Elogio della democrazia
Articolo apparso sul blog Il Pedante il 23 aprile 2016.
E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e l’uguaglianza; e, dall’altra parte, i profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella dell’organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere.
(Radiomessaggio di Sua Santità Pio XII ai popoli del mondo intero, 24 dicembre 1944)
Il caso del recente referendum sulle trivellazioni marine, quello in cui un presidente del Consiglio e un ex presidente della Repubblica invitavano i cittadini ad astenersi e un deputato del partito di maggioranza sbeffeggiava i votanti, è solo l’ultimo atto di un fenomeno da tempo maturo: il fastidio, il disgusto, la paura della democrazia.
In uno dei tanti paradossi orwelliani dei nostri tempi, i totalitarismi del passato sono condannati nei simboli ma rivivono sempre più fedelmente nel plauso di oligarchie che si dicono illuminate – i tecnocrati, i burocrati, i mercati finanziari, i salvatori della patria – in quanto capaci di scelte impopolari (cioè, etimologicamente, antidemocratiche) e avversi a tutto ciò che è populista (cioè, etimologicamente, democratico). E nell’idea che la partecipazione delle masse al potere rappresenti un irrompere di egoismi incompatibili con il progresso generale, tanto che i singoli appartenenti a quelle stesse masse accettano la sacrificabilità del proprio diritto a decidere pur di impedire che decidano anche i barbari e gli irresponsabili: cioè gli altri.
Questo timore serpeggia fin dalle origini nazionali nelle coscienze dei benpensanti (ne abbiamo parlato qui). Così si leggeva nel 1876 sull’editoriale che ne inaugurava il quotidiano di riferimento, il Corriere della Sera:
E però ci accade […] di non voler il suffragio universale, se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.
Dopo una breve e imperfetta parentesi, oggi la democrazia è ancora considerata un lusso riservato a tempi prosperi e oziosi, un gioco di società dal pedigree nobile e caro agli idealisti, ma da sospendere o limitare al presentarsi di qualsiasi emergenza – economica, militare, terroristica, finanziaria – o più semplicemente se diventa troppo costoso. Al più se ne tollera la versione ludica e minore, quella democrazia dal basso o bassa democrazia (ne abbiamo parlato qui) i cui effetti sono programmaticamente limitati alle modalità applicative di ciò che si è già deciso altrove, quando non all’irrilevanza tout court.
L’esigenza di mettere una parola pedante su un tema così spesso dibattuto mi è sorta conversando con un amico italiano, secondo il quale la trasformazione coatta delle banche popolari in società per azioni, con il trasferimento del potere decisionale dall’assemblea capitaria dei soci a pochi grandi azionisti, sarebbe cosa encomiabile perché – diceva – non possiamo più permetterci un’altra crisi bancaria (?). Negli stessi giorni mi trovavo coinvolto nell’avviamento di una piccola cooperativa e apprendevo che la principale preoccupazione dei fondatori era quella di scongiurare, con ogni possibile strumento statutario e di legge, l’effettiva partecipazione dei futuri lavoratori alla gestione dell’impresa: per evitare – dicevano – veti, ribaltoni e ricatti.
Ne trassi la conclusione che il nesso democrazia = caos = dissesto si è inoculato nelle menti di molti come un assioma che non abbisogna di dimostrazioni. E ciò a dispetto non solo delle migliori intenzioni ma anche dell’evidenza storica. Al mio giovane interlocutore avrei voluto chiedere se Lehman Brothers fosse stata per caso una cooperativa o un soviet, ma lì per lì l’enormità del suo non sequitur mi lasciò senza parole. Sicché mi ripropongo qui di impiegare le mie scarsissime forze per convincere me stesso e i miei pochi lettori che forse gli ultimi cent’anni di storia – democratica, mutualistica, cooperativa e sindacale – non sono trascorsi invano, nella speranza che il morbo della competizione non ci trasformi in individui segregati e paurosi dell’altro, e quindi alla mercé di chi è più forte e organizzato di noi.
