Se finisse il M5S
di ALESSANDRO GILIOLI
C’è una vecchia teoria di Wu Ming, sul Movimento 5 Stelle. Secondo la quale «il M5S amministra la mancanza di movimenti radicali in Italia: c’è uno spazio vuoto che il M5S occupa per mantenerlo vuoto. Nonostante le apparenze e le retoriche rivoluzionarie, è un efficiente difensore dell’esistente, una forza che ha fatto da tappo e stabilizzato il sistema: una grossa quota di “indignazione” è stata intercettata e organizzata da Grillo e Casaleggio in un franchise politico/aziendale con tanto di copyright e trademark, che raccatta e ripropone rivendicazioni e parole d’ordine dei movimenti sociali, ma le mescola ad apologie del capitalismo “sano”, in un programma confusionista dove coesistono proposte liberiste e antiliberiste».
In sostanza, secondo Wu Ming se in Italia non esiste una forte sinistra radicale – di movimento e saldamente intrecciata nel tessuto sociale delle classi subalterne – questo sarebbe anche a causa del Movimento 5 Stelle, che incanalerebbe il dissenso sociale in se stesso per poi svuotarlo, renderlo innocuo.
Se questa tesi fosse vera, chi è di sinistra in Italia avrebbe solo da gioire della crisi del Movimento 5 Stelle, delle sue ultime difficoltà e pessime figure.
C’è però anche la tesi opposta, quella che ha sempre sostenuto Grillo: secondo la quale senza il M5S in Italia avremmo invece percentuali altissime a oggetti putridi tipo Le Pen, o i nazisti tipo in nordeuropea, o i vari nazionalismi identitari in crescita ovunque.
Non credo, per tanti motivi, che il M5S oggi stia implodendo, nonostante i pasticci fatti, le bugie raccontate e Di Maio che non sa leggere le mail.
Ma se invece sparisse – o si riducesse a poca cosa – che cosa succederebbe?
Nell’esercizio di fantapolitica, bisogna premettere che da qualche parte comunque lontana dall’establishment, il dissenso sociale andrebbe.
Voglio dire: l’establishment filogovernativo e i suoi house organ soffiano sulla crisi dei grillini convinti che questi siano ancora competitor del Pd o del centrodestra nella spartizione del consenso, dei voti. Quindi il ragionamento, intuitivo ed elementare, è: insistendo sulle loro cazzate, perderanno voti e quei voti almeno in parte torneranno a noi.
Ecco, questo è – a mio avviso – un increscioso equivoco. I voti andati all’antiestablishment (così come molte altre fette di dissenso oggi dormienti nell’astensionismo) non tornano a casa, almeno non nel breve e medio termine.
Non ci tornano perché, appunto, non sono voti del M5S: sono voti contro l’establishment.
Sono voti contro l’impoverimento del ceto medio a fronte di una piccola élite sempre più ricca.
Sono voti contro la sparizione del lavoro e contro la precarizzazione acrobatica del reddito; sono voti contro la banca che non ti dà il mutuo, contro Equitalia che ti manda la cartella gonfiata d’interessi e gabelle, contro l’Inps che ti comunica in una busta arancione che lavorerai 50 anni per una pensione da fame, contro il medico che se hai il cancro ti opera tra otto mesi a meno che non vai nella sua clinica privata.
Sono voti contro un’ideologia che ha promesso un modello di benessere crescente – nel quale addirittura sarebbe “finita la storia” – e che ci ha invece ammannito il primo secolo nel quale i nuovi adulti sanno, incontrovertibilmente, che staranno peggio dei propri genitori.
E dove andrebbero, se per ipotesi finisse il M5S, quei voti lì, o almeno quella parte di voti lì che oggi va al M5S, al punto da farlo diventare il primo partito nei sondaggi, al punto da prendere due terzi nella capitale d’Italia?
Dove andrebbe il voto del mio barista incazzato che al primo turno era incerto tra Raggi, Fassina e Meloni pur di “mandare casa” chi c’era prima? Dove andrebbe il voto di quel tizio che ho incontrato fuori dal seggio e che ho sentito dire alla moglie: «Gliel’ho messo nel culo al Comune, gliel’ho messo nel culo al municipio e se se votava per il condominio glielo mettevo nel culo anche lì»?
Si libererebbe davvero lo spazio per una sinistra contemporanea, affrancata dai residuati cognitivi degli anni Settanta, capace di capire le forme nuove della dialettica alto/basso, in grado di rappresentare gli esclusi dalla greppia, di parlare di post-lavoro e di cittadinanza? O al contrario da quelle parti non nascerebbe nulla e il dissenso sociale andrebbe tutto verso un’edizione italiana del Fronte Nazionale o del trumpismo, chissà se capeggiata da Meloni o Salvini? Oppure la democrazia si svuoterebbe definitivamente con un astensionismo oltre il 60 per cento? O ancora prenderebbe il potere un nuovo tycoon carismatico, per ripetere in farsa la tragedia che è stata Berlusconi?
Al contrario di Wu Ming e di Beppe Grillo, io a questa domanda ipotetica non so rispondere con certezza.
So solo che quei voti non tornano più indietro, con buona pace dell’Unità e del Messaggero, cioè dei loro azionisti.
So infine che che ognuno di noi nel suo piccolo – nel suo quartiere reale o digitale – ha il dovere di condurre una battaglia di idee, di civiltà e di eguaglianza qualsiasi cosa accada, quale che sia lo scenario che si staglierà, con o senza M5S.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/09/08/se-finisse-il-m5s/
Visti anche i fatti recenti la riflessione è opportuna. Di teorie come quella di Wu Ming ne esistono diverse, la tesi di Grillo ovviamente è molto interessata. L’unica cosa certa, concordo con l’autore, è che i voti non torneranno semplicemente agli altri partiti esistenti. A chi andranno? Dipenderà dall’evoluzione delle forze politiche se queste saranno in grado di intercettare i delusi o gli stessi andranno ad ingrossare le file dell’astensionismo. Una cosa deve essere chiara però la distanza tra le promesse delle varie forze e le loro azioni concrete è grandissima e questo rende più difficile la formazione di alternative.