di don DUILIO ALBARELLO (Facoltà teologica dell’Italia settentrionale)
Nel volume L’età secolare [trad. it Feltrinelli, 2009, ndr] Taylor fa interagire tre profili del fenomeno della secolarizzazione, che riguarda in particolare i paesi dell’area nordatlantica: la privatizzazione della fede religiosa, ciò che viene comunemente indicato con la categoria di laicità dello Stato; l’indebolimento della credenza e della pratica religiosa a livello della vita personale; l’opzionalizzazione dell’esperienza religiosa. In queste pagine, l’autore si occupa in particolare di quest’ultima accezione, incentrata sul passaggio da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui al contrario la fede religiosa, anche per gli stessi credenti, non è più un dato indiscutibile.
L’opera di Taylor si propone dunque di ricostruire la genesi storica di tale processo di secolarizzazione, che ha posto fine al riconoscimento ingenuo del trascendente e quindi alla credenza religiosa come posizione automatica a livello individuale e collettivo. Soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’alternativa alla visione religiosa della realtà ha acquistato una tale solidità e anche una tale differenziazione al suo interno, da formare un vero e proprio sistema connotato da una pretesa totalizzante.
Secondo la diagnosi di Taylor, un deciso punto di svolta è riscontrabile negli anni Sessanta del Novecento, a partire dai quali si fa strada quello che viene denominato un “individualismo espressivo”, o in altri termini una “cultura dell’autenticità”. Si tratta della trasformazione in fenomeno di massa della concezione della vita affermatasi con l’espressivismo romantico alla fine del Settecento, per il quale ciascuno ha un modo specifico e originale di realizzare la propria umanità, che deve essere perseguito in contrapposizione al conformismo rispetto a un modello imposto dall’esterno: dalla società, dalle generazioni precedenti o dall’autorità religiosa e politica.
Le rivolte giovanili degli anni sessanta e settanta (ispirate da autori come Theodor Roszak e Herbert Marcuse) contribuiscono alla diffusione generalizzata di tale individualismo espressivo, nella misura in cui sono dirette contro un sistema che sembrava di fatto reprimere la creatività e l’immaginazione. Nel periodo successivo, tuttavia, diventa sempre più chiaro che, da un lato, gli obbiettivi legati all’autoespressione integrale, come la liberazione sessuale e i rapporti paritari, e dall’altro lato la coesione sociale, non sono istanze che si possono armonizzare, se non per un tempo limitato e per comunità circoscritte; di conseguenza, nel tentativo di attuare tali istanze, si rende necessario sacrificarne alcune a vantaggio di altre.
Il problema è che l’ideale dell’individualismo espressivo finisce di generare un effetto destabilizzante allorquando venga distaccato dallo scopo più ampio di costruire un’autentica collettività di eguali. Un esempio tipico, a questo proposito, è dato dall’imporsi della pura opzione soggettiva come valore assoluto, indipendente dal contenuto e dal contesto della scelta stessa: i risultati a lungo termine sono la crisi dell’identificazione personale, l’eclisse della politica, l’affermarsi del relativismo etico.
Tutto ciò naturalmente presenta una consistente ricaduta anche sul piano dell’esperienza religiosa. Nel nuovo ordine espressivista, infatti, il legame con il sacro e con il divino tende a non radicarsi più in un quadro di riferimento definito e istituzionale, quale può essere la Chiesa o lo Stato; piuttosto, il criterio dell’appartenenza è ricercato nella consonanza immediata con lo sviluppo spirituale del singolo, così come viene di volta in volta individualmente interpretato e vissuto.
È ovvio che, in un orizzonte di questo tipo, risulta implicata in maniera costitutiva la possibilità di un pluralismo illimitato; l’unico limite riconosciuto è quello del rispetto dovuto in ogni caso al cammino spirituale dell’altro. Il venir meno dell’adesione a un codice rigido e della convinzione di essere un gruppo di fedeli solidamente compattato rende assai difficile alle Chiese l’impresa di influenzare la coscienza delle persone.
L’aspetto paradossale è che il fenomeno della disaffezione nei confronti dell’appartenenza strutturata di tipo religioso raggiunge il suo culmine, almeno in ambito cattolico, proprio nel momento in cui, con il magistero del concilio Vaticano II, sono stati messi in discussione e tendenzialmente ripudiati il clericalismo, il moralismo e la strategia della paura.
