Ipse dixit. Indovina chi… (2a parte)
di DAVIDE PARASCANDOLO (ARS Abruzzo)
Prendendo spunto dalla prima parte dell’articolo, riproponiamo ora alcune posizioni assunte dal Partito comunista sui medesimi temi, non senza puntualizzare che su alcuni di essi, rispetto alla coerenza del Psi, i comunisti avrebbero tuttavia dovuto fare i conti con alcune ambiguità di fondo1.
Uno dei perni sui quali si rinsaldava la linea del Pci in quegli anni così delicati, e che rileva ai fini del nostro discorso, era il fermo convincimento di dover perseguire una politica nazionale. Piuttosto nette le parole di Togliatti a riguardo:
Ora, la politica estera – affermava –, e precisamente una politica estera nazionale, incomincia precisamente in quel punto in cui coloro i quali divergono nell’adesione a differenti sistemi di idee avvertono la necessità, nell’interesse supremo della nazione, di convenire in una politica comune che entrambi hanno dedotto, per vie diverse, da diversi punti di partenza.
Poco più avanti, chiarendo ulteriormente quale fosse la posizione del Pci su tali questioni, si esprimeva in questi termini:
Quello che noi chiediamo, quello che è necessario affinché la pace sia conservata, è che tutti i popoli siano liberi di fare da sé; liberi di decidere da sé le loro questioni; liberi di costruire da sé quell’ordine nuovo cui aspirano e che è conforme alla loro volontà2.
Ancora più esplicito poi, soprattutto alla luce dell’odierno quotidiano svilimento delle nostre prerogative nazionali, un ulteriore passo, del seguente tenore:
Quando poi abbiamo creduto che la strada della nostra salvezza consistesse nel metterci al servizio di interessi stranieri, ci siamo posti sempre sulla via della rovina… È ora di finirla di essere spinti a versare il proprio sangue per una causa che non è la nostra3.
Nella seduta della Camera del 2 dicembre 1948, duri attacchi furono rivolti anche contro una supposta e cooperativa organizzazione economica europea che abbracciasse le nazioni del continente.
Quando voi proponete di fondare sopra di esse – incalzava Togliatti – una Federazione di popoli europei, dovete onestamente riconoscere che voi volete non unire, ma scindere l’Europa… ho letto tutti i documenti del Movimento federalista europeo, e ho trovato che tutti sono costruiti secondo il principio fondamentale per cui si potrebbe costituire la «unione federativa europea» soltanto con quei Paesi che accettano determinati principii, forme di vita e di civiltà, forme di organizzazione politica, economica, sociale4.
Un lucido realismo venne dimostrato dal quel Pci nella denuncia di come i gruppi capitalistici occidentali stessero deliberatamente scegliendo di vendere l’indipendenza dei loro Paesi attraverso il ricorso ad una specifica ideologia: il cosmopolitismo. Ricorda Galante:
A questo fine essi avevano bisogno di una copertura ideologica che permettesse loro di indebolire, nel sentire dei popoli, il principio della sovranità nazionale e che giustificasse ogni loro impresa di asservimento imperialistico. I gruppi dominanti dell’imperialismo americano tentavano perciò di diffondere prevalentemente tra gli intellettuali le ideologie cosmopolite, con le quali essi cercavano di mascherare i loro piani di egemonia mondiale5.
Togliatti riteneva fosse esiziale perdere le nostre possibilità di sviluppo indipendente assoggettandoci supinamente agli interessi di potenze straniere che ci avrebbero obbligato a vivere sui margini della loro espansione economica e del loro benessere. In che modo, dunque, doveva essere perseguita per il Pci una politica estera nazionale? Già in un discorso del 1947, Togliatti esplicitava le esigenze fondamentali della nostra vita nazionale.
La prima è che non ci siano interventi stranieri nella nostra politica interna. Guai a noi… se dovessimo, oltre tutto, ammettere che i nostri governi si facciano a seconda del beneplacito o della richiesta di una capitale straniera. L’indipendenza del nostro Paese sarebbe per sempre perduta. Seconda esigenza è quella della esclusione di un intervento economico straniero. Dobbiamo organizzare la collaborazione economica, industriale e commerciale con tutti i Paesi dell’Europa e del mondo, ma in modo tale che ci permetta di sviluppare la nostra economia a seconda di quelle che sono le necessità di sviluppo della nostra vita e forza nazionale6.
Il concetto di indipendenza nazionale doveva essere declinato, per Togliatti, al fine di comporre il quadro di una «Europa delle Nazioni». Si trattava naturalmente di un’indipendenza tutt’altro che nazionalistica; essa infatti implicava l’elaborazione di una nuova etica delle relazioni internazionali, fondata sulla cooperazione tra popoli liberi e indipendenti. Ciò che Togliatti non riusciva inoltre a tollerare era l’atteggiamento poco dignitoso del governo in carica, teso ad elemosinare aiuti e appoggi di ogni genere dagli Stati Uniti d’America.
