La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana
Ho trovato in rete questo importante articolo di Massimo Bontempelli, scritto qualche anno fa e tuttavia attualissimo, come tutto ciò che ha valore. Non credo che sulla distruzione della scuola italiana, sulle ragioni, le modalità e le responsabilità di chi l'ha voluta, si possa essere più precisi e profondi. E siccome concordo totalmente anche sulla idea di scuola di Massimo Bontempelli, ossia su quello che la scuola dovrebbe essere – confesso, in questo campo, il mio idealismo; e infatti ho scritto nel manifesto che "La scuola non deve formare uomini moderni, bensì semplicemente uomini, che sappiano guardare dentro di sé e fuori di sé" – considero questo breve saggio il programma ideale per una futura e auspicabile riforma della scuola. Se la crisi, come ci auguriamo, durerà e sarà grave, tutto potrà accadere (SD'A).
fonte petiteplaisance
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana
Vorrei parlare non dei contenuti specifici del mio libro, che chiunque, se vuole, può andare a leggere, ma dell’attuale evoluzione della scuola italiana dopo la riformadi Berlinguer, a cui il mio libro, pubblicato in quel momento, esclusivamente si riferisce. Per capire il senso profondo di tale evoluzione, bisogna cogliere le continuità di fondo dei tre ultimi ministri della pubblica istruzione, Berlinguer, De Mauro e Moratti, che invece appaiono al senso comune portatori di idee diverse.
La pubblicistica ha visto addirittura De Mauro, diverso da Berlinguer. Con questo non voglio dire che tutto sia uguale. Ci sono diversità nelle rappresentazioni mentali dei tre personaggi, e diversità di superficie nei loro atti. Per esempio, nel mio testo insistevo sull’ossessione didatticistica che sembra ora declinante, nel senso che la lobby pedagogistica ha un po’ meno peso che con Berlinguer. Inoltre, più che di autonomia dell’istituzione scolastica oggi si parla di regionalizzazione. Però a mio avviso questi mutamenti rispondono alla medesima logica di fondo: la teleologia, la tendenza delle trasformazioni in atto nella scuola, pur con congegni diversi, rimane la medesima. Si tratta del progressivo smantellamento del sistema nazionale della pubblica istruzione, perseguito perché appare inutile e costoso ad una società organizzata in modo sempre più esclusivo da logiche di mercato. Prendiamo una delle cose che viene più strombazzata come elemento di conflitto: l’introduzione dei consigli di amministrazione nella scuola. Questo sembra un elemento di conflitto aspro, perché la destra sembra sostenere una questione di efficienza aziendalistica contro la sinistra arruffona e demagogica. La sinistra da parte sua accusa che si siano violati i diritti democratici del Collegio docenti e del Consiglio di istituto, espropriati da un consiglio di amministrazione. Una modesta domanda: quando gli OOCC non discutono più assolutamente, perché non c’è lo spazio istituzionale, perché gli insegnanti non ne sono più capaci, di ciò che realmente si insegna, di ciò che dovremmo insegnare – dei problemi seri: si insegna cosa e perché non c’è traccia, ciò di cui si discute nei collegi è se tirare di scherma rientri nei crediti per l’esame di stato, oppure di progetti, oppure si discute della ripartizione dei finanziamenti sui progetti – se un Collegio deve fare questo, che lo faccia un consiglio di amministrazione conta poi molto, dal momento che è il contenuto della scuola che è stato svuotato?
Noi a scuola perdiamo tanto tempo a parlare di tante cose che non c’entrano nulla – scusate il termine un po’ platonizzante – con l’essenza della scuola. Le cose fondamentali per la scuola sono due: cultura e relazione; quale cultura si insegna ai nostri giovani, e poi la relazione, che è fondamentale e che rappresenta la pesantezza del nostro lavoro. Ragionare sulla relazione con gli studenti e ragionare sulla cultura che oggi è necessaria: queste sarebbero le cose essenziali. Invece si discute di pagelline, di valutazioni intermedie, di terze prove, di test, di progetti e di come spartire i soldi tra questa e quell’altra cosa: cose che affollano la mente e se la mente è affollata di queste cose la mente non è libera.
