Immigrazione e integrazione nell’Europa mondialista
di MARIANGELA CIRRINCIONE (ARS Veneto)
“Uno Stato nazionalmente omogeneo appare allora come qualcosa di normale; uno Stato in cui manca questa omogeneità appare allora come qualcosa di anormale, che minaccia la pace” (Carl Schmitt, Dottrina della Costituzione)
«Mediante la decisione di tagliare i legami – scrive il filosofo canadese Will Kymlicka ne La cittadinanza multiculturale – gli immigrati rinunciano volontariamente ad alcuni diritti che appartengono alla loro originaria appartenenza nazionale». Le rivendicazioni di spazi e diritti nella terra d’accoglienza possono in linea di principio conseguentemente e coerentemente dispiegarsi sul piano dei diritti poli-etnici, implicanti norme che garantiscano il riconoscimento di tratti salienti e per certi versi “ininfluenti/innocui” della diversa cultura, ma non dei diritti riconosciuti nello Stato di origine.
Si è grossolanamente sottolineato “ininfluenti/innocui” in quanto, ad esempio, mai potrà giustificarsi la violenza quand’anche essa sia frutto di una tradizione risalente e pacificamente accettata e praticata in un dato Paese d’origine. Sembra qualcosa di anomalo e raro, ma non per i tecnici del diritto cui giornalmente tocca affrontare casi di bambine infibulate, minori che chiedono l’elemosina e mogli maltrattate perché la cultura d’origine addirittura lo auspicherebbe nell’ottica della buona tenuta dei legami familiari, e tutto ciò, non in Africa o nel Medio Oriente, ma nella provincia italiana e nei grandi complessi urbani e occidentalissimi dello Stivale. L’integrato o l’individuo da integrare, quasi mai riesce pienamente a rinunciare alla sua integralità, al suo portato esistenziale, al suo bagaglio di cultura e emozioni, al richiamo delle sue origini e della sua terra.
Le conseguenze di ciò sono ad esempio evidenti nel diritto penale, disciplina che ha dovuto sviluppare al suo interno una riflessione specifica sui “reati culturalmente orientati” che, nella maggior parte dei casi, si sostanziano in comportamenti leciti e/o incentivati in un determinato contesto etnico/religioso/culturale/territoriale, ma contrari alla legge, all’ordine pubblico, all’etica secondo i parametri normativi e culturali del mondo occidentale, anche in ragione dello stadio evolutivo della civiltà del diritto. Questa riflessione, pur mantenendo come faro la tutela della persona, non ha potuto non portare al riconoscimento di attenuanti – ma mai giustificazioni! – a favore di chi, per motivi religiosi, per motivi di coscienza o convinzione, per una particolare concezione dell’onore o della morale familiare, per consuetudine dialettale o tradizione locale legati ai Paesi di provenienza, avesse commesso, e a volte anche nel mero perpetuare una tradizione, reato.
“Oggi non concepiamo più lo spazio come una mera dimensione in profondità, vuota di qualsiasi contenuto pensabile. Lo spazio è diventato per noi il campo di forze dell’energia, dell’attività e del lavoro dell’uomo” (Carl Schmitt, Terra e Mare)
L’atteggiamento degli Stati Europei dinanzi ai problemi migratori si è sviluppato secondo due modelli principali, non del tutto originali, che abbiamo però ragione di ritenere parimenti complessivamente fallimentari. Da un lato il modello assimilazionista alla francese, storicamente e largamente adottato fino ad oltre la prima metà del ‘900 in Australia, Canada e Stati Uniti e basato sulla concezione formale dell’uguaglianza che, prescindendo dalle differenze, si sostanziasse nella pretesa secondo la quale il migrante abbandoni il proprio retaggio identitario e completamente si immerga nell’universo culturale dello Stato di accoglienza del quale pienamente accetti le regole.
Tale modello non poteva che entrare in crisi sotto i colpi delle rivendicazioni della nuova popolazione immigrata, rivendicazioni che sgretolavano l’ingenua certezza secondo la quale sarebbe bastato fare dell’accettazione del percorso assimilativo un caposaldo del sistema di accoglienza per garantire e non minare la stabilità politica.