Ritengo sarebbe cosa molto buona per gli sviluppi della nostra politica nazionale e soprattutto per la psicologia del nostro popolo, se rinunziassimo a questo termine di «aiuti»,
il quale, proseguiva il leader comunista,
scoraggia il popolo italiano, dandogli l’impressione che non può far niente se i potenti che siedono in qualche parte della terra non si degnano di muoversi verso di lui… Quando qualcuno dice che bisogna salvaguardare la nostra indipendenza, c’è sempre qualcun altro che risponde che noi abbiamo bisogno di «essere aiutati»; è un concetto che deve essere sradicato una volta per sempre.
Concludeva quindi Togliatti:
L’unità del mondo non si crea imponendo a tutti i Paesi il predominio di una sola potenza strapotente, si crea attraverso la conquista e la garanzia della libertà e dell’indipendenza, direi attraverso la libera esplicazione del genio di ogni nazione7.
Quanto al federalismo europeo, Togliatti non aveva dubbi, si trattava di «uno dei punti di approdo dell’ingenuo e astratto pacifismo razionalistico settecentesco». Egli disapprovava radicalmente l’idea della rinuncia alle singole sovranità al fine di creare un super-Stato europeo in grado da solo di garantire la «pace perpetua» dei popoli del continente.
Vi sono limitazioni della sovranità assoluta degli Stati – affermava – che possono servire a preparare uno sviluppo pacifico; ve ne sono altre che, carpite o imposte ai popoli da un prepotente, servono di solito soltanto, dopo un periodo più o meno lungo di soggezione e apparente calma, a stimolare nuovi conflitti, a renderli inevitabili… Chi possegga una minima dose di senso storico e la capacità elementare di distinguere situazioni diverse, non può che sorridere al sentir paragonare gli Stati europei del giorno d’oggi ai Cantoni svizzeri del 1848, o alle disperse colonie della Nuova Inghilterra del periodo in cui venne fondata la federazione americana8.
Insomma, l’Europa di cui i federalisti parlavano veniva identificata in realtà con ciò che essa era o doveva essere per gli esponenti del grande capitalismo americano, ovvero il «sistema della libera impresa» o, sommariamente, «civiltà occidentale», respingendo e rifiutando come non europeo ciò che avrebbe potuto modificare il modo di vita, l’organizzazione economica e politica, i costumi e le leggi che costituivano l’humus nel quale prosperava e dominava il regime capitalistico. Pertanto, l’europeismo veniva derubricato a ideologia avente come obiettivo la frantumazione, e non l’unione dell’Europa, essendo considerato come un puro mantello propagandistico per mezzo del quale i decantati costruttori dell’Europa si trasformavano nei suoi più radicali distruttori.
In questo breve excursus storico abbiamo lasciato la parola a illustri uomini politici del nostro passato, uomini che avvertirono il pericolo di un futuro poi puntualmente realizzatosi, ed anzi ancora in via di realizzazione, il quale sta anestetizzando la nostra Nazione condannandola al torpore asfittico che la sta uccidendo. Il nostro futuro non può più essere progettato e imposto sulla base di odiosi vincoli esterni, ma deve essere determinato da noi stessi, secondo le nostre esigenze e i nostri ideali, nel rispetto della nostra storia e delle nostre specificità culturali, in piena libertà e in completa indipendenza. Solo quando nel nostro Parlamento e nel dibattito politico nazionale torneranno a riecheggiare concetti di tale caratura morale ed intellettuale, solo allora forse la rinascita e la conseguente liberazione saranno più vicine, e potremo sperare di riscoprire la bellezza e le infinite potenzialità della parola Sovranità.
Note
1 Non possiamo esimerci infatti dal rilevare l’imbarazzo derivante al Pci dal dover far spesso e volentieri i conti con la difficoltà di combinare il forte richiamo allo spirito nazionale con il totale e sostanzialmente acritico allineamento nei confronti del Cremlino. Un esempio su tutti: la contrarietà da parte dei comunisti nell’accettare il principio della neutralità in occasione della presentazione della mozione Nenni contro la partecipazione italiana ad alleanze a carattere militare (30 novembre 1948). Ulteriori ambiguità meriterebbero di essere approfondite in chiave storica, la qual cosa richiederebbe tuttavia un più ampio spazio in altra sede.
2 Passi tratti dall’intervento di Palmiro Togliatti alla Camera dei Deputati il 2 dicembre 1948, riportato nei resoconti stenografici consultabili sul sito ufficiale della Camera all’indirizzo:
http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0145/sed0145.pdf.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 S. Galante, La politica del Pci e il Patto atlantico. «Rinascita» 1946-49, Marsilio, Padova, 1973, p. 108.
6 Dal discorso «Per una politica estera di indipendenza e di pace», in P. Togliatti, Opere. 1944-1955, vol. V, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1984, pp. 356-357.
7 Ibidem, pp. 349-350, 352.
8 P. Togliatti, «Federalismo europeo?», in Rinascita, anno V, n. 11, novembre 1948, p. 378.
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