Intervista a Giuseppe Mazzini
di Giancarlo De Cataldo
L’autore di “Romanzo Criminale” ha incontrato a Londra uno dei Padri dell’Unità O meglio, ha immaginato di incontrarlo. Per farsi raccontare un po’ di storia del Paese. Con una domanda finale: ma lei era un terrorista?
Una stanza a Londra, un pomeriggio d’inverno. Mazzini veste di nero e ha un sigaro fra le mani, o fra i denti. E, di tanto in tanto tossisce. Le cronache tramandano che Mazzini aveva una voce profonda e roca. Mazzini ha anche una chitarra, al regista la scelta se lasciargliela toccare: le cronache tramandano che era un eccellente chitarrista.
Intanto Maestro, lasci che la ringrazi per aver accettato di concedermi questa intervista. So che lei un uomo molto impegnato…
“Un tempo, forse, ma ora… non ci faccia caso, a volte sono soggetto a sbalzi di umore. Come tutti noialtri italiani, se è lecito iniziare con una battuta. Questo è uno di quei momenti. Mi ponga dunque pure le sue domande…”.
Maestro, perché lei veste sempre di nero?
(Ridacchia) “ Una domenica di Aprile… avevo 16 anni, a quel tempo… passeggiavo con mia madre in Genova, nella Strada Nuova. L’insurrezione piemontese era in quei giorni stata soffocata da tradimento, dalla fiacchezza dei capi… e dall’Austria… Gli insorti si affollavano, cercando salute al mare, erano poveri, vagavano, in cerca di un passaggio per la Spagna dove la rivoluzione pareva invece trionfare… La popolazione era commossa. Ma non vi erano né armi né mezzi per procedere con l’insurrezione. Non rimaneva che soccorrere di denaro quei poveri e santi precursori dell’avvenire. Un uomo di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con uno sguardo scintillante che non ho mai dimenticato, s’accostò a un tratto fermandoci. Aveva fra le mani un fazzoletto bianco spiegato e disse solo queste parole: per proscritti d’Italia. Mia madre versò alcune monete. Lo vidi andar via, orgogliosamente, a capo alto. Quel giorno fu il primo in cui s’affacciasse confusamente all’anima mia non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva, e dunque doveva, lottare per la libertà della Patria… Giurai a me stesso che avrei indossato sempre e soltanto abiti di colore nero. Finché l’Italia non fosse stata finalmente una, libera, indipendente. E repubblicana (colpo di tosse, risatina amara). E forse è per colpa di quest’ultima precisazione che, quando ho lasciato questo mondo , vestivo ancora di nero …”.
Ma, dopo tutto, l’Italia era stata fatta…
“ Si, in un certo senso. Ma non era la “mia” Italia!”.
Quando e come iniziò a cospirare?
“Un amico mi introdusse alla Carboneria. Fui condotto una sera in una casa presso San Giorgio, dove trovai ad iniziarmi un tal Raimondo Doria. Mi disse subito che le persecuzioni e le spie sconsigliavano cerimonie lunghe e riti simbolici. Mi disse di piegare un ginocchio e snudato un pugnale mi recitò e mi fece ripetere la formula del giuramento di Primo Grado, comunicandomi uno o due segni di riconoscimento fraterno. Eccomi diventato carbonaro. L’amico che mi aveva introdotto si felicitò con me, e poi mi disse, con una certa enfasi, che mi era stata risparmiata la prova più ardua. Che consisteva nel dare all’aspirante una pistola, intimargli di puntarla alla tempia e di farsi saltare le cervella. Che razza di prova, pensai. Dissi al mio amico che se me l’avessero proposta, li avrei mandati… si, insomma, avrei ricusato. Proprio così. O era un trucco, una farsa indegna di un momento così nobile, ovvero ci si doveva davvero suicidare per la causa, e in tal caso era assurdo che un uomo chiamato a combattere per il suo Paese iniziasse dallo sparpagliarsi quel po’ di cervello che Dio gli aveva dato. I miei rapporti con la Carboneria non furono mai eccelsi. Occorreva qualcosa di diverso, per fare l’Italia”.