La vita spirituale scaturita dalla “rivoluzione espressiva” in molti casi prende le mosse da un sentimento d’insoddisfazione per un’esistenza del tutto imprigionata nell’orizzonte dell’immanenza, e dunque avvertita come inconsistente, banale, priva di uno scopo elevato; ci si domanda perciò se sia possibile avanzare oltre i limiti imposti dalle attuali codificazioni della riuscita individuale e sociale.
Un argomento a favore di tale tesi è indicato nella rilevanza accordata alla dimensione festiva dell’esistenza, ovvero al bisogno di “momenti di fusione”, che sottraggono alla quotidianità in quanto mettono in contatto con l’irrompere del trascendente nel corso ordinario del vivere. In questo contesto, la ricerca diventa la cifra dominantedell’esperienza spirituale; una ricerca, che però si rifiuta di lasciarsi indirizzare o addirittura delimitare dal riferimento costrittivo a coordinate dottrinali e morali previamente tracciate da parte della religione istituzionale.
Perciò nell’epoca contemporanea si registra un processo di ritirata dal regime della “cristianità”, ossia da una configurazione della civiltà dove il Cristianesimo costituisce la piattaforma condivisa di una visione del mondo e di un’etica considerate come essenziali dal punto di vista del tessuto sociale.
Nella parte finale della sua indagine, Taylor si sofferma appunto sull’esperienza della conversione, cioè sulla possibilità di fuoriuscire dalla cornice immanente per aprirsi al legame religioso con Dio. Ogni processo di conversione esige in qualche modo di problematizzare la configurazione immediata dell’orizzonte di senso, in cui si conduce l’esistenza; utilizzando un linguaggio di tipo epistemologico, si potrebbe parlare qui di un cambiamento di paradigma, notando però che in questo caso si tratta di una trasformazione che concerne non solo il livello teorico, ma le dimensioni fondamentali della vita.
Nel contesto occidentale contemporaneo, l’apertura al legame religioso implica di esercitare una rottura rispetto ai limiti imposti dalle “strutture del mondo chiuse”, sia a livello di teorie accettate, sia a livello della pratica morale e politica. Il convertito si stacca dall’ordine soltanto immanente per aderire a un altro ordine, che viene riconosciuto come più comprensivo.
Nel caso del riferimento al Cristianesimo, tale adesione a un ordine alternativo rispetto all’orientamento secolaristico dominante può essere declinata in una duplice modalità. Da un lato, vi è la posizione di chi ritiene che l’ideale da perseguire dovrebbe consistere nella restaurazione del regime di cristianità, dove il modello di convivenza ispirato dalla dottrina religiosa è tradotto in un codice normativo di tipo legale e morale valevole per tutti.
Con ciò si finisce tuttavia per dimenticare che anche i migliori codici sono esposti al rischio di trasformarsi in trappole idolatriche, che agiscono in modo costrittivo, prevaricando sulla coscienza libera del soggetto. Al proposito, Taylor osserva che «dobbiamo trovare il centro della nostra vita spirituale al di là del codice, più in profondità del codice, in reti di cura vivente, che non devono essere sacrificate al codice, e che anzi talvolta devono persino sovvertirlo».
Si collega qui la posizione che, dall’altro lato, considera il divario tra la prospettiva evangelica e le forme socio-culturali dell’epoca come un fatto persistente nella condizione umana storica in quanto tale, per cui la tensione tra le esigenze della fede in Cristo e le norme della civiltà è da reputare per principio ineliminabile. Di conseguenza, sotto questo profilo, l’adesione all’ordine cristiano non è concepita come puro rigetto della civiltà della democrazia e dei diritti, bensì come una sorta di “opposizione leale” al sistema moderno e post-moderno, per concorrere a liberarlo dalle sue aporie in forza del rimando all’Evangelo, in quanto capace di ispirare soluzioni più degne per l’uomo.
A parere di Taylor, conclusivamente, rimane in ogni caso una constatazione insieme gravosa e impegnativa: «La Chiesa avrebbe dovuto essere il luogo in cui gli esseri umani, con tutte le loro differenze e i loro itinerari disparati, si riuniscono; e ovviamente siamo ancora ben lontani dall’aver raggiunto questo scopo».
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