Sulla revisione della Costituzione
La relazione del giurista e deputato Paolo Rossi (Psi) alla Commissione per la Costituzione nel 1947.
La determinazione di particolari norme e garanzie per la revisione della Costituzione, implica, naturalmente, il presupposto che la Costituzione sia essa medesima una garanzia ed anzi il presidio fondamentale di quel «riposato vivere civile» che fu il miraggio di tante generazioni di italiani, realizzato appena, e forse soltanto intravvisto, in alcuni decenni più felici.
Ora tutti sappiamo che la Costituzione è uno, e certo non dei più efficienti, tra i mezzi con i quali, data sempre l’esistenza di certe condizioni economiche, morali e psicologiche, si possono salvaguardare le libertà politiche.
La Costituzione è prima un sentimento che una legge, e noi abbiamo avuto sotto gli occhi gli esempi opposti di paesi intrinsecamente costituzionali, che pur non posseggono una Costituzione vera e propria, e di paesi brutalmente incostituzionali, a dispetto di Costituzioni moderne e perfettissime. Si è detto che il diritto, non è la legge e si può soggiungere, a maggior ragione, che la Costituzione non è la libertà.
Il Ministero per la Costituente, curando la pubblicazione di tanti elaboratissimi Testi costituzionali delle repubbliche del dopoguerra, grandi e piccole, ha tracciato un desolante panorama. Quasi tutti quegli statuti, cosi saviamente meditati per rendere durevoli le libertà un giorno raggiante, hanno permesso il rapido sorgere di dittature, quando larvate ed ipocrite, quando aperte ed insolenti.
In Italia le libertà furono soppresse assai prima di giungere alla legislazione eversiva del 1925-1929, pseudo giuridicizzazione, altrettanto clamorosa quanto inutile, di uno stato di fatto già esistente. Basta ricordare che tutte le più solenni garanzie statutarie erano state sistematicamente distrutte col semplice ricorso all’innocuo articolo 3 della legge comunale e provinciale; così si credeva di dare una apparenza di legalità, ad atti di violenza che andavano via via sopprimendo i fondamentali diritti di stampa, di riunione, d’associazione, ecc.
La Costituzione può essere lasciata formalmente in vigore (esempio italiano e tedesco) e venir manomessa e sovvertita, nella pratica di governo, mediante capziose e ciniche interpretazioni, o mediante violazioni che sono, di solito, tanto meno denunziate e denunziabili quanto più sono flagranti e vistose. La revisione o l’abrogazione di uno statuto e la promulgazione di nuovi principi di convivenza sociale non precedono i mutamenti nella struttura costituzionale dello Stato, ma seguono, come regole di una politica già attuata.
Sarebbe ingenuo ed antistorico immaginare il processo contrario, e cioé un sovvertimento costituzionale, in qualunque senso, che non partisse dalla prassi, ma cominciasse da cauti e legali progetti di ritocco della Costituzione. Parrebbe, dunque, doppiamente vano affaticarsi a garantire con speciali cautele e congegni la revisione della Costituzione, quando da un lato la Costituzione, di per se stessa, è inadeguata garanzia della libertà, e v’è, dall’altro, la certezza sperimentale che ogni profonda revisione statutaria è soltanto la constatazione e la legalizzazione di un rivolgimento politico anteriormente avvenuto e già operante nella realtà.
Ma cosi non è.
Nessuno dei congegni che sono stati studiati, e si possono ulteriormente studiare, per sottrarre la legge fondamentale al pericolo di facili ed avventati mutamenti, potrà impedire l’usura di una Costituzione, il suo lento e naturale svuotarsi col progresso del tempo, l’improvviso suo superamento quando si presenti una situazione rivoluzionaria, e nemmeno, purtroppo, il pericolo di farisaiche ed elusive applicazioni. E seppure esistessero, in teoria, mezzi per rendere immutabile lo statuto, nessuno oserebbe assumere la responsabilità di una mosaica pietrificazione, a meno di non ridurre il testo a pochissime, e assolutamente generiche, affermazioni di diritto naturale.
Ciò che si deve pretendere è che la Costituzione sia posta al riparo dalle transitorie oscillazioni della politica e da quegli improvvisi ed effimeri scarti d’umore da cui i popoli, e il nostro specialmente, non sono più immuni degli individui. La Costituzione non deve essere ritoccata, o mutata, che quando il popolo abbia manifestato, una sicura, ripetuta, durevole volontà di riforma. A tal fine che, per fortunata coincidenza, è, insieme, l’unico desiderabile e il solo raggiungibile, si possono dettare concrete e utili norme.