Nella circolazione mediatica sembra che Berlinguer sia in antitesi alla Moratti perché la accusa di aver affondato la sua riforma. Ciò si inserisce nel contrasto che viene molto enfatizzato tra centro-destra e centro-sinistra, tra Ulivo e Casa delle libertà, per cui si pensa che la riforma Berlinguer e quella Moratti debbano essere oppositive perché vengono da campi politici diversi. Ecco, io sono profondamente convinto che una delle trappole mentali che oggi ci impediscono di vedere la realtà dei problemi sia proprio questa contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra. Anche qui, non voglio dire che i due schieramenti siano uguali. Sono diversi per stile, per matrici culturali, per aspetti estetici. Però l’evoluzione della società italiana, è sostanzialmente la stessa, sia che prevalga il centro-destra, sia che prevalga il centro-sinistra. Certo, Berlusconi compromette maggiormente la funzione giudiziaria dello Stato, e ciò non è cosa da poco. Certo è culturalmente più rozzo, politicamente più oscillante, ideologicamente più populista. Ma sia Berlusconi e il suo centro-destra, sia il centro-sinistra, non riescono ad amministrare il paese se non nella piena sudditanza all’economia del profitto, di cui accettano i costi di degradazione sociale, morale, culturale ed ecologica.
Nel corso di alcuni dibattiti, mi sono sentito rivolgere questa domanda: a questa dittatura dell’economia aziendale, a questo sistema economico e sociale è più funzionale il centro-destra o il centro-sinistra ? La mia risposta, di cui sono profondamente convinto, è stata che ciò che è veramente funzionale a questa dittatura dell’economia del profitto non è tanto uno dei due schieramenti singolarmente preso, ma il sistema della loro alternanza alla guida del paese attraverso una competizione per il potere che li fa falsamente apparire come opposti. In tal modo, infatti, quando uno dei due schieramenti è al potere, lo scontento che crea viene incanalato dalla superficiale opposizione fatta dall’altro, che poi, una volta vincitore, amministra secondo la stessa logica di sudditanza alla società di mercato. È proprio questa sudditanza che li fa convergere nello smantellamento del sistema nazionale della pubblica istruzione. Il senso degli interventi di Berlinguer, di De Mauro e della Moratti è infatti l’aziendalizzazione della scuola. Si tratta di una vera violenza perché la scuola non può essere azienda per sua natura. Tant’è vero che quando si pone la cosiddetta concorrenza tra le scuole, che viene tanto esaltata, basta che uno abbia gli occhi per vedere: non è che la concorrenza gioca sui contenuti migliori. La concorrenza avviene su un terreno deteriore, sul terreno dell’immagine, di ciò che è immediatamente utile. Non è il caso di discutere qui il senso del criterio aziendale della concorrenza, ma essa sarà anche utile alle aziende, certamente però rispetto alla scuola non ha senso.
Provo a chiarire questa affermazione, che richiederebbe approfondimenti ulteriori, con un esempio. Una volta mi recavo ad una conferenza presso una scuola. La signora che mi accompagnava mi spiegava come in quella scuola all’avanguardia si insegnassero materie come Antropologia culturale, Psicoanalisi. Io rimasi un po’ perplesso, chiesi dove trovavano insegnanti per insegnare materie così complesse. Candidamente, questa signora mi spiegò che erano svolte da insegnanti di altre materie, e che comunque quei corsi erano relegati al sabato nelle ultime ore. Chiesi allora perché attivare materie così importanti per svolgerle in maniera così marginale. Perché attirano gente, fu la risposta. Insomma dal punto di vista economico, se riferita agli oggetti di consumo, la concorrenza ha un senso, perché il cliente sarà spinto ad acquistare quelli che gli funzionano meglio, ma non lo ha nella scuola, perché il cliente della scuola non è spinto a cercare la cultura profonda, la formazione dell’uomo, che magari i genitori non sanno nemmeno cosa siano. Dire che il cliente sceglie la scuola migliore significa in realtà puntare al ribasso. Anche la concorrenza tra insegnanti – spingono in tutti i modi a dividerci, cercano di metterci in contrasto per pochi spiccioli – non è che privilegia il merito. La dimensione educativa è una dimensione, diciamolo, spirituale, per cui bisognerebbe che l’aspetto economico fosse garantito. Nella scuola andrebbe proprio bene quello che si critica, una sicurezza economica per cui non fosse necessario pensare più ai soldi, rincorrendo, come accade oggi, progetti o pseudo progetti con l’unico scopo di dividersi qualche spicciolo. L’ideale sarebbe un insegnante che, proprio perché ha garantita una base economica, possibilmente più decente di quella attuale, si spende anche gratuitamente.