Va innanzitutto riconosciuto che per risollevare le sorti della democrazia – casomai si volesse e fosse ancora possibile farlo – non serve brandirne i simboli e recitarne ossessivamente il catechismo. Si è già dimostrato altrove che in politica i simboli hanno quasi sempre la funzione di occultare l’assenza della realtà evocata per veicolare il suo opposto: gli slogan di sinistra per mascherare le politiche di destra, la retorica del lavoro per servire il capitale, i colori della pace per giustificare le guerre, l’antifascismo per risuscitare il fascismo ecc. Sul punto basterà del resto osservare che il partito politico che più si è distinto nello smantellamento della democrazia, quello che invita all’astensione, negozia trattati antidemocratici in segreto, scioglie le cooperative bancarie, progetta lo sfascio degli equilibri costituzionali, predica la cessione della sovranità popolare, l’annessione ex imperio a una federazione eterodiretta e la sottomissione a poteri mai eletti né contemplati dagli ordinamenti democratici (i mercati finanziari, le banche centrali indipendenti, le combriccole europee, i think tank), ebbene quel partito è lo stesso che si dice Democratico anche nel nome.
Onorare la democrazia come una medaglia coniata in tempi gloriosi o una suppellettile da esibire agli ospiti è la via migliore per farne un reperto e spalancare le porte al suo superamento. Più che accodarsi alla retorica museale di coloro che, appunto, vorrebbero rinchiuderla in un museo o in un marchio, sarebbe perciò utile interrogarsi sulla sua opportunità al netto di ogni vincolo storico e identitario: come se non fosse mai esistita, come se non se ne fosse mai scritto né parlato.
Uno dei vantaggi riconosciuti al metodo democratico è la sua natura di mutua concessione, in virtù della quale ciascun membro della comunità ammette la partecipazione altrui al processo decisionale affinché ne sia egli stesso ammesso. È, questa, una concezione della democrazia come “male necessario”, un do ut des dove le decisioni altrui, e quindi anche i bisogni e le visioni che le esprimono, sono tollerate così come ne sono tollerati i faticosi processi di vaglio, discussione e approvazione. Non è difficile intuire come questa concezione intimamente antagonista (“la partecipazione degli altri è un fastidio, ma mi tocca sopportarla se voglio partecipare anch’io”) ponga la sopravvivenza della democrazia su basi assai fragili, che coincidono di fatto con la debolezza dei suoi membri.
Non appena un soggetto acquisisca la forza – economica, coercitiva o altro – per imporre le proprie decisioni senza nulla concedere agli altri, il patto sociale si spezza e la democrazia scivola verso l’oligarchia. Che è ciò che sta accadendo oggi, con uno sparuto gruppo di individui la cui disponibilità di capitali si traduce non tanto in ricchezza quanto anche e soprattutto nel potere di condizionare la vita della comunità e dettarne le politiche e le leggi, con la tacita approvazione di chi non può permetterselo ma vorrebbe.
Se la democrazia come “male necessario” ha già in sé i semi della sua estinzione, per recuperarla occorre quindi liquidarne l’idea di concessione coatta, per quanto mutua ed eventualmente nobilitata dall’altruismo, e concentrarsi sui suoi vantaggi diretti che, a parere di chi scrive, esistono e sono confortati dagli esempi storici. Quello che segue ne è un elenco, per quanto imperfetto e da integrare. Al costo di ripetere l’ovvio – come è nella missione di questo blog – lo propongo alla riflessione dei lettori che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin qui.
