La costituzione del concetto occidentale di libertà
di COSTANZO PREVE
Nella tradizione della filosofia politica occidentale, che trova la sua indiscussa origine storica e geografica negli antichi greci, la libertà non sorge come istanza potenzialmente universalistica in progressiva estensione cosmopolitica, ma si costituisce come privilegio comunitario. Nella società greca, a differenza che nella maggioranza delle società tribali o imperiali che la circondavano, la differenza fra schiavi e liberi, da un lato, e fra cittadini ed ospiti stranieri, dall’altro, tracciava l’ascissa e l’ordinata del campo comunitario in cui veniva definita per differenza contrastiva la condizione di “libertà”.
La libertà (eleutheria) non era infatti in prima istanza un ideale filosofico, ma una condizione sociale dotata di differenti modalità di esercizio. Fra i vari “ideali” che la filosofia greca proponeva la “libertà” brilla spesso per la sua assenza, laddove sono molto più presenti la felicità (eudaimonia), l’assenza di dolore (aponia, atarassia) il vivere bene (eu zen), eccetera. La libertà è infatti molto più un presupposto che un ideale politico vero e proprio. Bisogna però fare in proposito alcune osservazioni ulteriori.
In primo luogo, è stato ripetutamente notato (per esempio da Hegel) che proprio la scissione sociale fra liberi e schiavi permetteva di pensare in modo contrastivo la scissione fra libertà e non-libertà, laddove in molte società orientali e tribali proprio la mancanza di questa scissione netta portava all’impossibilità di emersione netta di questa scissione. Il “libero”, infatti, non potrebbe neppure accorgersi di essere tale se non potesse contrapporsi in modo contrastivo al non-libero, così come il sano non si accorgerebbe neppure di essere tale se non avesse mai visto un ammalato. In proposito, l’assenza è la premessa della consapevolezza della presenza.
In secondo luogo, se l’esercizio della libertà era un esercizio collettivo e comunitario del gruppo dei liberi, l’ideologia occidentale della libertà, che è oggi praticata dall’impero americano unilaterale e potentemente armato che ricatta il mondo dopo averlo privato del diritto internazionale fra stati, non nasce prima delle guerre persiane e della corrispondente scissione simbolica fra Greci e Barbari. Questa scissione non è per nulla “razzista” (la costituzione del concetto occidentale di Razza è posteriore), ma è “culturalista”, in quanto si basa sulla produzione preliminare della categoria contrastiva di “dispotismo”, esattamente come oggi l’americanismo deve oggi produrre la categoria contrastiva di “totalitarismo”.
La categoria di “totalitarismo”, al di là del suo carattere tautologico e dunque ben poco “conoscitivo”, deve essere respinta in toto e senza compromessi, non perché non descriva (sia pure raramente) alcuni tratti superficiali reali dei sistemi di potere a partito unico ed a ideologia obbligatoria e costrittiva di stato, ma perché per sua natura è una categoria bellica ed ideologica, come quella di “dispotismo” che nacque a Maratona per poi passare dalla difesa della democrazia ateniese contro il Re dei Re di Persepoli alla conquista imperiale dello spazio geografico medio-orientale da parte di Alessandro il Grande e dei suoi diadochi (che furono poi dei veri “despoti” se mai ve ne furono). Insomma, per dirla in modo sintetico, l’idea di libertà nasce come pratica di un privilegio comunitario, mentre l’ideologia della libertà nasce come protesi ideologica di un interventismo imperialistico.
In terzo luogo, il carattere politico-comunitario della pratica della libertà dei greci non può essere seriamente negato da chi ha anche solo sentito parlare dell’esistenza della polis antica. La polis antica era una comunità politica interclassista, non un insieme russoviano di solitudini originarie che si aggregano a partire dall’inesistente “grande zero” dello stato di natura per fondare un “contratto sociale” di solitudini aggregate insieme. Non bisogna identificare le nevrosi maniacali di Jean-Jacques Rousseau con la politica, e dedurre direttamente la sua teoria politica dal fatto di essere cresciuto senza padre e senza madre, ma certamente la teoria politica della sinistra ottocentesca ed ancor più novecentesca è stata indebolita dalla sua rimozione del carattere comunitario della società umana.