La serietà, l’amore, la cura che vogliamo porre nello sceglierle e nel perfezionarle saranno, intanto, un primo contributo alla formazione di quella coscienza costituzionale che rende vive ed efficienti le Costituzioni, scritte o tradizionali che siano. Come uno dei rappresentanti in questa Sottocommissione, del Partito Socialista, chiedo di poter esprimere, per incidente, un giudizio ed un voto.
La coscienza costituzionale è elemento indispensabile per l’esercizio e la sicurezza dei diritti politici.
L’altro elemento è una coscienza internazionale della libertà. Spinto alle sue estreme conseguenze, il principio del non intervento negli affari interni degli altri, che ci ha mostrato un mondo civile spettatore impotente davanti alla strazio della dignità e della vita umana perpetrato da Tirannici regimi, fu l’humus delle dittature e la causa prima della guerra.
La libertà è solidale, nel mondo moderno, e nessun popolo è veramente libero e sicuro in casa propria, se i popoli vicini, d’uguale sviluppo civile, non sono anch’essi liberi e sicuri. D’onde, da un lato, il diritto statutario per il popolo d’appellarsi al giudizio internazionale, e dall’altro un dovere di garanzia per la libertà degli altri paesi.
E’ comune a tutte le dottrine politiche moderne il concetto che una Costituzione non può essere immodificabile. Il Partito a cui appartengo e, credo, tutte le correrti politiche più disparate concordano nelle due massime formulate da G. D. Romagnosi nella Scienza delle Costituzioni (parte II, libro III, titolo VII): «Niuna generazione può assoggettare alle sue leggi le generazioni future» e «Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cangiare la sua costituzione». La Costituzione repubblicana non si porrà, sullo schema dello statuto albertino, come legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile. E, con ciò, si difenderà meglio da quelle ferite, che occasionali e capillari sotto i Governi liberal-conservatori, divennero quotidiane e micidiali dopo l’avvento del fascismo.
Il principio della rivedibilità (con le garanzie di cui la revisione deve essere circondata) è iscritto in gran parte delle Costituzioni moderne e pensiamo non possa mancare nella nostra. Rivedibilità e garanzie della revisione sono legate all’idea di una Costituzione rigida, quale è voluta, crediamo, da tutti i partiti e quale è resa, anche tecnicamente, necessaria dalla progettata forma regionale.
Una Costituzione rigida non può essere derogata con una legge ordinaria, ma attraverso una riforma che, secondo i vari sistemi escogitati, sia votata per referendum, o sottoposta da una maggioranza qualificata, o approvata da una Assemblea Nazionale formata dalle due Camere riunite, dove le due Camere esistono.
Tutti questi sistemi hanno i loro difetti. Il semplice referendum, svolgendosi in poche settimane d’agitazione, può rispondere ad istanze passionali e fugaci, piuttosto che a sicure esigenze politico-sociali, e rappresentare il prodotto di una concitazione momentanea, piuttosto che l’epilogo di una duratura e meditata volontà.
Il sistema della maggioranza qualificata di tre quinti o di due terzi (Costituzione sovietica del 1936, turca del 1924, ecc.), non sembra né democratico, né razionale. Non si comprende perché quando il sessantasei per cento dell’elettorato e degli eletti reclama una riforma, il trentaquattro per cento possa insistentemente impedirla, quante volte venga proposta, senza possibilità d’appello. Quando la minoranza si ponga in urto con la maggioranza e prevalendosi del privilegio costituzionale inverta il principio maggioritario, tutto il sistema crolla e viene a determinarsi una insopportabile antinomia. In pratica il Governo non può governare e il paese è posto al bivio tra l’insurrezione e una sostanziale dittatura, mal dissimulata sotto un velo di formale costituzionalità.
Certamente migliore il sistema d’attribuire il potere di revisione ad una Assemblea Nazionale, composta dalle due Camere riunite, ma anche questo, come gli altri metodi consistenti nel sottoporre il progetto di riforma alla condizione che sia firmata da un quarto, da un terzo, dalla metà dei deputati, sembra soltanto un espediente, del tutto formale, per creare una distinzione tra il potere legislativo e il potere costituente.
