Storia: conflitto permanente di volontà
di LUCA MANCINI (FSI ROMA)
Spesso quando si parla di Storia si utilizzano le parole “già” e “ancora”. Apparentemente due innocenti avverbi, ma in realtà ben connotati ideologicamente in storiografia, poiché danno un preciso indirizzo ai nostri discorsi. Facciamo degli esempi: “In quel tempo Napoleone aveva già promulgato il Codice Napoleonico” oppure “in quel momento la testa di Luigi XVI era ancora ben salda sulle sue spalle”. Utilizzando queste due parole si vuole leggere nella Storia un senso di evoluzione temporale, non fine a sé stesso, ma collegato con una determinata idea di progresso. Nella nostra cultura occidentale si è abituati a considerare la decapitazione di Luigi XVI e la promulgazione del Codice Napoleonico come due eventi progressisti e ineluttabili che hanno abbattuto definitivamente la tirannia del mondo feudale. L’uomo occidentale ha spesso avuto questa visione della Storia, come di una linea dritta che marci inesorabilmente verso il progresso e di cui la razza umana è protagonista. Tale concezione è accompagnata dalla ferrea convinzione che, tutto sommato, le condizioni di oggi sono nettamente migliori rispetto a quelle di ieri sotto diversi aspetti (tecnologico, sociale, economico etc.): pertanto si tende a dare un carattere nettamente progressista e, soprattutto, inevitabile alla Storia umana. Questa visione deriva principalmente da una dottrina filosofica che ha plasmato le menti degli uomini occidentali nel corso del XIX secolo: il positivismo.
Marx, seppur in contrasto con i positivisti su diverse tematiche, aveva comunque una concezione progressista della Storia, ereditata dal suo maestro Hegel, il quale vi vedeva la graduale manifestazione dell’Assoluto. Infatti, nel Manifesto del Partito Comunista il passaggio dal sistema socio-economico capitalista a quello comunista viene dato come ineluttabile. Per il filosofo di Treviri le contraddizioni economiche intrinseche al sistema capitalista sono destinate ad esplodere, mentre la classe operaia è destinata a crescere costantemente e a prendere gradualmente coscienza di sé fino all’inevitabile momento finale della rivoluzione che sancirà il passaggio al sistema comunista. In questo modo Marx compie un rischioso parallelismo tra progresso e comunismo: la Storia corre verso il progresso, che finirà inevitabilmente nel comunismo.
La Storia negli ultimi anni ha dimostrato come questa visione sia fortemente errata. Essa non è né la progressiva manifestazione del comunismo, come ci hanno dimostrato il crollo dell’URSS e il declino politico dell’ideologia comunista, né tantomeno si identifica con il progresso tecnologico, il quale potrebbe non coincidere con quello umano: basti pensare alla continua crescita della disoccupazione e al conseguente aumento della povertà e alla terribile sensazione di milioni di giovani italiani che si sentono letteralmente privi di un futuro. Come si può parlare di progresso in presenza di questi fatti? Eppure la nostra classe dirigente lo fa costantemente, perchè non opera un’opportuna distinzione tra il progresso tecnologico e il progresso umano. Quest’ultimo è, invece, il miglioramento delle condizioni socio-economiche degli uomini, le quali non è detto dipendano esclusivamente dalla tecnologia. La visione progressista della Storia ha pertanto dimostrato di essere nettamente carente.
Tale visione ha pervaso la nostra società e le nostre menti al punto tale che noi la pensiamo allo stesso modo, ma neanche ce ne accorgiamo e l’utilizzo delle parole “già” e “ancora”, quando si parla di Storia, ne è il sintomo più lampante.
Uno dei filosofi che provò ad opporsi a questa mentalità fu Friedrich Nietzsche. Nella seconda delle Considerazioni Inattuali, dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche critica fortemente la mentalità storicistica e si rifiuta categoricamente di identificare il divenire della Storia con un progresso univoco. Per il filosofo di Röcken, tale mentalità porta l’uomo ad assumere un atteggiamento di passività e ciò conduce inevitabilmente ad una decadenza: gli uomini si riducono a spettatori rassegnati del corso degli eventi, senza più stimoli a creare una nuova storia.
Egli mette in guardia l’uomo da tre tipi di storiografia:
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Storia monumentale: alla base di questa, vi sarebbe la convinzione che la storia coincide con il progresso umano. Chi scrive storia monumentale è convinto che lo studio del passato possa mostrarci come sarà inevitabilmente il futuro. È una forte accusa al positivismo e a Marx, perchè il primo è convinto che il progresso scientifico abbia sempre migliorato le condizioni dell’uomo e che ciò continuerà inevitabilmente ad accadere, mentre il secondo è convinto che il futuro sarà inevitabilmente comunista. L’uomo che scrive storia monumentale è ossessionato dal futuro.
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Storia antiquaria: è quella tipica del collezionista di reperti archeologici o di libri antichi. Colui che, preso da tale mania, li possederebbe tutti se potesse. Egli si compiace nello stare immerso tra i suoi reperti archeologici, ma il suo interesse per la storia è fine a sé stesso e si conclude così. L’uomo che scrive storia antiquaria è ossessionato dal passato.