Pratica della libertà come privilegio comunitario ed esclusione delle donne dalla gestione della polis non sono pertanto soltanto “limiti” di una concezione già potenzialmente universalistica, che aspetta solo di “integrare” nella sua pratica schiavi, stranieri e donne, come se appunto i suoi limiti fossero solo incidenti di percorso, ma sono caratteri strutturalmente non universalistici. Questo privilegio comunitario permetteva comunque attività come il teatro e la filosofia, luoghi in cui poteva essere idealmente praticato l'”universale”. La libertà antica era dunque programmaticamente non-universale (gestione politica della polis) e nello stesso tempo idealmente universale (gli spazi istituzionali protetti del teatro e della filosofia).
Il teatro di Sofocle e di Aristofane è però appunto ancora un teatro politico, come era ancora in buona parte politica la filosofia di Socrate, il “moscone della democrazia ateniese”. Come è noto, nella cosiddetta età ellenistica e poi ellenistico-romana, la costituzione politica, il teatro politico e la filosofia politica caddero insieme. Qualcosa del genere può essere visto oggi nell’odioso orizzonte dell’impero americano, in cui la costituzione politica è svuotata dalla fine della sovranità causata dalla minacciosa presenza di basi militari potentemente armate in Europa sessant’anni (60, lo scrivo anche in cifre) dopo il 1945, il teatro politico è integralmente sostituito dai serials e dalle telenovelas in rapporto a cui Menandro e Plauto erano ancora dei commediografi iperpolitici, e la filosofia politica è stata annegata nel conformismo politicamente corretto di professori universitari incravattati che si aggirano in campus dominati da adolescenti a metà fra cultura della droga e dello sballo e cultura del business e della speculazione di borsa.
Secondo la convincente ricostruzione storica di Orlando Patterson, non è mai emersa nel mondo occidentale antico e poi moderno una sola ed univoca nozione di libertà politica, ma si sono costituite in modo ad un tempo distinto ed intrecciato tre distinti tipi di “libertà”, che Patterson chiama civile, signorile e personale. La libertà civile consisteva nella possibilità di partecipazione attiva all’amministrazione della polis (nel duplice aspetto della isonomia, l’eguaglianza del diritti, ed isegoria, eguale possibilità di prendere la parola nelle assemblee deliberative). La liberta signorile era garantita nel suo esercizio dal diritto al possesso di beni e di schiavi. La libertà personale, infine, si basava sulla possibilità di disporre liberamente di sé stessi. Gli schiavi, e questo è un punto che è bene non dimenticare mai erano privati di tutte e tre queste libertà, ed è per questo che Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito parla correttamente della schiavitù come di una vera e propria “morte sociale”.
Le analisi e le distinzioni di Patterson partono correttamente dagli antichi greci, ma è del tutto possibile e conveniente prolungarle fino alla costituzione storica della modernità. Il modo più semplice di farlo è analizzare separatamente queste tre dimensioni, sapendo però che si tratta di un’operazione artificiale, perché nella realtà esse sono strettamente intrecciate.
A proposito della libertà civile, intesa come libertà di partecipazione politico-decisionale e non solo ritualistico-simbolica, è noto che essa non può esistere senza un presupposto materiale indispensabile, che è la sovranità della politica sull’economia, e più esattamente la sovranità ed il primato della deliberazione politica esecutiva sulle alternative economiche possibili.
La democrazia greca non è neppure lontanamente concepibile senza la consapevolezza del fatto che essa decideva realmente sulle condizioni economiche delle maggioranze attive dei cittadini. Ad esempio, le decisioni di stabilire e di finanziare la fondazione di colonie di popolamento, e le decisioni di armare flotte commerciali e da guerra in cui i cittadini potessero trovare posti di lavoro come rematori. Questo comportava però ciò che fu a suo tempo definito da Karl Polanyi l’intreccio fra politica ed economia, per cui la cosiddetta “economia” a rigore non esisteva neppure perché era “incorporata” (embedded) nel momento della decisione politica comunitaria.
