I sovranisti sono avanti di trent'anni
di SIMONE GARILLI (FSI Lombardia)
Fino a qualche tempo fa i pochi che osavano dichiarare obsolete le categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’ venivano derisi o emarginati. Oggi invece The Economist, bibbia degli entusiasti della globalizzazione, si spinge a sostenere che c’è una nuova divisione politica che attraversa entrambe le categorie. La divisione è tra chi vuole un mondo ‘aperto’ e chi ne vuole uno ‘chiuso’.
Naturalmente, sin dall’immagine in cima all’articolo, gli ‘aperti’ sono presentati come persone tolleranti, amichevoli, civilizzate e al passo con i tempi, mentre i ‘chiusi’ sono i retrogradi incattiviti che si oppongono al progresso. Ideologia. Ma non è questo il punto. Il punto è che la crème della crème dei liberali arriva alle conclusioni delle prime associazioni culturali sovraniste circa 30 anni dopo esse. All’Economist, che detta la linea, seguiranno pian piano tutte le macro e micro galassie del sistema liberale, dal centro-destra anti-statalista e ‘moderato’ alla estrema sinistra ecologista, antagonista e libertaria, passando per il centro-sinistra ormai definitivamente liberale e liberista, che guida il gruppo in molti degli Stati occidentali.
Di associazioni sovraniste che aspirino a diventare partiti, invece, ne stanno nascendo molte da almeno 5 anni, e con intensità frequente man mano che passa il tempo. Da ancora più tempo circolano riviste, scritti di divulgatori avanguardisti e di singoli intellettuali – regolarmente emarginati dal circuito ufficiale – che riflettono sui danni economici, sociali, culturali e politici della cosiddetta globalizzazione, e lavorano per costruire una resistenza, innanzitutto culturale, ispirata dal principio politico della sovranità nazionale.
Per limitarci ad un esempio, la rivista Indipendenza, che ha ospitato molti dei suddetti autori emarginati dal dibattito pubblico (emarginati soprattutto dai paladini della nuova sinistra liberale e globalizzata) nasce nel 1986, 30 anni fa esatti.
Si può quindi dire che i sovranisti, a livello teorico, cioè di analisi storica e di fase, sono avanti di 30 anni sui liberali, di destra e di sinistra.
Naturalmente non mi riferisco agli architetti del (neo)liberalismo – ossia le classi dirigenti liberali di destra e di sinistra che da 40 anni governano il mondo – perché essi sono avanti a tutti per definizione, avendo stravinto la loro guerra contro il sistema costituzionale dei Trenta Gloriosi, ed imponendo da diversi decenni la loro ideologia e il loro quadro giuridico alle popolazioni dell’Occidente, e non solo.
Mi riferisco, invece, al cosiddetto ‘popolo’ della destra moderata e soprattutto a quello della sinistra (di governo e di fumosa opposizione), i quali negli ultimi anni hanno dato fiducia a classi dirigenti che non rappresentavano nemmeno da lontano i loro stessi interessi. Ad essere molto indietro, rispetto ai sovranisti di ogni provenienza, sono quindi i ‘cittadini del mondo’, i piccoli e medi imprenditori anti-statalisti ed esterofili, i professionisti piccolo-borghesi che emanano ideologia globalista da tutti i pori, e persino una componente significativa di lavoratori dipendenti, che sulle note del sogno americano si sono messi a ballare ad una festa che non era stata organizzata per loro, e nella quale erano stati invitati come vittime sacrificali.
Ancora oggi una buona parte di questi elettori globalizzati, appartenenti ai piani alti della ‘classe media globale’, non ha capito che la globalizzazione – intesa come spaventoso arretramento materiale e spirituale – sta arrivando anche per loro.
Tuttavia se l’Economist ha deciso, 30 anni dopo, di accettare la diagnosi dei primi sovranisti, significa che questa popolazione di idioti globalizzati si sta velocemente assottigliando e bisogna correre ai ripari. Con l’uscita ufficiale dell’Economist si può dire che le élite liberali hanno convenuto di iniziare a preparare una guerra a viso aperto verso quei nemici giurati che non possono più ignorare: i sovranisti.
Sono questi ultimi gli unici oppositori che le élite liberali temono sul serio, per la semplice ragione che hanno correttamente interpretato la nuova fase storica iniziata, a spanne, alla metà degli anni Settanta.
Dunque, siamo avanti. Si tratta di organizzarsi, moltiplicarsi, e poi combattere un nemico che pian piano stiamo costringendo ad identificarsi. Un conflitto in campo aperto è più rischioso, ma anche foriero di maggiori opportunità di offendere.
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