Lo smantellamento del sistema nazionale della pubblica istruzione ci riporta indietro a prima della rivoluzione francese, quando l’istruzione delle persone dipendeva dalle famiglie. La scuola pubblica, che si fa carico di trasmetere i saperi essenziali di una nazione da una generazione all’altra, non è nata in Italia, come normalmente si crede, con la legge Casati del 1859, ma è, anche in Italia, figlia della Rivoluzione francese. Nella Convenzione Nazionale, cioè l’Assemblea Costituente della rivoluzione francese, che ha dettato poi le nuove costituzioni della Francia, si discusse moltissimo dei problemi della scuola, intervenivano esperti della scuola come Condorcet, ma anche grossi calibri politici come Roberspierre e Brissot. La scuola come noi la conosciamo è nata lì. Anche in Italia, come in tanti altri paesi, la scuola pubblica è nata sull’onda della rivoluzione francese. Il primo sistema scolastico pubblico italiano è stato quello del Regno d’Italia. Non però del Regno d’Italia creato nel 1861, ma di quello di Eugenio de Beauharnais, che nonostante avesse il vicerè francese e fosse vassallo della Francia, aveva un organo rappresentativo italiano, ministri italiani, ed un esercito con il tricolore e con generali italiani, e che fu cancellato dalla Restaurazione del 1815. In questo Regno d’Italia c’è stata la prima riforma scolastica, prima ancora di Casati, che era più di una riforma, perché non si trattava di riformare la scuola, ma di introdurla. È la famosa Legge Paradisi-Moscati, che ha introdotto per la prima volta una scuola elementare, una scuola media e una scuola superiore. Questa scuola è nata per formare il cittadino, e nella Convenzione Nazionale queste cose erano dette esplicitamente. Con la rivoluzione francese siamo entrati in un’epoca nuova: se l’individuo non deve più essere suddito di poteri feudali, ecclesiastici, di tradizioni schiaccianti, ma deve essere cittadino, partecipare alla vita politica della propria comunità, determinarla, questo non è assolutamente possibile senza un certo grado di informazione e di comprensione della realtà sociale, della sua scienza, della sua storia. La scuola pubblica è nata esplicitamente collegata al diritto di cittadinanza; tant’è vero che nelle relazioni di presentazione di questa legge, che pure sono svolte da personalità di ispirazione conservatrice, si legge che la scuola deve essere pubblica, e non ci deve essere in essa neppure “un grammo” – usano proprio questa espressione – di privato. Tant’è che veniva esclusa l’esistenza stessa di una scuola privata. La scuola è pubblica e nazionale; cioè devono essere stabiliti a livello nazionale programmi ed obiettivi, e questo perché la scuola ha la funzione di rendere possibile la cittadinanza.