Oggi si è di fronte ad una palese “dittatura dei mercati”, formulazione anonima, fatalistica e religiosa dietro cui si nasconde una dittatura oligarchico-finanziaria di centri di potere nazionali e transnazionali. Il personale politico di servizio, artificialmente polarizzato in strutture intercambiabili ad ideologizzazione quasi solo più identitaria e spettacolare (destra e sinistra in America Latina, democratici e repubblicani negli USA, eccetera) non “rappresenta” più gruppi sociali “decisori”, dal momento che la decisione è ormai in gran parte monopolizzata dalle oligarchie finanziarie, ma al massimo rappresenta gruppi di interessi orientati dai due parametri dell’interesse corporativo di gruppo (più spesa pubblica o meno spesa pubblica) e dell’identità ideologico-religiosa (più aborto o meno aborto).
I discorsi che si fanno oggi sull’importanza della “società civile” assomigliano sinistramente ai discorsi che si facevano sull’importanza della “moralità” al tempo di Augusto. Si comincia a parlare in modo ossessivamente retorico di una cosa proprio perché questa cosa non esiste più nella realtà, e si cerca un risarcimento illusorio fuori dalla realtà stessa. Al tempo di Augusto di moralità non c’era ovviamente neppure l’ombra, così come oggi non c’è neppure più l’ombra della società civile. La società civile, infatti, se esiste, è quella cosa che non può per sua propria natura essere quotata in borsa. La conclusione, triste ma inevitabile, è che oggi di libertà civile nel mondo occidentale non si vede neanche l’ombra.
La libertà signorile, intesa come esercizio differenziato di un potere su beni e persone, è oggi realmente esistente, e mille volte più fiorente che al tempo degli antichi greci. La libertà signorile giuridica diretta su gruppi di schiavi e di servi della gleba (libertà schiavistica antica e libertà feudale medioevale) è infatti una forma necessariamente instabile e strategicamente poco sicura, oltre che spesso economicamente inefficiente e restia all’innovazione tecnologica produttiva. La libertà signorile capitalistica (ed imperialistica) è immensamente più stabile delle precedenti libertà signorili, perché crea una “comunità illusoria” di formalmente liberi, laddove la discriminazione castale (induismo comunalistico), razziale (varie forme di apartheid basato sul colore della pelle) e giuridica (liberi e schiavi, eccetera) è inevitabilmente residuale. Nello stesso tempo, il fatto che oggi l’accesso alla libertà signorile sia più facile (ammesso che lo sia poi veramente, cosa che sono anche disposto a concedere) che al tempo di Nerone o di Carlo Magno, non significa che non ci sia in proposito una continuità quantitativa e qualitativa nell’esercizio delle forme di dominio sociale.
Sotto certi aspetti oggi le cose sono addirittura più spudorate, se passiamo dalle aule universitarie delle facoltà di scienze politiche (luoghi in cui si svolgono i riti sacerdotali di esaltazione delle moderne forme liberaldemocratiche di libertà contrapposte al dispotismo antico ed al totalitarismo moderno) alle acque del Mediterraneo. Da un lato, scendono da Nord verso Sud navi da crociera a prezzo stracciato per turisti di ceto medio europeo. Dall’altro, salgono da Sud verso Nord barche sfondate stracariche di poveracci africani in cerca di lavoro salariato a basso prezzo. L’elemento paradossale sta nel fatto che una comoda cabina in una nave da crociera costa dieci volte meno di un posto in piedi in una barcaccia sfondata.
I marinai della nave da crociera vengono definiti in termini di onesti lavoratori salariati gioviali ed abbronzati, mentre i marinai della barcaccia sfondata vengono definiti in termini di spregevoli mercanti di carne umana. Il lettore non ancora del tutto rincoglionito dai luoghi comuni sparsi dai mass-media noterà certamente che qui il senso del tragico ed il senso del comico si incontrano armonicamente.
La libertà personale è oggi sostanzialmente definibile come una premessa formale per il raggiungimento sostanziale della libertà signorile. Certo, esiste sempre la possibilità dell'”esodo”, più esattamente dell’esodo esistenziale individuale o di piccolo gruppo elettivo, e cioè dell’esodo in conventi, agroturismi, ghetti per pensionati, luoghi esotici a basso prezzo ma anche (ahimé) a bassa assistenza medico-geriatrica, centri sociali per spinellatori allucinati rintronati da una musica ad altissimo volume, scelti gruppi di amici neo-epicurei, neo-stoici e soprattutto neo-degustatori di ottimi vini e di cibi scelti, eccetera, sempre ovviamente che si abbiano i soldi per la badante moldava o per la stiratrice filippina.