E precisamente ?
“La Giovine Italia. Che conteneva già, sin dalla denominazione, i due fari della mia generazione di allora. La giovinezza. E l’Italia, il sogno di ciascuno. In pochi anni l’associazione poteva contare su migliaia di affiliati …”.
Merito del suo carisma, Maestro?
“Merito dell’ideale, amico mio” (arpeggio di chitarra).
Maestro è vero che lei attentò alla vita di Carlo Alberto?
“Attentare non è la parola giusta. Direi, piuttosto, che sono sempre stato convinto che il regicidio, l’abbattimento del tiranno oppressivo, siano necessità ineluttabili per un popolo che aneli alla liberazione …“
Si, ma Carlo Alberto …
“Gli avevo scritto una nobile lettera, esortandolo a porsi a capo del movimento di liberazione nazionale.
Sembrò inizialmente consentire. Ma era solo un trucco. Fece venire allo scoperto i patrioti, e li represse, con inusitata ferocia, maggiore, persino, di quella degli Austriaci. E tuttavia, la punizione non era il mio scopo principale. Vi erano altre necessità, più urgenti, che farla pagare a un sovrano fellone. La spedizione in Savoia, per esempio … Tuttavia, accadde un fatto. Mi si presentò all’Albergo della Nazione in Ginevra una sera, un giovine ignoto. Era portatore di un biglietto di Melegari, che mi raccomandava con parole più che calde l’amico suo; il quale era più che fermo di compiere un alto fatto e voleva intendersi meco. Il giovine era Antonio Gallenga. Veniva dalla Corsica. Era un affratellato della Giovine Italia. Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni aveva deciso di vendicare il sangue dei suoi fratelli e di insegnare ai tiranni, una volta per sempre, che la colpa era seguita dall’espiazione ch’ei si sentiva chiamato a spegnere in Carlo Alberto il traditore del ’21 e il carnefice dei suoi fratelli; che egli aveva nutrito l’idea nella solitudine della Corsica, finché si era fatta gigante e più forte di lui. E più altro. Obiettai, come ho fatto sempre in simili casi; discussi, misi innanzi tutto ciò che poteva smuoverlo… Rispose a tutto, e gli occhi gli scintillavano mentr’ei parlava; non importargli la vita: non s’arretrerebbe d’un passo. Compiuto l’atto, griderebbe “viva l’Italia”, e aspetterebbe il suo fato. I tiranni osar troppo, perché sicuri dell’altrui codardia, e bisognava rompere quel fascino: sentirsi destinato a quello. Si era tenuto in camera un ritratto di Carlo Alberto; e il contemplarlo gli aveva fatto più sempre dominatrice l’idea. Finì col convincermi, che egli era uno di quegli esseri le cui determinazioni stanno tra la coscienza e Dio e che la Provvidenza caccia, da Armodio in poi, di tempo in tempo sulla terra, per insegnare ai despoti che sta in mano di un uomo solo il termine della loro potenza. E gli chiesi che cosa volesse da me. “Un passaporto e denaro”. Gli diedi mille franchi e gli dissi che avrebbe avuto un passaporto in Ticino. Gallenga partì. Poi, decisa la data dell’attentato, da Torino mandarono un altro adepto. Un tale Sciandra. Mi chiese un pugnale. Accennai con lo sguardo un pugnaletto col manico di lapislazzuli, che mi era carissimo, stava sul mio tavolino. Sciandra lo prese, e partì … “.
L’attentato fallì …
“Non ci fu nessun regicidio, in quel caso. Gallenga si tirò indietro. Sarebbe finito grande giornalista. E Melegari, l’organizzatore, ministro di Cavour… A saper manovrare bene, si fa spesso carriera, in Italia …”.
Ho qui una sua lettera, Maestro, permette che gliela legga?
“Faccia pure, ne ho scritte tante …”.