Questi principi sono stati ripresi mezzo secolo dopo, alla vigilia dell’unità d’Italia. Nella relazione di Casati per la legge scolastica del 1859 è detto che l’iniziativa privata deve essere assente nella scuola. E Casati non era certo contro l’iniziativa economica privata. Era un liberale e un liberale perfino più conservatore di Cavour. Ma proprio perché si era favorevoli all’iniziativa privata nella vita economica, proprio perché l’uomo nella società si spende come homo economicus, fu scelto di dare una formazione che economica non fosse. Deve avere, la scuola, una giusta separatezza dalla società. Non separatezza nel senso che non deve occuparsi dei problemi sociali, ma nel senso che non deve essere schiacciata sulla immediatezza sociale. La scuola viene rovinata quando si comincia a dire – e l’esito finale sarà l’abolizione del valore legale del titolo di studio – che non deve fare altro che dare le abilità che servono al sistema economico, all’affermazione sociale. In questa maniera si è di fatto abolita la scuola. La scuola deve invece insegnare ciò che nell’immediatezza sociale non si può apprendere, e che oggi è più fondamentale che mai.
Alla televisione, in una rete locale della mia città vidi un programma di una preside di una scuola della provincia iper riformatrice berlingueriana, deputata DS oltre che preside, la quale vantava il carattere progressivo ed innovativo della sua scuola, perché avevano organizzato un’attività per cui gli studenti avevano messo in piedi una specie di banca all’interno dell’istituto. Penso che se si deve imparare la tecnica bancaria, la insegnano meglio le banche.
A che cosa serve la scuola? Ci trovi, nella scuola, la tragedia greca, Sofocle, l’Antigone, quelli non li trovi mai nel normale commercio sociale. La scuola deve collocarsi su un altro piano se deve formare l’uomo, il cittadino e non l’homo economicus: quello ci pensa già la società a formarlo. La scuola tradizionale, che non voglio difendere, in quanto era “avvizzita”, bisognava riformarla in direzione opposta, cioè bisognava rinnovare i suoi contenuti culturali in modo da renderli vivi, significanti. Personalmente, a un certo punto della mia vita mi sono appassionato al greco, perché mi ha permesso di penetrare la sapienza di Eraclito, di Parmenide. Quando ero a scuola lo detestavo: in parte perché me lo insegnavano in maniera arida, perché per gli stessi insegnanti era ridotto a una tecnica. C’era molto da riformare nella scuola tradizionale. Ma perché quella cultura diventasse più viva e acquistasse significati che risuonassero di più nell’animo delle persone, perché non fosse una semplice esercitazione, non certo per abolirla, per insegnare “cose che servono”, che so, l’informatica o l’inglese commerciale, perché in questa maniera, oltre tutto, la scuola sarà sempre condannata ad inseguire cose che altri fanno meglio.
La prima cosa sarebbe quella di pensare un asse culturale. Cos’è un asse culturale? È un obiettivo culturale verso cui le diverse discipline che vengono insegnate funzionalmente convergono. Per esempio la riforma Gentile un asse culturale lo aveva. Poi quest’asse culturale lo ha perso, ma perché è stato smantellato dal fascismo stesso. Chiunque si occupa di scuola sa che non è vero che la riforma Gentile è la riforma del fascismo. Ad abbattere la scuola gentiliana in gran parte ci ha pensato il fascismo stesso. Per esempio è abbastanza noto che la conciliazione tra Stato e Chiesa nel ’29 ha portato dei cambiamenti nella scuola che andavano in direzione opposta alla riforma Gentile. La riforma Gentile aveva un asse culturale che era dato dalla filosofia, cioè era la filosofia che doveva selezionare la classe dirigente politica, e guardate questo era un asse culturale per tutte le scuole. Uno può dire “Cosa c’entra alle elementari la filosofia?”. Nella mente di Gentile c’entrava anche alle elementari. Non nel senso che si dovesse insegnare filosofia, ma che alle elementari si metteva al centro la religione che, secondo la teoria di Gentile, era la forma infantile della filosofia. Il problema che dobbiamo porci è: quale potrebbe essere l’asse culturale della scuola attuale?
Secondo me, per varie considerazioni che qui non posso svolgere, l’asse culturale della scuola oggi dovrebbe essere la dimensione della storicità. Occorrerebbe cioè reintrodurre la storia là dove è stata svuotata, e quindi insegnare la lingua e la letteratura dal punto di vista storico.