Un ulteriore deterrente del modello assimilazionista è fornito da quelle che possiamo definire ferite del “socialismo reale”, così come magicamente pennellate nella pellicola visionaria che la francese Coline Serrau dirige nel 1992, conquistando il Premio César per la migliore sceneggiatura originale o il miglior adattamento, dal titolo La crise!. La politica di inclusione francese basata sull’idea di una imposta omogeneità culturale della Francia che quasi meccanicamente prendesse il posto delle culture di origine ha manifestato tutta la sua inconsistenza proprio nella banlieue di Francia.
La crisi, che provoca talora importanti ondate migratorie, talora inasprisce le già precarie condizioni della periferia europea, la cui popolazione sempre più frequentemente si trova a dovere condividere gli spazi e dunque forzatamente confrontarsi e talora soffrire usi, costumi e modo di vivere della nuova popolazione immigratoria che nel ghetto “riproduce” la terra di origine. E questa sofferenza, in pieno Grand Remplacement – espressione dall’intellettuale francese Renaud Camus –prepotentemente somministrato da una strategicae sottile macchina di propaganda euro-atlantista come panacea di tutti i mali delle nazioni,spiazza, spiazza nel film l’aperturista abitante del bel centro cittadino che così sfida il francese della banlieue invece reazionariamente “razzista”: «beh insomma, che ne è del diritto alla diversità, della tolleranza, dell’ideale della Francia terra di asilo?». «Essere razzisti è orrendo e immorale».
“Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altri tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici” (Carl Schmitt, Le categorie del politico)
Se essere razzisti è orrendo e immorale, se dunque ogni cultura ha diritto di affermarsi e declinarsi e liberamente determinarsi secondo le proprie peculiarità anche in terra altrui, non si può che considerare certamente più funzionale il modello multiculturalista di matrice inglese, formato su un concetto di uguaglianza sostanziale che apprezza le differenze e predispone in forza di esse trattamenti differenziati e “paritetici” delle minoranze. La valutazione delle realtà culturali si attua quindi nell’ambito giudiziario e, a monte, soprattutto nel dibattito politico e quindi in sede legislativa al fine di predisporre trattamenti, interventi, deroghe, esenzioni, idonei a garantire la concretizzazione del modello multiculturalista, come la revisione dei programmi scolastici e del calendario delle festività, l’adattamento dei programmi aziendali e l’adozione di trattamenti preferenziali per le minoranze, o ancora il riconoscimento dei legami poligamici instaurati nella terra d’origine, il permesso di macellare gli animali secondo le tradizioni ebraica e musulmana e di sostituire con il turbante sikh il casco o l’elmetto protettivo nei cantieri.
Il modello multiculturalista, che sembra maggiormente aderente alle ambizioni del nuovo ordine mondiali, si sostanzi esso in Piano Kalergi o Gran Remplacement, incontra il suo argine nel blocco di diritti fondamentali dell’individuo, cui mai può derogarsi, e ciò in conseguenza dell’approvazione, avvenuta il 10 dicembre 1948 all’Assemblea generale dell’ONU, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino recante un sistema di valori che, come afferma il filosofo Norberto Bobbio, si presenta per la prima volta in chiave globale e non in linea di principio, ma di fatto, essendo stato appunto esplicitamente dichiarato il consenso alla sua validità.
Il fatto è di tali rilevanza ed eco che tanti furboni si sono attrezzati proprio per chiedere semplicemente di “aggiungere” alla categoria ogni nuovo “diritto” desiderato, compresi quelli disancorati dalla radice naturale, perché se mai ci riuscissero, di fatto certi temi verrebbero blindati, ossia resi “intoccabili” dalla democrazia.
Se però il relativismo culturale è una realtà, certamente non può essere una strada, perché se tutte le istanze sono ricevibili alla pari, nessuna lo è: il contratto sociale che si basa sul diligentemente riconoscere le priorità preferendo la difesa dei più deboli e il soddisfacimento dei bisogni primari, è presto dissolto. Ricollegandoci al tema principale della nostra trattazione, il conflitto sociale sembra essere insomma dietro la porta, in Francia come in Inghilterra qualunque sia il modello di integrazione adottato, proprio perché il mondo globalizzato costitutivamente rinnega la scala delle priorità, ragiona per masse, non guardando all’Uomo e ai suoi bisogni vitali, ma all’atomo che sposta i consumi. Tutti i bisogni sono pari perché tutti i bisogni sono traducibili in consumo, ivi compresi i bisogni relazionali. La globalizzazione governa lo spostamento delle masse, le attrae, le plasma nei “nuovi bisogni” e per farlo, deve esaltare l’uomo nella sua astrattezza, come categoria incorporea, e deve necessariamente distrarlo dalla sua natura emotiva, dalle sue debolezze, dal suo bisogno di radici, certezze e confini, secondo la formula magica “io sono ciò che desidero”.