(Leggendo): “Se quel colpo di Procida non va, è una grande delusione, e ci fa un gran male. Vi è il Duca di Modena a Torino. Procida e il Bazzi farebbero pur bene! Ma oggimai dispero di tutti, fuorché di noi a fare fatti … (…) temo forte che Giano della Bella sia arrestato… temo pure che Procida sia infiacchito; e temo che il tempo perduto gli costi caro. Il suo segreto già in mano di cinque, e non per me, ma per lui, per sua volontà, ed una piccola vanità che mi par non dovrebbe allignare in un animo come il suo… ho provveduto già e parte un individuo per Torino da qui dove sono. Credo si deciderà: ma nol può ora sino al 14. Dio ci aiuti! Che tutto abbia a sfumare, tutto?” (finisce di leggere) . Procida dovrebbe essere il nome di battaglia di Gallenga, dunque… Si direbbe , Maestro, che lei progettasse un doppio attentato simultaneo, a Carlo Alberto e al Duca di Modena …
(Lo ignora, piccato) “In quei giorni mi occupavo della spedizione in Savoia. Avevo raccolto molti fondi. Ma affidammo il comando a Ramorino, un incapace, e la spedizione fallì…”.
Fu, se non erro, il battesimo del fuoco di Garibaldi …
“In un certo senso…”.
Mi parli di lui, del Generale …
“Un amico, un ottimo amico, un sincero patriota”.
Per anni non vi siete parlati, però!
“Succede a persone che sono vicine e poi si ritrovano a divergere su elementi, diciamo così, tattici…”.
Vale lo stesso per Cavour?
“Anche lui a modo suo era un sincero patriota”.
Ma se lo fece condannare ripetutamente a morte!
“Faceva parte della sua visione del mondo. Una visione profondamente differente dalla mia”.
Cerchi di spiegarsi, Maestro!
“Sarò sintetico, mio giovane amico. Cavour ha sempre detestato l’umanità, sia nel complesso che come somma di individui. Io, dal mio canto, l’ho sempre amata. Cavour non si aspettava nulla dai propri simili, il che lo metteva al riparo da pericolose delusioni. Io mi aspettavo troppo da loro, e di delusioni ne ho collezionate tante, nella mia vita”.
Che cosa accade dopo il fallimento in Savoia?
“Raggiunsi Londra. Vi approdai nel ’37, l’ho salutata per l’ultima volta nel ’70. Mi allontanavo da Londra soltanto quando la mia presenza era necessaria sul teatro delle operazioni, in Italia, o in Svizzera, talora in Francia. Sono nato in Italia ma la mia patria, se mai ne ho avuta una, è Londra”.
Insomma gli inglesi la accolsero come uno di loro…
“Dietro l’apparente freddezza dei modi e l’ossessione della Privacy, gli inglesi mascherano una qualità indiscutibile: un profondo rispetto per l’Altro. In quel tempo, a Londra c’ero io, c’era Herzen, Worcell, c’erano Marx e Bakunin, c’era, insomma, il Gotha dell’eversione. E tutti vivevamo liberi, e indisturbati. Una tradizione di accoglienza che mi scalda il cuore, ogni volta che ci penso. Così come il mio cuore si fa piccino quando penso alla meschinità di certi italiani…”.
Allude ancora a Cavour?
“Parlo di certi italiani di oggi, ahimè miei compatrioti…”.
Lasciamo perdere, non siamo qui per questo…
“E per che cosa, allora?”
(Pausa, imbarazzato) Maestro, è vero che lei sapeva sempre tutto di tutti i potenti prima che loro sapessero di lei?
(Compiaciuto) “Prima è forse troppo, in contemporanea corrisponde al vero … Sì, sapevo. Disponevo di uomini e donne fedeli, sovente benissimo inseriti nei livelli più alti di amministrazioni ostili, i quali mi onoravano della loro fiducia”.
Lei era a capo di una massoneria?
“Non sono mai stato massone, anche se, comprendo, la negazione fa parte essa stessa dello stile di quella associazione… No, non lo sono mai stato. Ho troppa fede in Dio, l’unico e giusto Dio, per potermi concedere il lusso di un qualche grande architetto… tuttavia, fra noi c’è stata leale collaborazione. Quella massoneria ha giocato un ruolo decisivo nell’Unità del nostro Paese, non dimentichiamolo…”.