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Storia critica: è quella scritta da colui che cerca di giustificare un regime presente, strumentalizzando il passato. Ossia egli tende ad eliminare elementi scomodi della storia passata, per giustificare un presente dove si compiace di vivere. Il suo interesse per la storia è puramente strumentale. L’uomo che scrive storia critica è ossessionato dal presente.
In opposizione a tutti questi atteggiamenti, Nietzsche propugna la capacità di sentire in modo non storico. Egli afferma che per essere veramente storici bisogna essere creatori di Storia nuova, ragionare in modo sovrastorico e accettare che il divenire storico non coincide con il progresso. Pertanto l’unico motore della Storia è la volontà umana e le azioni che ne derivano: la Storia non è altro che il risultato del conflitto permanente delle varie volontà umane che si traducono in azioni.
In politica, le volontà umane si traducono principalmente in tre azioni: rivoluzione, reazione e conservazione. Queste tre si dividono principalmente in base all’atteggiamento da tenere nei confronti del progresso, il quale va inteso esclusivamente come miglioramento delle condizioni socio-economiche del popolo e non come un processo ineluttabile intrinseco al divenire storico.
I conservatori sono coloro che avversano il cambiamento, indipendentemente dalla sua direzione. Questi ritengono di vivere bene nella società ad essi contemporanea e il loro progetto politico consiste nell’impedire o quanto meno nel rallentare qualsiasi tipo di cambiamento.
Rivoluzionario è colui che, mosso da forti e puri sentimenti nei confronti del popolo, vuole rovesciare il regime costituito, perché lo considera conservatore o reazionario, e mira a costruirne uno nuovo che migliori effettivamente le condizioni socio-economiche della maggioranza. La rivoluzione, per sua natura, deve necessariamente portare ad un ampliamento del benessere del popolo, che è il soggetto che la compie, altrimenti sarebbe come affermare che il popolo vuole mangiare meno e vivere in condizioni peggiori.
La reazione, essendo la risposta ad una rivoluzione, è conseguentemente e necessariamente portata a ridurre il benessere della collettività per favorire l’avidità di una minoranza. Perciò reazionario è colui che favorisce il miglioramento delle condizioni socio-economiche di un ristretto numero di cittadini privilegiati, peggiorando così quelle della maggior parte del popolo.
Sin da quando ha iniziato ad essere usata in ambito politico, la parola “rivoluzione” è stata sempre associata all’idea di novità, mentre la parola “reazione” al concetto di tradizione. Anche dietro questa semplice associazione c’è la suddetta idea sbagliata di progresso, poiché in questo modo si sta implicitamente affermando che la storia progredisce inevitabilmente, che il nuovo sia necessariamente meglio del vecchio e che la tradizione sia da buttare in nome del presunto progresso rivoluzionario. Eppure questa retorica, oggigiorno, è usata dagli stessi liberali per mettere in atto quella che essi chiamano “rivoluzione liberale”, ma che in realtà è una reazione: è sufficiente notare il netto peggioramento delle condizioni socio-economiche della maggioranza in favore di una ristretta minoranza, per rendersene conto. Essendo il liberalismo, intrinsecamente, un’ideologia che sfavorisce le masse per favorire pochi singoli individui ne consegue che, seguendo il ragionamento fatto finora, la definizione di “rivoluzione liberale” altro non è che un ossimoro.
Tutta questa confusione avviene perchè l’equazione: rivoluzione : novità = reazione : tradizione è decisamente sbagliata, figlia di una visione errata della Storia. L’equazione giusta è: rivoluzione : progresso = reazione : regresso, dove per progresso e regresso s’intende chiaramente il miglioramento o il peggioramento delle condizioni sociali ed economiche della maggior parte del popolo. Assumendo questa prospettiva ci si rende immediatamente conto di chi sono i reazionari e chi i rivoluzionari.
Inoltre, bisogna considerare che entrambi i termini, reazione e rivoluzione, nella seconda metà del secolo scorso sono stati fortemente connotati dall’ideologia marxista, oltre che dall’idea di progresso ad essa connaturata. Cosicché con il termine “rivoluzione” si è finito per indicare esclusivamente la rivoluzione comunista e con “reazione” qualsiasi opposizione a questa o ai regimi ad essa collegati. Come afferma il sociologo francese Jules Monnerot “le mot revolution prends une bonne part. Quand il ne sera plus, nous aurons changé d’epoque”.1 Purtroppo questo cambiamento d’epoca ancora non è del tutto avvenuto, poiché in certi ambienti è ampiamente diffusa l’idea che per essere rivoluzionari è necessario voler attuare il comunismo. Eppure non è così: il sovranismo è rivoluzionario perchè mira al miglioramento delle condizioni socio-economiche del popolo e all’ampliamento del suo benessere. Inoltre, esso si oppone alla palese reazione che è stata messa in atto dai liberali sin dagli anni ’80, la quale non ha portato altro che disoccupazione, povertà e disperazione.
La Storia, in definitiva, non marcia verso nessuna direzione, essa è azione: un conflitto permanente tra le volontà umane. Solo se saremo più volenterosi, più generosi, più audaci e più passionali dei nostri avversari giungeremo alla vittoria.
Viva l’Italia sovrana!
1“La parola rivoluzione è connotata in un determinato senso. Quando non lo sarà più noi avremo cambiato d’epoca”. J. Monnerot, Sociologie de la révolution, Fayard, Parigi, 1969, p.7.
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