Il messianismo americano (2a parte)
fonte: Affari italiani.it
La questione del diritto internazionale è al centro della retorica wilsoniana. Nel suo famoso discorso davanti alla joint session del Congresso in cui perora l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro la Germania (2 aprile 1917), dichiara:
“E’ una cosa terribile condurre questo popolo pacifico alla guerra. Ma il diritto è più prezioso della pace, e noi dobbiamo combattere per le cose che ci sono sempre state più care, per la democrazia, per il diritto di coloro che si sottomettono all’autorità di avere una voce nel loro governo, per i diritti e le libertà delle piccole nazioni, per un regno universale del diritto, per portare pace e sicurezza a tutte le nazioni e rendere il mondo finalmente libero!”
Figlio del pastore presbiteriano Joseph Ruggles Wilson, questo politico dal tono di predicatore era davvero l’idealista intransigente che molti dei politici suoi colleghi temevano? Questo statista longilineo e severo non si salvava dai calcoli, dalle meschinità e ancor meno dai pregiudizi razziali: durante la sua presidenza, ha istituito una vera e propria segregazione alla Casa Bianca. Ma la stessa intransigenza di cui ha dato prova alla fine della guerra, intransigenza che ha in parte rovinato i suoi progetti, fa pensare che i principi che animavano la sua politica internazionale siano venuti prima dei compromessi pragmatici, tesi a uno scopo ossessivo, quella «pace mondiale» di cui lo Zio Sam era chiamato a fare il messia contemporaneo.
Queste idee erano insite nelle convinzioni cristiane di questo calvinista rigoroso. Tutte le sue biografie sottolineano il peso determinante dell’ambiente protestante cui apparteneva. Thomas Knock rileva per esempio che «l’influenza fondamentale» che ha segnato lo sviluppo della sua personalità è stata la sua «educazione in una famiglia presbiteriana», al cui interno scopre la nozione squisitamente puritana dell’«alleanza» tra Dio e il suo popolo. Wilson aveva imparato dal padre, che ammirava, che anche il successo individuale è subordinato all’obbedienza alla legge divina.
Poco prima di conseguire la sua laurea a Princeton, Thomas Woodrow Wilson scriveva sul suo diario: «Se Dio mi fa la grazia, io tenterò di servirlo fino alla perfezione». Era questa fede calvinista che gli ispirava la preoccupazione del diritto, preoccupazione imperiosa, che s’impone a tutte le nazioni a partire dagli Stati Uniti. Come creatore e padre di tutte le nazioni della Terra, è Dio che ispira il diritto. I principi giuridici che discendono dall’Onnipotente sono scolpiti nella «coscienza universale» e fintanto che i popoli si mostreranno fedeli alla legge morale del Creatore, la pace e la prosperità saranno presenti all’appuntamento con l’alleanza.
Il ventottesimo presidente degli Stati Uniti, premio Nobel per la pace nel 1919, riteneva che il suo paese non avrebbe mai raggiunto la prosperità e la sicurezza perseguendo interessi egoistici e unilaterali. Difendeva un “internazionalismo progressista” in cui il diritto e il multilateralismo dominavano a tal punto che l’opinione pubblica americana, sempre tentata dall’isolazionismo, non volle seguirlo: alla fine il Congresso rifiutò di integrare la Società delle Nazioni. Per Wilson fu una «tragedia» che lentamente lo condusse, malato e disperato, fino alla morte.
Quando si confrontano questi elementi con il modo in cui il quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti, George W. Bush jr., ha reagito al dramma dell’11 settembre, si osservano insieme convergenze e divergenze. Si ritrova innanzitutto, come in Wilson, l’idea che l’America costruisca un futuro migliore: la famosa «ricerca della felicità» che si trova nella dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776. Al servizio di questo obiettivo, Woodrow Wilson e il suo lontano successore si congiungono in un volontarismo energico che potrebbe benissimo dipendere da una «tentazione democratica autoritaria» in cui la Casa Bianca intende imporre dall’alto la sua visione del mondo e del futuro. Da questa ambizione discende la realizzazione di un’operazione mondiale di comunicazione che ha dato alle due presidenze un marchio particolare e opposto.
