Il messianismo americano (1a parte)
fonte: Affari italiani
La sera di martedì 13 aprile 2004, il presidente degli Stati Uniti [G. W. Bush jr., ndr] si è dedicato, davanti a una platea di giornalisti, a uno degli esercizi che teme di più: la conferenza stampa. Occorre dire che le circostanze lo esigevano. Per una settimana, l’Iraq era stato teatro di scontri senza precedenti dalla fine della guerra. L’epicentro della crisi? La città di Fallujah, nel cuore del Triangolo sunnita, i cui 300.ooo abitanti sono allora oggetto dell’operazione militare Vigilant Resolve destinata a braccare gli esponenti della resistenza contro l’occupazione americana. Come in un remake di Black Hawk Down, quasi tremila marines si lanciano in un combattimento di strada senza pietà nella città sunnita, uccidendo più di dieci iracheni per ogni soldato americano messo fuori combattimento. Con gli incroci della città mesopotamica ancora disseminati degli ultimi cadaveri da seppellire, l’imbarazzo della Casa Bianca era alle stelle. Come mantenere l’immagine di un esercito liberatore dopo simili massacri? Come evitare la coalizione (ieri impensabile) tra i sunniti e gli sciiti della fazione di Moqtada al-Sadr?
Ansioso di evitare qualsiasi malinteso sulla sua determinazione, il presidente Bush jr. ha cominciato, quel 13 aprile2004, col riaffermare la direzione della sua politica irachena, che ha anche inquadrato in una problematica molto più globale. Poi è arrivato questo preannuncio, registrato da Matthew Cooper: «Noí cambieremo il mondo» (we are going to change the world). Rifiutando qualsiasi mea culpa, per il modo di condurre le operazioni in Iraq o per il fiasco nel trattamento delle informazioni prima degli attentati dell’11 settembre 2001, il presidente ha ridotto il terrorismo palestinese, la resistenza irachena, gli attentati di Madrid (il marzo 2004) a una stessa unica minaccia contro il “mondo civile”. All’ipotesi di una sconfitta, risponde: «Inimmaginabile». La fede presidenziale appare incrollabile.
Davanti a tali propositi, reiterati circa un mese più tardi dopo la divulgazione delle atrocità commesse dalle guardie americane nella prigione di Abu Ghraib, l’osservatore non crede ai suoi occhi. Se si deve ammettere, all’esame dei fatti, che in effetti la Casa Bianca non è solo un giocattolo controllato da una particolare fazione cristiana, come comprendere, allora, tanto fervore? Dove si ritrova il famoso pragmatismo diventato la specialità dell’esecutivo americano, (e del presidente Bush jr.)? Dove scoprire questa Civil Religion moderata e consensuale di cui la storia contemporanea degli Stati Uniti porta così chiaramente il segno? Le parole del presidente americano, in occasione di quella conferenza stampa, chiedono di superare un’aporia. Si vede bene che se l’ipotesi della crociata cristiana non è soddisfacente, pure quella del solo pragmatismo politico ha i suoi limiti. La Casa Bianca è più che trasportata da una particolare religiosità, una “fede” conquistatrice, che oggi spinge la Civil Religion verso nuove direzioni che a noi spetta mettere in chiaro.
Concepire questa svolta non è facile. È alle generazioni dei XXI secolo che tocca raccogliere questa sfida, abbandonando gli schemi ereditati (i liberatori del 1944-45, orizzonte insuperabile per tutti gli europei che hanno passato i 65 anni…). Ci si limiterà, nell’ambito di questo saggio, a delinearne alcuni tratti.
Matthew Cooper, giornalista politico del “Time Magazine”, propone una pista, s’interroga, poco dopo la conferenza stampa del 13 aprile 2004: Was Woodrow Wilson Ever So Bluntly Idealístíc? (“Woodrow Wilson è mai stato così recisamente idealista?”).
Il presidente Thomas Woodrow Wilson (1856-1924) è spesso considerato l’araldo per eccellenza (nel bene e nel male) dell’idealismo americano. «Abbiamo creato questa nazione per rendere gli uomini liberi. Non abbiamo limitato il nostro credo e il nostro progetto all’America e ora ci accingiamo a rendere gli uomini liberi», dichiarava nel 1919 (citato da Harter, 2001, p. 95). Condividendo talvolta quest’onore con il suo lontano epigono Jimmy Carter, Wilson è passato alla storia come l’uomo della Società delle Nazioni (SDN) e della ristrutturazione della mappa europea dopo la Prima guerra mondiale. Impregnato di religiosità, ha coltivato un approccio messianico del ruolo americano la cui eco si trova in lontananza in molti suoi successori.
Il paragone azzardato dal “Time Magazine” nell’aprile 2004 è tutt’altro che innocente; esso iscrive il messianismo dell’amministrazione Bush jr. nella tradizione idealista wilsoniana. Molti osservatori hanno approfondito l’ipotesi di notevoli affinità tra l’idealismo wilsoniano e l’«ideologismo» di Bush jr. E così che occorre comprendere la religiosità diffusa emanata dalla Casa Bianca al momento della mobilitazione generale contro i “terroristi”? Entrambi religiosi, entrambi determinati a impegnare l’America in una guerra ritenuta giusta, entrambi portatori di una visione assai precisa di quello che il mondo dovrebbe essere, Wilson e Bush jr. si collocherebbero dunque sulla stessa linea?
Il riferimento all’eredità wasp, il duplice accento sulla fede e la preghiera, l’individualismo, il messianismo e l’ottimismo costituiscono le cinque caratteristiche ricorrenti della religione civile americana e contemporanea. L’esempio del messianismo èparticolarmente interessante da studiare, come analizzatore degli attuali mutamenti della Civil Religion americana, nella misura in cui costituisce la variabile più sensibile al contesto internazionale. Il messianismo è una costruzione ideologica che presuppone una proiezione verso l’esterno, una missione di emancipazione da compiere al di fuori delle «vigne del Signore». Questa convinzione che l’America sarebbe portatrice di un mandato speciale nei confronti del mondo è una delle idee più condivise oltreoceano. Oscillando a seconda dell’attualità internazionale, a volte è pressoché impercettibile, altre volte è così accecante che ogni commento appare superfluo.
[continua]
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