A bene considerare le cose, vediamo che si tratta piuttosto di un modo speciale d’esercizio del potere legislativo. L’Assemblea Nazionale, formata dalla Camera dei Deputati e dal Senato, potrebbe anche chiamarsi Costituente, quando fosse riunita per decidere un progetto di riforma della Costituzione, presentato nel corso della legislatura. Ma ognuno comprende che sarebbe questione di nome. A parte le definizioni giuridiche del potere costituente, vaghe e quasi sempre limitate alla mera dichiarazione esterna e per nulla definitiva, che il potere costituente… è il potere costituente, e cioè l’organo, o gli organi investiti della facoltà di dettar leggi costituzionali, ciò che dà ad una Assemblea il carattere reale ed intrinseco di Costituente ci sembra l’elezione fattane a quel determinato fine, dopo una campagna elettorale che abbia come piattaforma il mutamento della Costituzione. Tale carattere manca evidentemente ad una assemblea formata dall’occasionale riunione delle due Camere che ad un certo punto della loro vita legislativa approvano un progetto di riforma della Costituzione.
Bisogna trovare un modo di riforma che sfugga ai tre ordini di critiche che scaturiscono dalle precedenti osservazioni e che nello stesso tempo non si presenti come troppo lungo e macchinoso. E il seguente schema mi sembra conciliare abbastanza bene le antitetiche esigenze, garantendo dal pericolo di decisioni precipitate escludendo l’incongruenza d’una Costituzione conservata contro la volontà della maggioranza, mantenendo una netta separazione tra potere legislativo e potere costituente, senza perciò sottoporre la Nazione ad un particolare travaglio politico.
Ogni proposta di modificazione della Costituzione può essere introdotta dal Governo, o per iniziativa parlamentare, secondo l’ordinaria procedura dei progetti di legge, ma deve ottenere, in entrambe le Camere, una maggioranza pari almeno alla metà più uno dei membri che organicamente le compongono.
La proclamazione stessa del risultato affermativo determina lo scioglimento del Parlamento. Entro novanta giorni saranno convocati i comizi elettorali e le nuove Camere dovranno, entro un mese dalla loro rispettiva convocazione, porre ai voti, senza emendamenti, il progetto già approvato dal disciolto Parlamento. Ove il progetto risulti confermato, a normale maggioranza, esso diventa legge costituzionale. Dopo il voto il Parlamento continua la sua ordinaria attività legislativa.
Non mi è parso di esigere, come si leggi in diverse Costituzioni (spagnuola 1931, lituana 1938, ecc.), che il progetto debba essere presentato da un certo numero di deputati, o di senatori, mentre sembra opportuno precisare che la maggioranza debba calcolarsi sul numero totale dei membri che compongono organicamente le Camere.
Il caso storico dell’emendamento Wallon, che diede origine alla Costituzione francese del 1875 per un solo voto di maggioranza, rende opportuno che dopo una deliberazione di tanto interesse non sia possibile recriminare osservando che se non vi fossero stati membri morti, o decaduti, o altrimenti impediti, l’esito sarebbe stato diverso. Tale cautela non si ritiene più necessaria per il nuovo Parlamento, appena eletto dopo una campagna che ha come oggetto precisamente la progettata riforma.
Il divieto di apportare emendamenti è poi necessario per non rendere illusoria la garanzia sostanziale della doppia legislatura. Così non vedo una ragione sufficiente per introdurre limitazioni di tempo, prescrivendo che la Costituzione non può essere mutata se non dopo un certo numero di anni (Costituzione spagnuola). E’ proprio nel primo periodo d’esperienza costituzionale che possono rivelarsi errori, o manchevolezze, incorse nella redazione e rendersi necessarie aggiunte, o varianti.
Infine la continuazione del Parlamento, dopo esaurito l’esercizio del potere costituente, per i suoi normali compiti legislativi, evita il turbamento e il danno di consultazioni popolari non necessarie e troppo ravvicinate.
Di proposito ho omesso la dichiarazione che la forma repubblicana non può essere sottoposta a revisione. Nel leggerla in altre tavole costituzionali (progetto francese 1946, ecc.) ne riportai una impressione di debolezza.
Essa mi apparisce, inopportuna, inutile e meno degna di quel sentimento repubblicano che, espresso a maggioranza dal popolo italiano, è destinato a diventare nel futuro fondamento primo e parte integrante della nostra coscienza politica.
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