La dimensione storica è poi di importanza cruciale per l’insegnamento delle materie scientifiche. Per esempio, quando si insegna la geometria euclidea non si dice chi era Euclide, dove aveva studiato, perché aveva costruito quel sistema deduttivo. Se si riscoprissero tutti i legami fra la geometria euclidea, i progetti dell’accademia platonica, la continuità e la separazione di Euclide rispetto alla filosofia platonica, la sua geometria acquisterebbe un profondo significato culturale ed educativo. Pensate che bello se l’insegnante di storia insegnasse la storia dell’età ellenistica, e l’insegnante di matematica insegnasse la geometria euclidea, e le cose si incastrassero. In mancanza di ciò, l’insegnamento scientifico, che dovrebbe quasi per definizione essere un insegnamento critico, diventa, paradossalmente, come ci spiega Lucio Russo, il più dogmatico. Perché le persone imparano delle leggi scientifiche, dei procedimenti, delle soluzioni di problemi in maniera totalmente dogmatica, tant’è vero che lo studente della scuola secondaria generalmente non sa che la scienza non è mai definitiva, che è un modello, che la fisica newtoniana non è più vera in senso assoluto, perché addirittura le sue disconferme sono state quasi cooriginarie alla sua formazione. Ad esempio le leggi di Keplero sulle orbite dei pianeti vengono imparate a scuola completamente svuotate di significato storico. Non si immagina che le ipotesi che hanno guidato quello scienziato nella scoperta dell’orbita di Marte sono ipotesi metafisiche, di tipo neoplatonico e neopitagorico. Io penso che una scuola dovrebbe coordinare le materie, i programmi, gli insegnamenti, insegnare cioè arte, letteratura, scienza, filosofia dal punto di vista di una connessione storica e penso che questo sarebbe molto importante.
In una scuola seria, degna di questo nome, un insegnante dovrebbe impegnarsi molto nell’argomento che insegna e dovrebbe impegnarsi molto e discutere della relazione, un altro problema che spesso è trascurato. Ci sono, non neghiamolo, insegnanti che sono catastrofici nella relazione con i ragazzi. Per esempio, l’insegnante che per la sua tematica psicologica è permaloso ha sbagliato mestiere. L’insegnante non deve avere reazioni di turbamento ed emotive per comportamenti degli studenti che gli paiano disconfermanti di sé; deve sentire la differenza tra l’adulto e l’adolescente o il preadolescente; deve capire come funziona l’adolescenza. Una buona relazione non significa tollerare tutto, non è il “fate come vi pare”, tutt’altro, nella buona relazione c’è una capacità di fermezza, di stabilire dei limiti, dei paletti, delle limitazioni. Le relazioni con gli studenti e i contenuti culturali sono le due cose più importanti, e sono anche le cose di cui si discute meno nella scuola. Quando ci sono i Collegi, o persino i Consigli di classe, io rimango sempre meravigliato che alla gente non venga voglia di urlare. Devo discutere di cose che finiscono con l’apparire serie solo perché tutti ci si coinvolgono. Questo tipo di degrado è stato alimentato, al tempo di Berlinguer, dall’imposizione del cosiddetto didattichese, utile solo alla lobby universitaria dei pedagogisti strettamente legata al centro-sinistra. Non è che io voglia negare l’importanza di riflettere sui metodi dell’insegnamento, però credo che Hegel abbia detto una cosa giustissima quando ha scritto che “il metodo è il movimento stesso del contenuto”.