“Il vincente realizzerebbe l’unità del mondo, naturalmente secondo il suo punto di vista, e le sue idee; i suoi dirigenti rappresenterebbero il tipo ideale dell’uomo nuovo; pianificherebbero e organizzerebbero secondo le loro idee politiche, economiche e morali. Quanti si entusiasmano per l’unità tecnica e industriale del mondo dovrebbero tenere presente questa conseguenza” (Carl Schmitt, L’unità del mondo)
Nel 2000, due direttive del Consiglio – la 2000/43/CE e la 2000/78/CE – attuano rispettivamente il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ma il documento più significativo ai fini della nostra analisi è la Comunicazione 389 del 2005 della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, recante il titolo “Un’agenda comune per l’integrazione – Quadro per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi nell’Unione europea”, che ha il pregio di dispiegarsi per massime e schemi, quindi facilmente riproducibile nello spirito. Da essa, che in premessa subito specifica di volere trattare dell’immigrazione legale – e su ciò ritorneremo –, affiora una politica che si fonda sull’idea, almeno “nella carta”, che l’integrazione sia un “processo dinamico e bilaterale di adeguamento reciproco da parte di tutti gli immigrati e di tutti i residenti degli Stati membri”(punto 1) e che essa implichi “il rispetto dei valori fondamentali dell’Unione europea”(punto 2).
Non è azzardato – e si vedrà perché – dire che il “modello europeo” sia un sistema multiculturalista in partenza, ma in un certo qual modo assimilazionista all’arrivo, e a dimostrarlo sono le azioni attuative del programma di integrazione divise in azioni nazionali, tra le quali«rafforzare la capacità della società di accoglienza di adattarsi alla diversità mediante azioni di integrazione destinate alla popolazione di accoglienza, istituire programmi nazionali di attuazione dell’approccio bilaterale, migliorare la comprensione e accettazione della migrazione attraverso campagne di sensibilizzazione, mostre, manifestazioni interculturali, ecc., fare conoscere nella società di accoglienza i contenuti e gli effetti dei programmi e delle attività di accoglienza e di ammissione, potenziare il ruolo degli organismi privati nella gestione della diversità, promuovere relazioni di fiducia e di buon vicinato attraverso attività di “benvenuto”, l’affiancamento di una guida educativa (mentoring), ecc, cooperare con i media, per es. mediante codici di buona prassi facoltativi per giornalisti» e azioni intestatali come «sostenere azioni transnazionali, come campagne o manifestazioni interculturali, che diffondano informazioni precise sulla cultura, la religione e il contributo economico e sociale dei migranti».
Emerge preponderante un’esplicita quanto grave volontà di imposizione educativa, degna del peggiore regime dinon libertà, di un’integrazione patologica eterodiretta, che pare poter fare a meno degli spontaneismi e che certamente fa a meno delle opinioni dissenzienti (summa di bisogno di radici, certezze, confini) polverizzando sulla carta e nei fatti ogni libertà democratica. La portata al veleno che altro non è che la distruzione lenta di ogni coscienza oppositiva, che vuol farsi portavoce di istanze sociali ed esigenze anche non necessariamente identitarie, è impiattata e servita quotidianamente e con costanza particolare mediante un’informazione che sostituisce al compito primario di raccontare i fatti la non libertaria mission di creare consenso, cambiare i costumi, normalizzare l’inaccettabile e mettere in discussione l’ovvio, in un’ottica propagandistica – ribadiamo – da regime di non libertà.
E – fattore di ancora più estrema gravità – regime di non libertà tutto avvolto in un parolaio dirsi democratico ed egualitario, quando le istituzioni stesse che lo compongono possono pacificamente fuggire per costituzione le logiche della sana democrazia, come del resto, addirittura Altiero Spinelli, padre d’Europa, ebbe modo di sottolineare nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo, ritenendo ad esempio la struttura del Consiglio «non democratica, ma oligarchica e burocratica»e notando ancora che «quel che è stato tolto alla competenze dei parlamenti nazionali è caduto e continua a restare nelle mani non del Parlamento europeo, ma di alcuni alti funzionari nazionali e di alcuni ministri che si sottraggono di fatto ad ogni direttiva e controllo politici».
