Un Paese ormai disfatto (1a parte)
di GIANFRANCO LA GRASSA (economista)
Ringraziamo il prof. La Grassa per averci gentilmente permesso di pubblicare questo interessantissimo scritto.
E’ indubbio che l’esperienza fascista – dopo essere stata, checché se ne dica, piuttosto seguita dalla popolazione italiana negli anni ’30 del ‘900 – ha lasciato esiti negativi in seguito alla brutta esperienza della seconda guerra mondiale, in cui il Paese, malgrado le sue capacità di compiere indegne “capriole”, è uscito di fatto sconfitto. In effetti, è stata quell’esperienza che ci ha consegnato – tuttavia come tutta l’Europa occidentale, ivi compresi i paesi vincitori: l’Inghilterra e la Francia – al culto e ammirazione della “democrazia” americana.
Un’ammirazione poco comprensibile, in verità, visto che negli Usa metà della popolazione non fa sentire la sua voce in nessun senso; e il resto vota due partiti assai poco dissimili, in mano a potenti lobbies che profondono soldi a volontà per condurre campagne elettorali assai variopinte e carnascialesche, in cui tutto si dice salvo quali sono i reali intendimenti poi messi in atto dai vincitori della kermesse héroique.
La lezione Usa è stata fra l’altro mal appresa, anche perché il tutto si è dovuto per oltre 40 anni adattare alla presenza di un mondo bipolare con l’Urss pensata quale paese di tipo socialista, quindi alternativo al capitalismo. La presenza del nemico “anticapitalista” – unita a quella del più forte partito comunista dell’area capitalistica; comunista tanto quanto era socialista l’Unione sovietica, e tuttavia sempre pensato quale pericolo incombente per il sistema sociale e politico in auge – ha fatto sì che esistesse di fatto nel nostro paese un unico grosso partito al governo (la DC), circondato da partiti minori (a parte il Psi di dimensioni medie) facenti parte dello stesso orientamento, salvo differenze abbastanza marginali.
Il Pci rappresentava un’opposizione cospicua, ma era pur sempre soltanto opposizione; la presenza della Nato (cioè degli Usa, paese predominante dell’intera area capitalistica) impediva ogni possibilità di ricambio. Il Pci accettò fin da subito, dopo essere stato cacciato nel 1947 dal governo di unità nazionale, tale situazione di minorità costante; successivamente, a partire dagli anni ’70, come abbiamo rimarcato più volte, iniziò il suo coperto, piuttosto segreto, spostamento di campo, preparando un quadro dirigente che poi apertamente rovesciò le sue alleanze internazionali non appena il campo “socialista” e l’Urss implosero in modo piuttosto subitaneo. E le rovesciò continuando a trascinarsi dietro un veramente ormai ottuso e spento corpo elettorale in buona parte ancora convinto di stare seguendo un partito favorevole alla trasformazione sociale dell’Italia.
Crollata l’Urss – e quindi senza più alcun pericolo per un campo capitalistico, ampliato di tutta l’Europa orientale, divenuta del tutto succube degli Usa – venne condotta in Italia, per via giudiziaria e senza alcuna chiarezza politica, l’operazione di sostituzione del regime fondato sulla Dc (con appoggio sostanziale del Psi craxiano) con un altro, assai più prono ai voleri americani e poggiante sugli ignobili personaggi che ormai guidavano il partito (plurinominato nel giro di pochi anni: Pds, Ds, Pd) erede del “Pci voltagabbana”.
Il tentativo fu abbastanza malamente condotto, coinvolgendo anche alcune parti (“di sinistra”; tutto da ridere) della Dc e qualche dirigente del Psi. Tuttavia, l’inettitudine dei personaggi in questione, e l’improprio e impolitico modo di mettere in piedi questa finzione di schieramento di “sinistra”, fecero fallire l’intenzione di mettere in piedi un altro regime abbastanza solido come il precedente. Intervenne un altro personaggio, tutt’altro che di ottima caratura, ma del tutto sufficiente a mettere in crisi il progetto preparato fin dai viaggi di esponenti del “fu” Pci negli Stati Uniti (già a partire dai primi anni ’70).
E così iniziò un periodo, durato circa un quarto di secolo, di situazione molto confusa ed estremamente negativa per l’Italia, sempre più allo sbando. In ogni caso, il nostro paese è stato sempre, più o meno, una base operativa della Nato, cioè di coloro che comandano realmente in questa organizzazione: gli Stati Uniti evidentemente. Dopo il crollo dell’Urss, per una decina d’anni almeno questo paese ormai nettamente predominante si è sentito sicuro di non avere più effettivi competitori. Ci sono state azioni di consolidamento della situazione condotte, ad es., in Irak (prima guerra del ’91, ancora sussistente l’Urss per pochi mesi) e in Serbia.
Tutto sommato, direi che si è trattato di accentuare l’influenza Usa in Medioriente (tenuto, fra l’altro, conto della presenza di paesi non fidati come l’Iran) e di stoppare ogni velleità anche soltanto futura di paesi come la Germania, che si stava espandendo economicamente in molti paesi dell’Europa orientale e nei Balcani. Del resto, bloccare tale Paese fin da subito – assai prima che rappresentasse effettivamente un concorrente di pur minima pericolosità – significava nel contempo l’arresto di ogni prospettiva di sua pur lontana proiezione verso est, verso magari un’alleanza con una Russia che poteva rimettersi in piedi, soprattutto appunto in simbiosi con i Tedeschi.
[continua]
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