L’estensione della base partecipativa alle decisioni di una comunità costituisce prima di tutto un’assicurazione contro gli errori dei singoli. Dopo la guerra quasi tutti riconobbero gli errori del nazifascismo, ma prima di allora – quando cioè sarebbe servita – quella consapevolezza era appannaggio di pochi e perseguitati oppositori. Se la voce di questi ultimi non fosse stata repressa dalla dittatura si sarebbero forse evitati gli eccidi che caratterizzarono gli ultimi anni di quei regimi. In tempi più recenti e nominalmente democratici, il governo sedicente tecnico di Mario Monti – nei fatti una dittatura, con tanto di colpo di stato iniziale – fu salutato da molti come una liberazione.
Dopo un anno il gradimento degli italiani per il premier sfiorava ancora il 50% ma già alle successive elezioni il suo partito prese poco più dell’8% e, in seguito, sempre più persone compresero la portata dei danni inflitti dall’austerità montiana. Se invece di essere imposto dall’estero con la bugia dell’emergenza, quel governo avesse democraticamente incluso anche la rappresentanza di chi ne aveva compreso per tempo la pericolosità, probabilmente il suo impatto distruttivo sarebbe stato più limitato.
Insomma, è sempre possibile che chi la pensa diversamente da noi abbia in realtà capito prima di noi ciò che noi capiremmo troppo tardi. E poiché solo gli stupidi non cambiano mai idea, escludere dalle decisioni chi ha idee diverse dalle proprie è una soluzione che lasciamo agli stupidi.
Va anche considerato il caso che chi partecipa al processo democratico sia mosso non solo da idee, ma anche da interessi diversi. Nella retorica oggi in voga ciò diventa spesso un pretesto di scontro sociale e di limitazioni all’inclusione democratica. Ne è un esempio il caso dei giovani che lamentano la caparbietà con cui gli anziani difenderebbero i propri insostenibili (?) trattamenti pensionistici.
L’essere un Paese demograficamente vecchio – dicono – fa sì che i pensionati sfruttino il loro peso elettorale per costringere la politica a tutelare i loro privilegi (?) a danno delle giovani generazioni. Il che non spiega perché quella politica, la stessa che subirebbe il ricatto democratico delle maggioranze gerontocratiche, sia invece smaniosa di raccogliere il grido d’aiuto della gioventù depauperata (clicca qui per la risposta esatta).
Non ci vuole un genetista per capire che anche i giovani diventeranno vecchi e che nel volgere di pochi decenni godranno dei diritti e della dignità minima difesi dai padri – sempre che prima non ne abbiano ottenuta la revoca derogando in un sol colpo alla democrazia e al proprio istinto di conservazione.
L’inclusione di bisogni e condizioni a sé estranei nel processo decisionale ha quindi il vantaggio di tutelare il proprio interesse potenziale, oltre che quello immediato. Il discorso si può estendere ad ammalati, carcerati, imputati, disoccupati, sfrattati, proprietari, inquilini ma anche alle professioni, ai settori di attività e ai luoghi di residenza, insomma a tutte quelle condizioni per il cui miglioramento altri stanno lottando e che oggi non ci raggiungono – o che addirittura ignoriamo – ma alle quali i casi della vita possono presto o tardi avvicinarci.
Il terzo vantaggio che ci piace richiamare è quello che colloca la democrazia nel compimento di un processo umanistico millenario sui cui frutti si innesta – o si dovrebbe innestare – la civiltà che ci vantiamo di insegnare nelle scuole. In democrazia il voto democratico è capitario, vi si premia cioè la numerosità dei votanti senza distinguerne censo, ruolo, importanza politica ecc.
In democrazia un uomo è un uomo e l’essere umano vale in quanto tale. E poiché i poveri sono tanti e i ricchi sono pochi, i sottoposti una massa e i potenti un’élite, la democrazia è anche uno strumento di redistribuzione, se non della ricchezza, del potere che ad essa si associa limitandone gli eccessi.
