I ragazzi della via paal, il bullismo ed Ernesto Che Guevara
di Stefano D’Andrea
a mio padre
Quando avevamo dai sette agli undici anni, le nostre giornate di giochi erano piene di sfide: sfidavamo i pericoli, alcuni adulti che si trovavano per caso ad ostacolare la nostra volontà, i bambini prepotenti, i divieti dei genitori.
Salivamo sulle mura del castello e camminavamo con sicurezza all’altezza di dieci o venti metri da terra. Giocavamo a saltare da muri alti tre e anche quattro metri. Passavamo intere mattinate o pomeriggi sugli alberi. Organizzavamo gare di ciclocross e le cadute, anche più di una, erano all’ordine del giorno. Raramente capitava anche di “fare a sassate”: qualche volta per davvero, contro gruppi di bambini ostili e qualche volta, anche se può sembrare assurdo, tra noi, amici contro amici. Per gioco (c’era l’obbligo dei “sassi piccoli”, naturalmente). In ogni caso, tutti gli autunni, quando cadevano le false castagne (così le chiamavamo) dagli ippocastani, ci dividevamo per squadre e ci contendevano la vittoria a castagnate. Chi era colpito era fuori dal gioco. E negli assalti all’arma bianca qualche volta la castagnata la prendevamo violenta: la castagna era stata lanciata da vicino e ci colpiva al centro della fronte! Non è un episodio accaduto una sola volta. Accadeva spesso.
Entravamo nella scuola elementare dalla finestra nel pomeriggio. Rubavamo la domenica sera i gelati in un bar del quartiere, chiuso per riposo settimanale, servendoci di una piccola apertura che dava sul giardino della casa di uno di noi. Coglievamo le ciliegie sugli alberi dei contadini che, qualche volta, ci scoprivano e ci inseguivano. E non si trattava di gente pacifica. Uno di essi, dopo venti anni, ha ucciso il fratello sparandogli con il fucile, per questioni di proprietà.
La grande voliera fu per alcuni anni piena di uccellini, anche sessanta nello stesso momento. Per rispetto ed amore reciproco attribuivamo a ciascuno di noi un merito: chi era bravo a“scoprire i nidi” chi a “salire sugli alberi” chi “a prendersi cura” dei piccoli volatili. Salivamo sugli alberi fino all’altezza di dieci metri e qualche folle arrivava a venti, balzando con sicurezza su rami che ai più sembravano “fini” (così li definivamo) e pronti a cedere.
Quando i più grandi avevano nove o dieci anni, prendevamo in prestito libri in biblioteca, ci sedevamo all’interno di una delle aiuole della villa e li leggevamo. Un libro in particolare leggemmo più volte: I ragazzi della via paal. Boka, il capo dei ragazzi della via paal, l’unico che aveva il grado di generale, ci sembrava un bambino meraviglioso: coraggioso, intelligente, buono e “duro” al tempo stesso, che oltre a saper pensare per sé, sapeva pensare anche per il gruppo. Leggevamo un capitolo de'“I ragazzi della via paal” e poi giocavamo ispirandoci alla storia o prendendo spunto da essa. Credo che fu il primo libro che studiammo a fondo.
C’era sempre qualcuno di noi che svolgeva il ruolo di sentinella. I più piccoli, naturalmente, come è giusto. Ed erano davvero contenti quando, durante il turno, scrutavano da lontano il guardiano della villa che si avvicinava verso di noi, davano l’allarme e consentivano a tutti di scappare. Ovviamente, per i nostri piccoli il bambino ideale era Nemecsek, l’unico soldato semplice de'“I ragazzi della via pal”.
“Il guardiano della villa” era sempre in agguato o almeno noi così ci rappresentavamo la situazione. Egli si era dato il compito (invero era uno dei suoi compiti istituzionali) di impedire il passaggio e la sosta nelle aiuole. Lo scontro tra noi e il guardiano esisteva veramente; era l’unico adulto al quale non portavamo rispetto. Preferivamo giocare nelle aiuole, anziché sull’asfalto della piazzetta. E poi la corse delle mille siepi, gli alberi rifugio sui quali stavano le nostre capanne, il calore e il profumo dell’erba sulla quale ci sdraiavamo a leggere i libri della biblioteca… tutto implicava che noi giocassimo nelle aiuole. Lo scontro, dunque, non fu immaginario ma reale, tanto che giungemmo a preparare una trappola di chiodi e vetri, coperti da fogliame, per il motorino del nostro nemico (un onesto operaio del comune). Quel giorno, ingenuamente, finito il turno del povero cristo, ci avvicinammo, per vedere se si era accorto della trappola. Ed egli apparve da dietro un albero con un palo della staccionata in mano e ci venne incontro correndo. Fuggimmo; ma nella fuga mio fratello fu colpito in piena schiena dal bastone lanciato dal guardiano. Naturalmente mio fratello tenne nascosti a mia madre e mio padre il dolore e l’episodio. Sapevamo che la lotta contro il guardiano era una lotta di ragioni (le nostre) contro ragioni (le sue). E non avevamo alcuna stima di quei bambini che, tradendo un patto implicito ma fondativo, immischiavano i genitori nelle faccende dei bambini. Chi peccava avrebbe avuto poca stima ed amicizia ed avrebbe dovuto attendere, penare, piangere e dimostrare coraggio come Gereb ne'“I ragazzi della via paal” per essere riammesso e perdonato.