Insomma, non era massone ma aveva il suo servizio segreto. Mi racconta quella della lettera al Papa?
(Ridacchia) “Bah, povero Pio IX! Pensi alla sua sorpresa quando si ritrovò quella missiva sotto il … insomma, ci si sedette letteralmente sopra… e nella sua carrozza ufficiale, per giunta…”.
Ma come fu possibile?
“Non mi pare il caso di rivelare certi metodi segreti. Potrebbero tornare utili, in altre occasioni…”.
Maestro, lei fu mai socialista?
“Per carità! Io non accuso la vasta idea sociale, che è gloria e missione dell’epoca, della quale noi siamo precursori. Io accuso i socialisti, i capi segnatamente, d’aver falsato, mutilato, ringrettito quel grande pensiero con sistemi assoluti, che usurpano a un tempo sulla libertà dell’individuo, sulla sovranità del Paese e sulla continuità del progresso, legge per tutti noi… li accuso di aver sostenuto che la vita ricerca di felicità, mentre la vita è una missione, il compimento di un dovere. Li accuso di aver fatto credere che un popolo può rigenerarsi impinguando, d’aver sostituito al problema dell’umanità un problema di cucina dell’umanità. Di aver detto: a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, invece di bandire altamente ad ogni ora: a ciascuno secondo il suo amore, a ciascuno secondo i suoi sacrifici…”.
Amore, sacrifici… Non le pare un po’… astratto?
“Lo diceva anche il povero Pisacane”.
Che cosa ha pensato quando Marx le ha dato del somaro?
“Chi vivrà vedrà, professor Marx, mi sono detto”.
Le leggo una sua frase: “Gli italiani non sono che troie. Non si può contare su di loro”. Non le pare un po’ eccessivo?
“Avevo perso le staffe, lo ammetto. Volevano convincermi che la rivolta di Calabria del ’44… ha presente i Fratelli Bandiera… era fallita per ragioni … sentimentali… gli italiani hanno sempre avuto il potere di farmi perdere le staffe. In questo Cavour e io eravamo simili. Anche lui a volta perdeva le staffe, e in quei momenti sembrava persino un essere umano!”.
Maestro, le viene mai il sospetto che la sua attività, rivista alla luce del pensiero di oggi, possa apparire… possa essere giudicata… terrorismo?
(Ispirato) “Vi sono nella vita dei popoli, come in quello degli individui, momenti supremi, nei quali si decidono le orti di un lungo avvenire… e la nazione oscilla incerta nella scelta e cerca una norma nella propria azione. Allora ogni uomo ha diritto di chiedere all’altro: in che credi? E a ogni uomo corre debito di rispondere: questa è la mia fede, su questa giudicherete l’opera mia…”.
(Interrompe) Si, ma gli attentati a Napoleone III… Tibaldi, Pianori, i progetti di far saltare il Vaticano e il Quirinale, la Compagnia della Morte, la Falange Armata…
“Che altro dovevamo fare, se non impugnare le armi? Sognavamo una missione storica, universale per l’Italia. Non grettezza e affarismo, ma una guida luminosa per il mondo intero. Pace, libertà, prosperità. Uguaglianza totale e assoluta dei diritti fra uomini e donne. Suffragio universale. Libertà di culto, ma divieto assoluto per la Chiesa di ingerirsi negli affari dello Stato. Dignità sul lavoro, divieto di lavoro per i fanciulli, istruzione obbligatoria per chiunque sino all’età di diciotto anni… I nostri sogni, ed erano sogni di giovani, cozzavano contro la mentalità ottusa e antiquata dei tiranni. Dovevamo liberarcene. Ogni movimento di liberazione nazionale esige i suoi martiri, e la sua quota di violenza”.
Un’ultima domanda, Maestro: che cosa prova quando passa per una delle innumerevoli Via Mazzini, Piazza Mazzini d’Italia?