Ma questa possibilità dell’”esodo” c’è sempre stata anche nelle società feudali e schiavistiche, ed è stata anzi teorizzata in modo teoretica-mente insuperabile dalle filosofie ellenistiche. Al di fuori di questi pittoreschi gruppi di “esodanti”, tuttavia, la libertà personale oggi è per la grande maggioranza della gente o l’accettazione forzata del lavoro salariato nella sua peggiore forma possibile, e cioè nella, sua forma “postfordista” flessibile e precaria, oppure il campo da gioco in cui giocare il gioco del capitalismo globalizzato, in cui poter accedere alla libertà signorile individuale o di gruppo.
Riassumiamo. La libertà civile oggi non esiste praticamente più e sopravvive in modo larvale come ritualità elettorale che non dà luogo da nessuna parte ad una cosiddetta “democrazia” ma ad una oligarchia finanziaria a periodica legittimazione plebiscitaria in cui ad essere “plebiscitata” è una classe politica di servizio artificialmente divisa in polarità teatrali del tutto omogenee nei due parametri essenziali (economia capitalistica totale e sottomissione strategica e militare all’impero americano mondiale).
La libertà signorile oggi è fiorente più che mai, e si basa su differenziali di potere e di consumo che stanno sotto gli occhi di tutti. La libertà personale, infine, esiste certamente, nella misura in cui la “persona” (il greco prosopon) non è il libero individuo dotato di un’anima razionale antropologicamente “generica” ma è una “maschera di carattere” (Charaktermaske) che fa da supporto biologico al suo inserimento nel mondo della progressi-va mercificazione universale. Tutto questo è “universale”? Ma non scherziamo, per favore. Tutto questo è solo materiale per un “solvente universale”, quello in cui ci vogliono versare tutti, lo vogliamo oppure no. A questo punto, non esistono più mezze misure, e possiamo solo dire sì oppure no allo scioglimento della cosiddetta “libertà” nel solvente universale.
[da Del buon uso dell’universalismo. Elementi di filosofia politica per il XXI secolo, ed. Settimo Sigillo, 2005]
Il testo di Preve, di cui non metto in discussione la perfetta integrità morale e l’intelligenza del suo presente, mi suscita qualche perplessità. La più pesante è questa: come si può parlare di libertà senza parlare di diritto e di dovere, dunque di Stato? Sembra che i pensatori di formazione marxista condividano con i loro acerrimi nemici, i liberali, il pregiudizio che la libertà sia un carattere NATURALE dell’individuo, non un insieme di diritti che rifluiscono all’individuo dal rispetto dei doveri fissati dalle leggi dello Stato. Unica differenza: i liberali si figurano la natura umana egoistica, i socialisti comunitaria; ma l’errore della naturalizzazione della libertà è comune a entrambi. Proprio con questa naturalizzazione le lotte della “sinistra” hanno acquisito una carattere non più politico, lotta per leggi e istituzioni razionali che assicurino i diritti di ciascuno fissando i loro doveri, ma utopico e palingenetico, in una confusione ripugnante che acceca la visione della realtà e consente ogni deviazione.
Il testo qui riportato e’ solo un paragrafo di un libro di piu ampio respiro.
Ti riporto però due passaggi di un altro paragrafo intitolato “Caute ipotesi sul futuro della questione dell’indipendenza nazionale nell’attuale contesto storico”:
“….nello stesso tempo, tuttavia, ritengo che l’aspetto principale della questione nazionale oggi sia un ltro, ed esattamente l’aspetto positivo della resistenza e dell’indipendenza [ dall’imperialismo globalista americano]”
E ancora : “…i popoli sono il fattore politico e le nazioni sono il fattore culturale necessario alla resistenza all’impero americano”
A Preve ovviamente il concetto di Patria sta stretto, ma è da esso considerato indispensabile per una liberazione popolare.
Grazie, Roberto. Chiarirò meglio il mio pensiero nell’articolo sullo Stato che sto preparando.