Questo vantaggio – il più temuto dai suddetti benpensanti, che per qualche risibile motivo si reputano ai vertici della catena economica e sociale – non è ovviamente universale come quelli prima esposti. Che ricchi e potenti cerchino di far valere il proprio vantaggio sul numero è nella natura delle cose. È invece contronatura che chi non ha patrimoni o eserciti per imporre la propria voce – cioè io che scrivo, tu che mi leggi – desideri spogliarsi della sua unica forza.
La democrazia è anche una garanzia di ordine sociale. Distribuendo il potere a tutti si limita il ricorso alla sovversione e alla violenza propria degli esclusi. In quest’ottica, è anche un metodo di legittimazione e spersonalizzazione del potere in cui i rappresentanti politici, per quanto odiati, possono farsi scudo del consenso dei milioni che li hanno votati e opporre ai propri detrattori la forza di una legittima maggioranza. Un aspetto, questo, che merita un inciso.
Chi ha interesse a limitare e sospendere le garanzie democratiche vuole al contempo preservare l’ordine sociale garantito (anche) dall’inclusione democratica. Solo così può infatti raccogliere in sicurezza i frutti dell’immenso potere acquisito, ad esempio assicurandosi che i cittadini rispettino le leggi che ha fatto approvare nel proprio interesse, accettino i debiti che ha fatto loro contrarre, riconoscano la legittimità dei burattini che ha messo alla guida dei governi.
A parere di chi scrive, è sul fragile filo di questa doppia e contraddittoria esigenza che vanno interpretati i fenomeni già descritti in questo blog sotto l’etichetta di “bassa democrazia”: essi servono appunto a creare nei cittadini l’illusione di essere ancora protagonisti delle decisioni comuni. Dalla “democrazia dal basso” movimentista e padronale al rito privato delle primarie, dai referendum consultivi ai sondaggi, dalla libertà vigilata di internet alle rivoluzioni colorate e pentagonali, le iniziative messe in campo rispondono tutte all’intento cosmetico di coltivare un’illusione democratica manovrabile e impotente.
Se le decisioni importanti debbono avvenire al riparo dal processo elettorale, occorre distrarre le popolazioni con il videogame delle democrazie-giocattolo. A chiusura di questa abbozzata rassegna non deve mancare il nesso empirico tra democrazia e prosperità nazionale. Domenica 13 e lunedì 14 aprile 2008 si votava con il sistema elettorale detto “Porcellum” che, con l’eliminazione delle preferenze e l’assegnazione di un premio di maggioranza irragionevolmente generoso, segnava tecnicamente l’inizio del declino democratico e della restaurazione verticista nel nostro Paese. Cinque mesi dopo – il 15 settembre – il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers apriva la crisi finanziaria mondiale e gettava nel panico gli speculatori, che reagivano scaricando sugli Stati i propri crediti deteriorati.
Da allora in Italia si sono avuti almeno tre governi che, se non direttamente imposti dagli investitori, ne hanno agevolato senza limiti il rischio e l’arricchimento a spese dell’economia nazionale. Di questi, due si sono materializzati al potere senza alcuna effettiva legittimazione elettorale, e l’ultimo sta osando l’inosabile: sbaraccare la democrazia direttamente alla fonte costituzionale.
Nel frattempo abbiamo perso il 10% di prodotto nazionale, oltre un quarto dell’output industriale, centomila imprese e 1 milione di posti di lavoro, mentre decine di migliaia di giovani faticosamente formati con le risorse della collettività continuano a lasciare il Paese nella certezza di non trovarvi un futuro dignitoso.
È solo un caso o c’è anche un nesso causale tra deficit democratico e recessione? C’è, e bisogna essere ciechi per non vederlo. Laddove sono rappresentati gli interessi di tutti è più difficile che qualcuno imponga il proprio a danno degli altri. Oggi invece i prestatori di denaro e gli enti sovranazionali che li rappresentano dettano legge liquidando le opposizioni in nome delle emergenze che di volta in volta si inventano.