L’errore che imputo alla lobby pedagogista è di separare il metodo dal contenuto, e questo è un grave errore, perché tu non puoi insegnare come si insegna la fisica se non sai la fisica. Tu non puoi insegnare come si insegna la storia se non sai la storia, non puoi fare un metodo astratto dal contenuto. Invece per ragioni inerenti la storia di questa lobby universitaria politica, quello che si è fatto è questo. Vi racconto una cosa che sembra incredibile, ma è assolutamente vera. Le SSIS sono state colonizzate in parte da questi pedagogisti. Mio figlio, che ora insegna proprio qui in Emilia, ha frequentato una di queste SSIS e non le tollerava perché succedevano delle cose incredibili. Vi dico, un pedagogista che spiegava come insegnare fisica, en passant gli ha detto che la teoria della relatività è una teoria per cui tutto è relativo, cioè io lo vedo bianco, tu lo vedi rosso. Mio figlio, che è laureato in filosofia della scienza e quindi s’è fatto esami di fisica, gli è andato a dire che, veramente, la teoria della relatività la si potrebbe perfino chiamare dell’assolutezza, perché tenta di superare, di considerare l’invarianza delle leggi fisiche al di là dei sistemi di riferimento, quindi…. Questo dice “No, no, relatività, come dice la parola stessa…” Questo è chiaro che è un caso estremo, però i pedagogisti riescono a spiegarti un metodo senza entrare nel contenuto, e tu lo senti che quando ci entrano sono banalità. Questo è profondamente scorretto.
E poi sono ispirati da un’ideologia, che secondo me è deleteria, dell’oggettività della valutazione. Cioè bisogna arrivare ad eliminare la soggettività dell’insegnante. Un insegnante corregge un tema e darebbe sei e mezzo. Un altro darebbe sette e mezzo. Questo secondo loro è un gravissimo problema. Bisogna arrivare a un sistema di valutazione oggettivo. Ora questo, per chi ha un po’ di cultura filosofica, è una pura assurdità. Certo bisogna che l’insegnante abbia un equilibrio per cui controlli il suo peso soggettivo. Però è naturale che lo stesso tema venga valutato da uno con un sei e mezzo, e da un altro con un sette e mezzo. Non c’è nulla di scandaloso. Non è questo che rovina la scuola. E entro certi limiti, che non diventino gravi, che non dipendano dall’insegnante cialtrone, è naturale: la variabilità soggettiva va controllata, ma non è eliminabile. Il puntare a un’oggettività finisce per svuotare il contenuto dell’insegnamento. Se io dico: quando c’è stata la marcia su Roma? Nel ‘20, nel ‘22 nel ‘30 o nel ‘34? Metti una crocetta. È chiaro che lì la risposta diventa oggettiva. Ma diventa oggettiva perché è prosciugata la complessità della materia. La persona impara storia se ragiona con me, se gli chiedo le cause, se si discute, e per valutare tutto questo non esiste una bilancia che pesi in maniera oggettiva. E quindi i pedagogisti nel dare tecniche di valutazione oggettiva inaridiscono la materia e oltretutto si vede che non hanno esperienza di scuola. Fabio Bentivoglio fece su Koinè un articolo stroncatorio contro lo scritto di un pedagogista il quale, senza vergognarsi, prospettava la costruzione di una equazione prima di dare il voto. Cioè io devo calcolare quanti secondi sono passati dalla domanda alla risposta (ha risposto dopo 5 secondi o dopo 30 secondi?), quanti errori leggeri ha fatto, quanti errori gravi, dopodiché si dava, risolvendo l’equazione, la valutazione oggettiva. A parte che la variabilità soggettiva rientra dalla finestra: chi è che stabilisce oggettivamente qual è l’errore leggero o l’errore grave? E poi non è una gara di velocità, per cui se uno mi risponde in un minuto invece che in cinque secondi non vedo perché dovrebbe essere svalutato. Questa impostazione, oltre ad essere francamente demenziale, appartiene a chi, evidentemente, non ha mai insegnato in una scuola. Se infatti tu perdi 20 minuti a far le equazioni per dare il voto oggettivo non fai più scuola. Nella scuola distrutta dagli interventi del centro-sinistra e del centro-destra, non si sa più che cosa si insegna e per che cosa lo si insegna.
Pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno X, N° 1 – Gennaio 2003
Nessuna risposta
[…] Per approfondire consulta la fonte: La convergenza del centrosinistra e del centrodestranella … […]