Le partite di pallone, in estate, duravano anche cinque o sei ore, dalle 14,30 alle 20,30. Ma anche qui la strada imponeva oneri e vincoli. Se i ragazzi più grandi che frequentavano il chioschetto della villa decidevano di giocare sulla piazzetta, sceglievano uno o due di noi (in genere i più grandi, tra i quali c’ero io) e pretendevano non soltanto che stessero in porta – i prescelti erano, nel fondo, veri e propri sequestrati, anche per parecchie ore – ma anche che parassero bene. Per fortuna, accanto ad alcuni ragazzi grandi (per noi coloro che avevano più di dodici anni non erano più bambini) che non ci rispettavano ve ne erano altri, ed erano la maggioranza, che ci confortavano, ci difendevano dai primi e ci facevano i complimenti. In ogni caso i sequestrati erano quasi sempre contenti di fare obbligatoriamente il portiere nella partita dei ragazzi grandi.
Ci ripetevamo sempre la massima appresa da mio padre: non dovevamo essere prepotenti con nessuno; ma se avessimo incontrato un prepotente dovevamo sapere che chi mena prima mena sempre due volte. Il cameratismo, poi, era assoluto (non abbiate paura del termine cameratismo: è un termine bellissimo, che utilizzava spesso anche Che Guevara). Perciò tutte le volte che un bambino, che magari conoscevamo ma che comunque non era dei nostri, si comportava con prepotenza con uno o altro dei nostri piccoli, c’erano due o tre di noi che si sentivano in dovere di intervenire. Se quei due o tre guerrieri non erano presenti sul posto, qualcuno correva immediatamente a chiamarli. E ricordo in più occasioni corse di un centinaio di metri, ma anche di qualche centinaio se il guerriero si trovava fuori delle villa, per giungere sul luogo della sfida. Confesso che ero molto orgoglioso del mio ruolo di guerriero, ruolo che invero fu intaccato da una umiliazione ricevuta da uno zingaro, quattro anni più grande di me, senza che io opponessi alcuna resistenza. Non sono pochi, e anzi sono parecchi, i conoscenti che oggi saluto e persino gli amici incontrati per la prima volta facendo “a botte” contro di loro.
Ognuno di noi, credo, si ferì gravemente almeno una volta ed ebbe bisogno di punti di sutura. Io caddi da un muretto sopra un filo spinato (nove punti sulla natica destra); da un rimorchio di un camion: appartenevo alla squadra che doveva riuscire a salire sul rimorchio; colui che mi spinse giù apparteneva, invece, alla squadra che stava sul rimorchio e che doveva impedire il nostro obiettivo (tre punti in testa); da un cancello che stavo scavalcando mentre altri mi tirava giù per i piedi (altri due punti in testa); e da una credenza sulla quale mi ero arrampicato (altri due punti). Mio padre mi dice sempre che purtroppo sono “caduto da piccolo”; ma sono andato sempre fiero di quelle conseguenze caratteriali che egli scherzosamente imputa alle mie cadute.
Nonostante i nostri giochi fossero pieni di pericoli e di scontri con adulti e con altri bambini, i genitori non si preoccupavano per noi. I più sfortunati del nostro gruppo avevano il comando di farsi vedere ad una certa ora. Per esempio alle 17,00 per la merenda. O quello di non allontanarsi dalla villa. Ma tutte le volte che era necessario uscivano con gli altri dalla villa nel primo pomeriggio, tornavano soltanto all'ora di cena (per esempio quando salivamo sul monte Salviano) e affrontavano con coraggio il rientro a casa, che per alcuni voleva dire botte, anche da orbi. Rientravano nella certezza di prendere una scarica di legnate. Ma non era un problema.
Consapevolmente o meno, i nostri genitori ci stavano educando allo spirito di Boka. Il bullismo si combatte soltanto facendo conoscere, ammirare ed desiderare ai bambini lo spirito di Boka, che poi non è altro dallo spirito di Ernesto Che Guevara ("La forza di un uomo sta nel reagire se un altro uomo viene colpito nell’orgoglio”; “ognuno di noi da solo non vale nulla”; "preferisco morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio" ).
Genitori! Dite ai vostri figli di rispondere agli atti di prepotenza; di attaccare all’improvviso il ragazzo più grande e prepotente e di colpirlo con tutta la forza che possiedono. Dite che devono imparare a farsi rispettare. Dite loro che non soltanto devono studiare ma devono anche essere i primi nel cameratismo. E se per caso venite a sapere che nella classe frequentata da vostro figlio alcuni bulli hanno picchiato o umiliato un bambino debole, per esempio un down, esclamate a vostro figlio: “E tu sei rimasto a guardare? Ma allora sei un verme! Mio figlio è un verme! Guarda cosa mi doveva capitare!”. Soltanto così adempirete il vostro sommo dovere di educare. Leggete ai vostri figli “I ragazzi della via paal” e, se non lo avete letto, leggete voi stessi questo meraviglioso libro per ragazzi. Quando saranno grandi, i vostri figli saranno molto probabilmente ciò che sono stati da piccoli.
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