È normale che si prendano tutto. Che impongano il credito a interesse come norma dell’economia (ne abbiamo scritto qui), che limitino il ricorso al denaro che non possono controllare né gravare di interessi (v. L’incubo no cash), che svalutino il lavoro e deprimano l’inflazione per rivalutare i propri capitali, che diano un prezzo ai diritti umani e costituzionali, che sognino valute e mercati sempre più globali per ampliare la platea dei loro investimenti, che mettano gli Stati a garantire i rischi delle loro speculazioni. E pazienza se tutti gli altri ci rimettono. In fondo, se a governare senza opposizioni non ci fossero i banchieri, ma i fornai, pagheremmo il pane 100 euro al chilo. Perché stupirsi?
In questa lunga pedanteria si è visto come l’attacco alla democrazia – e la speculare fuga da essa – incroci molti temi trattati in questo piccolo blog e richiamati da più autorevoli osservatori, integrandosi perfettamente nella strategia in corso di concentrazione ed emancipazione del potere nelle mani di pochi non eletti.
Chi aggredisce la democrazia svuotandola e lasciandone la scorza simbolica alle masse merita certamente la nostra censura morale, ma quantomeno gli va riconosciuta l’attenuante del raziocinio. Gli enormi vantaggi conseguiti valgono lo sforzo distruttivo intrapreso. Più preoccupante è la massa sottostante, quella che non avendo altra via per rappresentare i propri interessi schifa la democrazia o ne tollera l’attenuazione. Perché lo fa? Da dove nasce il fastidio?
Per rispondere, mi piace rimandare l’eventuale e residuo lettore all’ipotesi, altrove formulata, dell’infantilizzazione. Chi teme la democrazia sembra presupporre che, al di sopra della marmaglia scomposta e popolare che si azzuffa per difendere i propri miopi interessi, al di sopra della cagnara degli egoismi e dell’analfabetismo civico dei connazionali (cioè degli altri connazionali), al di sopra dell’inconcludente, esasperante, immobile gioco degli equilibri democratici (mentre fuori-c’è-la-Cina, lo spread incalza, il debito esplode, l’Europa ci chiede le riforme ecc.), ebbene al di sopra di tutto questo riposino galantuomini capaci e di buon senso, estranei alle facili glorie elettorali e, magari proprio perché ricchi, immuni dal clientelismo e disinteressatamente dediti al bene comune.
Questo ritratto letterario, di norma riservato agli schivi frequentatori degli olimpi della finanza e ai loro diletti, evoca la rassicurazione che nell’assordante asilo della democrazia ci siano anche dei tutori, delle persone adulte che sanno discernere il bene dei pargoli e ai quali è saggio affidarsi nei frangenti più pericolosi. Sicché se ne brama la guida e all’occorrenza il castigo, li si evoca pur di non affogare nell’anarchia degli infanti.
Questa deriva psicologica affonda nelle insicurezze dei singoli ed è accuratamente coltivata nelle retoriche dell’informazione. È difficile, ma urgente e necessario, rendersi conto che se le comunità umane non si discostano in effetti di molto dai branchi o dai giardini d’infanzia, i sedicenti sobri esponenti del capitale internazionale, dei think tank, delle istituzioni economiche e dei sedicenti prestigiosi atenei non sfuggono alla regola. Anzi. Abituati a ben più generosi appetiti, nel perseguire i loro interessi deprivano popoli interi facendo impallidire le ruberie di amministratori corrotti, imprenditori disonesti, funzionari fannulloni e tutta la ciurma dei furbi, dei ladri e degli indifferenti a cui ci piace attribuire il declino.
Rinunciare alla democrazia per affidarsi a costoro e ai loro vassalli significa semplicemente far vincere a tavolino un partito: il più piccolo e minoritario, quello dei ricchissimi, che non solo non potrebbe mai vincere in una democrazia senza trucchi, ma è anche l’unico che non ne avrebbe bisogno.
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