Tornare al Mediterraneo
di CATERINA RESTA (filosofo, Università di Messina)
Nietzsche, da pensatore postumo e inattuale quale amava definirsi, era consapevole di parlare non per i suoi contemporanei, ma per i posteri, per coloro che avrebbero vissuto almeno due secoli dopo di lui. Per noi, dunque, da poco entrati nel XXI secolo. Nessuno con maggiore chiarezza ha saputo descrivere il nostro presente, l’ineludibile decisione che ci attende.
Siamo ancora, possiamo essere ancora mediterranei, o questo mare su cui soffiano venti di guerra che lo spazzano via ha perso ormai definitivamente la sua centralità storica? Oppure stiamo forse ormai per diventare, se non lo siamo già, Atlantici, impavidi navigatori oceanici, in un mondo che, a partire dalla scoperta dell’America e dalle prime circumnavigazioni del globo, ci ha introdotti in quella che, schmittianamente, possiamo chiamare la globale Zeit?
Da dove arriva, infatti, il processo di mondializzazione, se non da quel richiamo potente, quanto provocante, proveniente dal primo spalancarsi dell’Oceano nell’era delle grandi scoperte geografiche? Fu il tempo non solo di Colombo, ma anche di pirati e balenieri, liberi tutti, come grandi cetacei, di intraprendere rotte mai prima tentate nell’aperto di un mare senza più confini, refrattario ad ogni nomos. Fu a causa di questo stesso richiamo che l’Isola Inghilterra, abitata da rustici allevatori di pecore, come ci racconta Schmitt, si de-cise per il mare: «allora l’isola distolse il suo sguardo dal continente e lo alzò sui grandi mari del mondo. Si disancorò e si trasformò nel veicolo di un oceanico impero mondiale».
Come una nave che salpi, il disancoraggio [Entankerung] portò l’Isola a navigare lungo le rotte oceaniche, fino a fondare, su questa malferma distesa, il suo mobile impero. Ma solo l’America, il Nuovo Mondo, seppe davvero incarnare quello spirito oceanico che l’Inghilterra aveva inaugurato. Il grande continente fece in grande quello che la piccola isola aveva solo cominciato. Fin dal suo nascere, divenne straordinario laboratorio della pratica dell’Illimite, fin dall’inizio incapace di tracciare confini, di segnare frontiere, altrimenti che come una mobile linea di avanzamento, sempre sul punto d’essere spostata più avanti.
Ora questo oceano è divenuto universo, si è fatto mondo, nel segno di un universalismo piatto e uniforme come la liscia distesa di un mare che non conosce terra, che ha cancellato confini, ma, con questi, anche ogni possibilità di confronto e di dialogo rispettoso delle differenze. Questo mondo ormai unificato e uniformato dell’era globale, questo impero mondiale oceanico, lungi dal garantire una pace perpetua, come un’onda d’urto, produce guerre e conflitti sempre più ingovernabili, poiché altrettanto informi e smisurati si fanno i tentativi di riterritorializzazione, come la difesa ad oltranza di identità e appartenenza, finisce con l’assumere modalità sempre più regressive e arcaiche.
Il Mediterraneo è però memoria di un’altra storia: esperienza, unica al mondo, dell’incontro tra mare e terra, spazio di condivisione che separa e divide, ma anche collega e unisce, favorendo gli scambi tra identità che, nell’incessante confronto, vogliono restare differenti. Nella sua pluralità di confini e frontiere, è stato spazio di scontro, ma anche di straordinario incontro, di inesauribile confronto con l’altro, impedendo, moderando ogni drastica reductio ad unum.
Da questo mare di differenze è nata l’Europa, pluriverso irriducibile di popoli e lingue, costretti a dialogare tra loro, costretti alla fatica incessante della traduzione e della distanza. Saprà questo antico mare circondato di terre essere ora modello per una configurazione non universa, ma pluriversa del mondo? Sapremo diventare tutti ancora una volta mediterranei e ritrovare, infine, un nuovo nomos, una nuova misura, tra cielo, terra e mare?
[“Mesogea”, n. 0/2002]
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