L’Unione Europea è incostituzionale
di SIMONE GARILLI (FSI Mantova)
La parità fra Stati di cui all’art. 11 commi 2 e 3 della Costituzione (che disciplina le nostre eventuali limitazioni di sovranità a vantaggio di organizzazioni internazionali) non è intesa in senso formale, come vorrebbero i liberali. Cioè non coincide con l’applicazione delle stesse regole a Stati dotati di ordinamenti giuridici molto diversi (frutto di peculiari evoluzioni sociali e politiche, spesso lunghe secoli). È una parità sostanziale, che si deve tradurre nella parità di poteri e quindi di sovranità.
Se applichiamo la Costituzione economica tedesca all’Italia, attraverso il Trattato di Maastricht e le successive integrazioni, stiamo andando nella direzione opposta dell’art. 11 della Costituzione italiana. La Germania infatti ha continuato a godere dei poteri di cui disponeva precedentemente, ma l’Italia ha perduto gran parte dei suoi. In termini relativi il guadagno di sovranità tedesco è immenso, e le condizioni di parità richieste dalla nostra Carta sono inesistenti.
Meglio spiegarsi più concretamente: la Germania del secondo dopoguerra ha adottato un ordinamento ostile all’inflazione e orientato alle esportazioni, indirizzato ad un’economia (sociale) di mercato fortemente competitiva nella quale lo Stato riveste un ruolo diretto tutto sommato marginale, preferendo regolamentare più che intervenire (è il cosiddetto ordoliberalismo).
L’Italia ha adottato nel 1948 un ordinamento che, sia pure nell’alveo della democrazia formale, si può definire opposto a quello tedesco. La nostra Costituzione impone ai governi, di qualsiasi colore, la piena occupazione (derivata dall’art. 1: la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro) e una protezione notevole dei diritti dei lavoratori di fronte alle naturali pretese del capitale privato. Lo Stato deve piegare l’iniziativa privata a fini sociali e intervenire direttamente e indirettamente per valorizzare i grandi complessi industriali del Paese. È un ordinamento fondato sulla domanda interna piuttosto che su quella estera, e che quindi necessita di un’inflazione strutturalmente maggiore di quella richiesta dal sistema tedesco.
Ciò premesso, come si può definire paritario un insieme di Trattati che impongono all’Italia come alla Germania gli stessi rigidi vincoli di finanza pubblica (3% di deficit e poi pareggio di bilancio), lo stesso divieto di aiuti di Stato alle imprese (con l’Italia che aveva una quota pubblica di valore aggiunto nel settore manifatturiero pari al 18% nel 1992, contro il 9% della Germania), lo stesso divieto di vincolare la circolazione dei capitali (con l’Italia che aveva bisogno di proteggere il lavoro più che la concorrenza) e lo stesso divieto di utilizzare le leve di politica monetaria e valutaria (con l’Italia che aveva bisogno di scaricare sul valore della moneta la maggiore inflazione, a differenza della Germania)?
Questa non è parità, è distruzione di un ordinamento giuridico-economico che aveva portato benessere diffuso e sviluppo industriale attraverso l’importazione di un modello che non ci appartiene, e che ci impone di favorire il grande capitale globalizzato invece che il lavoro (e con esso la piccola impresa privata che dipende dai salari).
È tipico dei liberali sostituire l’interpretazione formale della realtà a quella sostanziale, svuotando il significato dei concetti così da manipolarne più facilmente l’indirizzo prescrittivo. Lo hanno fatto innanzitutto col concetto di Libertà, trasformata nella semplice rivendicazione di diritti slegati dai doveri, e quindi nella libertà di non contare nulla (senza vincoli famigliari, di partito e di appartenenza nazionale non c’è alcun argine alla spoliazione dei diritti) e subito dopo con quello di Democrazia, che si esaurirebbe nel processo elettorale e nella semplice presenza dell’istituzione parlamentare, comunque sia declinata (un sistema maggioritario e presidenziale equivale formalmente ad un sistema proporzionale e parlamentare).
Ecco allora che nel mondo liberale in cui ci troviamo da quasi quarant’anni il Trattato di Lisbona e la Costituzione italiana, cioè due ordinamenti giuridici antitetici, formalmente possono convivere insieme. La sostanza invece è che il primo produce effetti concreti nella società e nell’economia, mentre la seconda è stata disattivata. Solo una volta compreso questo si può rivendicare seriamente la sovranità.
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