“L’umanitarismo è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico” (Carl Schmitt, Le categorie del politico)
Chi scrive crede nei valori della condivisione tra culture diverse e dello scambio delle esperienze evolutive e dei percorsi identitari. Chi scrive crede nella scienza come strumento di miglioramento e nella tradizione – come la intendeva Gustav Mahler – custodia del fuoco e non adorazione della cenere, ed anche crede nella ricerca storica e nei percorsi di verità. Crede altresì nella sovranità e nell’autodeterminazione dei popoli. Chi scrive ritiene che si debba ritornare ad apprezzare il valore del confine non inteso come barriera divisiva tra i popoli e le persone, bensì come contatto della differenza e incontro pacifico che tutela la diversità da ogni forma di omologazione,che riconosce le differenze senza coltivare l’ambizione di livellarle. È questa la doverosa premessa per iniziare con serenità a parlare di migranti e integrazione.
Continuando la lettura della Comunicazione, tra le azioni salta certamente all’occhio quella che evidenzia la necessità di «potenziare il ruolo degli organismi privati nella gestione della diversità», cosicché integrazione è persino ricatto economico nella misura in cui è business. È inoltre una delle azioni del punto 10 a ricordarci la necessità di «Fare dell’integrazione un fattore importante delle politiche di migrazione economica», evidenziando chiaramente e non solo quando si fa riferimento all’integrazione lavorativa («I nuovi orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione invitano gli Stati membri a prendere provvedimenti affinché aumentino i livelli occupazionali fra i migranti»), lo stretto legame tra immigrazione e sistema economico, cioè – ad oggi – tra immigrazione ed economia globalizzata.Chi scrive però considera certamente più curiose altre due azioni contenute nello stesso punto “economico” che sono: «Provvedere affinché le cellule nazionali di contatto fungano da centri nazionali e l’informazione sia condivisa e coordinata fra tutti i livelli di governo e gli altri attori interessati, in particolare regionali e locali» e «Rafforzare la rete delle cellule nazionali di contatto».
Chi scrive non sa cosa possa essere una “cellula nazionale di contatto” in uno Stato con costituzione democratica, separazione dei poteri (anche se deboluccia), e legalità e trasparenza sbandierate qua e là, ma certamente non sono le istituzioni statali e sovrastatali che sono infatti menzionate a parte e nessuna nota soddisfa la nostra curiosità, ricorda però che in Italia come in Europa, non esiste una disciplina che regoli l’azione dei gruppi di interesse, così a ruolo di influencer posso candidarsi tutti, persino i poteri parastatali.
In conclusione, alla voce “integrazione” della Treccani, si legge che integrazione è «Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita», quindi il contrario di segregazione, ma anche «Con sign. affine, ma in tono polemico: opporsi al tentativo di i. (delle classi operaie nel capitalismo, ecc.); lottare contro il rischio dell’i. (nella società dei consumi, ecc.); rifiutare qualsiasi forma d’i. nel sistema». Ogni tanto, insomma, per scoprire il bluff, basterebbe prendere in mano un’enciclopedia. L’Europa scrive: «La migrazione legale e l’integrazione sono indissolubilie destinate a spalleggiarsi a vicenda. […] L’UE dispone di un vasto arsenale di politiche e strumenti finanziari con cui contribuire agli sforzi delle autorità nazionali e della società civile. La sfida del futuro sarà incoraggiare lo spiegamento di forze concertate da parte di tutti gli attori interessati al fine di massimizzare gli effetti e l’efficacia di tali strumenti». Non vi fa paura tutto ciò? Chi l’ha deciso? E il dissenso, non è ammesso?
Articolo uscito su maurizioblondet.it
Fonti:
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=URISERV:l14502&from=IT
http://ruc.udc.es/bitstream/2183/7485/1/AD_12_art_9.pdf
http://www.statoechiese.it/images/stories/2010.2/basile_10.pdf
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:52005DC0389
https://www.youtube.com/watch?v=KIRBMw9I3hM
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