(Amaro) “Vedo un uomo di bronzo o di marmo, meglio se sotto forma di busto, con una rada barba ben curata, il volto affilato, l’occhio acceso (per quanto acceso possa essere l’occhio di una statua), una palandrana di colore scuro, il profilo nobile del Padre della Patria. Vedo passare la gente. E perdo le staffe. L’Italia che avevo in mente io era tutta un’altra cosa, l’Italia che avevi in mente io era un paese fraterno, civile, accogliente, un faro di cultura e di tolleranza per tutti i popoli… Smettetela di pensare a me come a una vestale frigida, un sepolcro imbiancato, un vecchio tetro e vagamente noioso, mezzo prete e mezzo esaltato. Le polizie di mezzo mondo mi davano la caccia. I potenti della Terra mi temevano come la peste. Perdo le staffe, e mi viene una gran voglia di ricominciare da dove ho abbandonato. Una gran voglia di rifare l’Italia. Ma di rifarla bene, questa volta”.
Fonte IL VENERDI’ di Repubblica (20.8.2010)
Un ipotetico giornalista un pochino di parte questo, fa le domande alla Marzullo, o peggio alla Vespa e alla Emilio fede.
Come mai Signor Giornalista non chiede a Mazzini i suoi rapporti con la "Giovane America", o con Albert Pike, o meglio ancora con la "M.A.A.F.I.A.? e poi la scuola di massoneria con in testa il capo Lord Palmerston?
E, poi, Visto che non era un massone come mai sin dall'età dei 23 anni pensava alla Roma dei popoli concependo una Europa Unita, con l'ausilio della Giovane America, per portare a compimento la prima idea di un Nuovo Ordine Mondiale?
Mazzini era ossessionato dall'idea di un potere mondiale, Albert Pike era un Massone di 33° grado appartenente ai Cavalieri del Circolo d'Oro, ed insieme ad altri Massoni anelavano per tre guerre mondiali per prenderne la supremazia, cosa che non dispiaceva di certo a Mazzini, altroché avere "Una gran Voglia di rifare l'Italia questa volta fatta bene":
Ecco, se io fossi stato quel giornalista, le avrei fatto queste domande e tante altre riguardo ai suoi amici discutibili e qualche volta assassini.
Wlady
Caro Vlad,
a mio avviso sono due profili diversi.
Una cosa è stabilire se ciò che dichiara Mazzini nella ipotetica intervista ha valore e ci può essere d'aiuto. Una cosa è stabilire se sono vere le cose che tu affermi e come devono essere valutate.
Sul primo profilo tu, seguendo le orme di Minzolini e Fede, hai taciuto. Può darsi che non ti interessi. Ma allora perché il profilo a te caro dovrebbe interessare ad altri?
Il problema posto dll'"intervista" è se ciò che dice Mazzini ha valore o meno. Quando avrai preso posizione, potremo parlare, eventualmente, del profilo a te caro. E' chiaro che se non siamo d'accordo sulla premessa – ciò che dichiara Mazzini in questa ipotetica intervista ha valore e deve essere oggetto di attenzione e di riflessione – non ha molto senso riflettere sulla diversa valutazione di altri elementi.
Ma piantiamola! La massoneria era all'epoca a) uno strumento di comunicazione e contatto infra-personale indispensabile tra persone catalogate come "sovversive", soprattutto nel mefitico e soffocante contesto dell'Europa post-Restaurazione: era una rete clandestina di rapporti fra persone di estrazione e provenienze molto diverse. b) qualcosa di vagamente simile ad una cospirazione di estrema sinistra, portatrice di idee e valori dirompenti rispetto al conformismo autoritario dell'epoca. Di che stiamo parlando?
Mazzini era davvero ossessionato dall Ordine Mondiale del suo tempo, l'ordine imposto dalla Santa Alleanza. Mazzini desiderava l'instaurarsi di una pacifica comunità di repubbliche nazionali indipendenti, equi-ordinate, sovrane, libere, prospere. Come si fa a non capire che questo programma, questo e non altro, è la vera alternativa sia all'unitalertismo americano, che tutt'ora ci opprime, sia al multipolarismo imperialista che ci attende!