò che è suo obiettivo impedire. Esso, infatti, consiste nella contraddizione del PARTITO UNICO: “partito”, come “parte”, afferma la pluralità, “unico” la nega. Il modo di questa negazione è l’onnipotenza dell’apparato repressivo, l’esistenza di una polizia politica e di un tribunale speciale. Certo, si può discutere sulla misura in cui il fascismo sia stato totalitario, in cui abbia quindi ammesso la formazione di correnti organizzate di opinione; questa discussione esula però da quella sulla natura del totalitarismo. Vero, dunque, come dice Stefano: in certe fasi del ciclo economico il totalitarismo può creare e usare strumenti economici con più efficienza, quindi le sue pratiche ECONOMICHE vanno studiate ed eventualmente applicate. Se però si deve scegliere tra la fame e la GESTAPO è preferibile di gran lunga, mi sembra, la fame.
Ogni regime di ieri, di oggi e di domani permette la massima libertà di espressione possibile, a patto che non vengano lesi i meccanismi di legittimazione del potere stesso.
La Roma papalina non ha hai avuto alcun problema a lasciare che i giovini goliardi declamassero i versi osceni di Marziale, ma guarda caso Celso era invece introvabile…
Il commento contiene dei presupposti discutibili. Attribuendo al potere un MECCANISMO di legittimazione, sembra supporre che esso sia essenzialmente sopraffazione, violenza. Ma non è così: il potere è la capacità di farsi obbedire volontariamente. Cito Weber: “Per ‘potere’ si deve intendere … la possibilità per specifici comandi (o per qualsiasi comando) di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini e non già qualsiasi possibilità di esercitare ‘potenza’ e ‘influenza’ su altri uomini”. Nella misura in cui sono socializzati, gli uomini riconoscono dei doveri, delle leggi; questi doveri sono la disposizione a obbedire; peraltro il riconoscimento del dovere non è semplice sacrificio autolesionistico, ma genera l’attesa dei diritti – e la fiducia che l’attesa non sia vana si può chiamare “libertà” in senso politico. La libertà non è dunque un chiudere gli occhi da parte delle cricche dei sopraffattori sulle marachelle innocue dei dominati, ma il ritorno, in forma di diritti, dell’accettazione dei doveri. Il potere statale è legittimo se è garanzia di questo ritorno. Dunque possiamo e dobbiamo distinguere tra Stato e tirannia.
Non è una questione di sopraffazione o meno.
Ogni forma possibile immaginabile di convivenza civile (a meno di non addentrarsi in stupidissime utopie anarcoidi) contiene una parte necessaria di attributi cogenti, una parte volontari ed una parte, diciamo, di libera interpretazione o quantomeno neutrali sotto il profilo politico.
Le proporzioni saranno diverse, la sostanza non cambia.
Questo una volta era pacifico ed accettato, almeno fino a che Pareto era patrimonio comune di…tutti quelli che volevano parlare di politica.
L’idea dell’utente che crede sia possibile un sistema in cui esiste libertà d’espressione ed al contempo autorità statuale non ha precedenti.
Poi, ora qualcuno dirà che sono misantropo, malvagio e blablabla…
Se si parla di politica e di Stato conviene sempre distinguere tra arbitrio (“faccio quello che mi pare”) e libertà (“accetto un dovere, così acquisisco un diritto”). Ogni discorso sulla libertà che prescinda dalla relazione diritto-dovere è su una strada sbagliata: parla di libertà, ma intende arbitrio; mentre quella è un prodotto sociale, questo è un fenomeno naturale. Vivere in società, a prescindere se questa abbia forma statuale o meno, implica sempre limitazione dell’arbitrio; tuttavia proprio la limitazione dell’arbitrio è, in quanto dovere, l’inizio della libertà. Per riprendere il tuo esempio della libertà di espressione, leggere frettolosamente, insultare gli altri, interpretarli insinuando cattive intenzioni (tutto ciò di cui internet trabocca) sono atti di arbitrio, il cui risultato è l’incapacità generale di ascolto, la diffidenza, la superficialità; invece la limitazione dell’arbitrio, dunque la gentilezza, la lettura attenta e rispettosa, è l’acquisizione del diritto alla gentilezza, alla lettura attenta e rispettosa. Questo diritto acquisito tramite l’accettazione del dovere, in altri termini: la buona coscienza, è propriamente la libertà di espressione. Insomma, la natura ci ha dato l’arbitrio; la libertà la produciamo noi, nella misura in cui siamo in grado di controllare l’arbitrio. Da qui, e non dall’arbitrio, nasce ogni discorso sullo Stato.