In un caso, è talmente ben riuscita che si è parlato a lungo, in Europa, di “Wilson il santo”, l’uomo del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Il risultato è stato l’esatto opposto nel caso di George W. Bush jr., il presidente americano più detestato al di fuori del suo paese dalla nascita degli Stati Uniti.
A prescindere dalle conseguenze di queste politiche di comunicazione, rimane il fatto che esse appaiono convergenti. Eletto nel 1916, per diffondere il senso di una missione, Wilson aveva creato il Committee on Public Information (CPI). Esso riuniva artisti, uomini d’affari, scienziati e giornalisti per sensibilizzare l’opinione pubblica al ruolo che gli Stati Uniti si dovevano necessariamente assumere di fronte all’imperialismo delle forze tedesche.
L’Office of Global Communication (OGC), ente statale istituito il 21 gennaio 2oo2 dall’amministrazione Bush jr., sembra indirettamente seguirne le orme, quasi un secolo dopo. Animato tra gli altri da John W. Rendon, già collaboratore di jimmy Carter, l’OGC organizza un «management della percezione» destinato a raccogliere le simpatie al servizio della politica estera della Casa Bianca. Sul sito Internet della Casa Bianca, si precisa che «l’Office assiste il presidente nel comunicare al mondo il suo messaggio: dignità, pace e libertà per tutti i popoli, ovunque nel mondo». In un caso come nell’altro, il messianismo americano ha bisogno, per dispiegarsi, di vincere «la battaglia dei cuori e degli spiriti».
Ma il parallelo finisce là. Il messianismo che guida l’amministrazione Bush jr. differisce in due punti essenziali. Il nazionalismo, ormai, si pone sullo stesso livello dell’idealismo universalista, come se si confondesse con esso. Il CPI wilsoniano era destinato a far uscire gli Stati Uniti dal loro isolazionismo, per entrare in una dinamica multilaterale fondata sul diritto internazionale.
I quattordici punti di Wilson (8 gennaio 1918) intendevano dare nuova forma alle relazioni internazionali, dopo la Grande Guerra, in virtù del diritto internazionale e di una regolazione collettiva e pacifica dei conflitti. L’OGC sembra, invece, predicare in favore dell’imperium dei soli Stati Uniti, quando l’ONU si vede ingiungere di approvare l’America o tacere. Al punto che è stato possibile osservare che l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il regime di Saddam Hussein, senza l’avallo delle Nazioni Unite, è stata il funerale dell’ordine post-1945. Lucida constatazione? Fantasie? Gli storici che fra qualche anno si occuperanno della crisi diplomatica che ha preceduto l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione anglo-arnericana, nel marzo 2003, potranno decidere di questo dibattito.
Più a breve termine, la Casa Bianca si è indubbiamente distinta, dopo l’inizio degli anni 2ooo, per la tendenza all’unilateralismo. Non si contano più i casi su cui la Casa Bianca ha scelto di distinguersi. Dal rifiuto di riconoscere la Corte penale internazionale nel 2002 alla denuncia del Protocollo di Kyoto sulla salvaguardia ambientale (limitazione delle emissioni dei gas a effetto serra), dalla rimessa in questione del trattato antibalistico (Anti-balistic missile, ABM ) del 1972 in nome dello sviluppo di un nuovo sistema antimissilistico (National Missile Defence, NMD) al sabotaggio dei lavori dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e a una politica di ammissione a forza all’interno dell’Organizzazione mondiale per il commercio (OMC), senza dimenticare il rifiuto di firmare la convenzione internazionale sul divieto delle mine antiuomo, sembra di essere lontani, e molto, dal rapporto di un Thomas Woodrow Wilson con il diritto internazionale.
[continua]
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