Promemoria in pieno capitalismo assoluto
di ALESSANDRO MONCHIETTO (filosofo; Università di Torino)
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a profonde trasformazioni nella struttura della società. Si sono ampliate le diseguaglianze sociali a causa della destrutturazione dello stato sociale, da una legislazione del lavoro basata sul contratto collettivo di lavoro siamo passati ad un ordinamento inspirato alla flessibilità e alla precarietà, il ceto medio e la piccola e media impresa si sono quasi estinti e l’incremento della disoccupazione è diventata una realtà da accettare passivamente e con cui dover convivere.
Gli equilibri sociali garantiti da un modello di economia mista si sono dissolti con l’avvento del capitalismo assoluto. Se parliamo dei diritti sociali per come li conoscevamo, è evidente il fallimento del sistema prodotto dal liberismo occidentale. Occorre tuttavia considerare che l’autoreferenza dell’economia nello sviluppo della società è un falso dogma. Non esiste un fondamento naturale dello sviluppo economico, così come postulato dalle teorie liberali.
In realtà l’avvento del capitalismo globale è scaturito dall’ascesa al potere nei paesi anglosassoni di una classe dirigente che ha imposto un nuovo ordine, in via prospettica estensibile a tutto il mondo, e quindi il globalismo liberista sussiste in quanto sostenuto da una volontà politica che ha determinato la deregolamentazione dei mercati, le privatizzazioni generalizzate, le delocalizzazioni industriali, il dominio finanziario globale.
Poiché quindi, lo stato sociale, la redistribuzione dei redditi, l’emancipazione delle masse, non rientrano nelle finalità del modello economico sociale liberista, l’attuale regresso sociale, non può essere di certo considerato come l’esito fallimentare delle politiche di una società capitalista fondata sul predominio del profitto individuale.
Il liberismo é semplicemente l’applicazione pratico/economica dei principi filosofici liberali. Scandalizzarsi per l’assenza di politiche sociali degne di questo nome in un modello come quello liberista equivale a meravigliarsi dell’assenza di libero mercato in una società fondata sul socialismo reale.
Se Keynes intendeva lo Stato come freno al laissez-faire, il “neoliberalismo” invece lo intende, in un certo senso, come propulsore. È in tal senso che la dimensione politica, lungi dallo sparire sopraffatta da quella economica, diventa l’asso nella manica dei dominanti: non il politico dunque che si ritrae a favore dell’economico, bensì il politico che si ramifica e persino moltiplica, assumendo però veste e missione esclusivamente economiche.
“Ciò che per tanto tempo ha reso difficile da afferrare l’unità filosofica del liberalismo economico e del liberalismo culturale è il fatto che a partire dalla crisi del 1929 (poi sotto le stringenti necessità dell’economia di guerra e dell’ulteriore ricostruzione) il sistema capitalista ha conosciuto per diversi decenni un periodo di relativa regolamentazione, o di pianificazione limitata. A tal punto che Orwell stesso – così come del resto Karl Polanyi – considerava il ritorno al “lasciar fare” originario come una utopia definitivamente superata.”[*]
Con l’ingresso nella situazione post-comunista (quella che Preve definiva “fase speculativa”, in cui l’Occidente capitalistico si scopre senza alcun katechon) le condizioni di sovranità si rovesciano improvvisamente: le organizzazioni dei lavoratori hanno scoperto di possedere ormai ben poco per poter effettivamente intimorire la controparte, e il privilegio di minaccia è passato quasi unilateralmente dal lato delle imprese.
Quando la torta ha iniziato a non crescere più (a causa della crisi del regime di accumulazione post-bellico) e il potere contrattuale della controparte si è indebolito, chi aveva il coltello dalla parte del manico ha potuto tranquillamente decidere di tagliarsi una fetta più grande.
La dissoluzione del capitalismo democratico nell’assetto del dopoguerra ha reso evidente il contrasto insanabile tra ceti produttivi sempre più impoveriti e capitalismo delle élite globali sempre più alla ricerca di nuove fonti di guadagno per ricostruire i propri margini di profitto.
Il punto di svolta sono gli anni settanta, nel quale si è assistito alla perdita di centralità delle “istituzioni keynesiane” (sindacati e organizzazioni padronali entro l’arena della politica nazionale) in favore di “istituzioni hayekiane” (organizzazioni e istituzioni tecniche sovranazionali, non dotate di una legittimazione democratica).
“È evidentemente in questo contesto di un capitalismo tornato alla sua primaria essenza (ma questa volta deregolamentato su scala mondiale e liberato di tutti i suoi compromessi storici precedenti, non soltanto con la cultura aristocratica ma in uguale misura con le ideologie nazionale, repubblicana e socialdemocratica) che si può comprendere il contemporaneo scatenamento dell’individualismo narcisistico e del liberalismo culturale, che ne è la logica traduzione.”[*]
A questo fenomeno si è accompagnata una rimozione, inavvertita ma non per questo meno insidiosa, della sostanza e delle ragioni dello Stato costituzionale (si vedano gli studi di L. Barra Caracciolo) e del modello di società democratica che esso incarnava. E qui si innesta un circolo vizioso altamente pericoloso: mentre cresce l’incompatibilità tra il sistema capitalista e la democrazia popolare, aumenta anche il sentimento che in effetti in un quadro globalizzato la politica non possa fare più la differenza.
Ciò nonostante, solo nell’arena dello Stato nazionale è possibile articolare politiche di resistenza nei confronti della tempesta neoliberista in corso, sviluppando una strategia complessiva in grado di ridurre la dipendenza dall’estero e prevedere efficaci meccanismi di controllo dei movimenti di capitale, capace di investire in grandi progetti infrastrutturali e di governare il mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di produttività verso una composizione del prodotto socialmente utile ed ecologicamente sostenibile.
L’elaborazione di un pensiero patriottico, difensivo e democratico-costituzionale, il problema del perseguimento di un interesse nazionale e prima ancora della definizione di tale interesse, appaiono pertanto cruciali.
*Jean-Claude Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al capitalismo assoluto, trad. it. Neri Pozza, 2015
Fonte: Petite Plaisance Blog
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