Federico Caffè sul rischio di «germanizzazione» economica dell'Italia
Da un tavola rotonda con F. Caffè, A. Lettieri, N. Cacace, M. D’Antonio, L. Frey, P. Leon, F. Vianello, nell’ambito di un seminario sulla contrattazione (in «Sinistra ’78», n. 5-6, ottobre 1978).
Introduzione di Antonio Lettieri
È in corso un attacco non solo all’autonomia del sindacato, ma al suo ruolo di contrattazione. Uno dei punti centrali della relazione del governatore della Banca d’Italia è l’attacco alla scala mobile. Nelle 24 ore successive, il professor Andreatta ha rincarato la dose, coinvolgendo nell’attacco anche la contrattazione aziendale. Il governo, attraverso i disegni di legge di Scotti, interviene sui contratti e pretende di annullare i risultati dei contratti nazionali e aziendali: è questo infatti il senso del disegno di legge sui rapporti tra contingenza e scatti. E l’orientamento generale del governo, esposto nel famigerato «libro bianco» del Ministero del Lavoro, spiega che le piattaforme di rinnovo dei contratti delle categorie debbono avere una sorta di «visto di conformità» preventivo.
Tutto ciò pone dei problemi che non possiamo risolvere in modo semplice, perché si intrecciano questioni di analisi economica, di cultura economica, di alternative difficili da trovare.
Io vorrei enunciare tre questioni, su cui chiedere un contributo ai nostri interlocutori in questa tavola rotonda: mi limito a porle in forma schematica e sommaria.
La prima questione riguarda la politica di austerità. Il sindacato, e gran parte della sinistra «storica», a partire dal Pci, hanno accettato o addirittura proposto una politica di austerità vedendola come strumento per il cambiamento del meccanismo di sviluppo. A me pare ormai chiaro che invece questa politica di austerità si sta rivelando una trappola per il movimento sindacale: essa non ha avviato una modifica degli squilibri, e quindi una soluzione dei problemi più drammatici come l’occupazione e il Mezzogiorno; al contrario, essa usa la maggior produttività, il contenimento dei salari, l’intensificazione del lavoro, per rilanciare il vecchio meccanismo di sviluppo. Ecco allora la prima questione: è tempo di rimettere in discussione questa politica di austerità e di sacrifici, è necessario andare in un’altra direzione?
Una seconda questione: il rapporto di compatibilità dei rinnovi contrattuali, e in generale della politica del sindacato, rispetto agli obiettivi, definiti dal sindacato stesso ad esempio all’Eur: occupazione, Mezzogiorno, nuova collocazione dell’Italia nella divisione del lavoro internazionale. È un rapporto vero, o, al di là e dietro questi obiettivi dichiarati comunemente da sindacato e governo, il disegno vero della ristrutturazione capitalistica (che viene appoggiato dal programma del governo Andreotti, dalla relazione della Banca d’Italia) è un altro? Un disegno cioè che non tende alla soluzione dei problemi dell’occupazione, dei giovani, del Mezzogiorno, ma a un’altra cosa, che viene chiamata «europeizzazione»: cioè l’integrazione del sistema economico italiano in un’Europa che in pratica è dominata dalla nuova potenza tedesca. E non è forse questo tipo di integrazione internazionale del nostro Paese, e non le rivendicazioni dei lavoratori, che non è compatibile con la soluzione dei problemi dell’occupazione, del Mezzogiorno, ecc.? E non succede forse che la politica salariale, la politica di occupazione, la politica del lavoro diventano variabili dipendenti di una strategia di integrazione dell’Italia nell’area europea dominata dalla Germania? È quindi importante per noi cercare di capire qual è la linea, anche sul piano internazionale, lungo la quale si muove la ristrutturazione italiana.
La terza e ultima questione mi sembra sia questa: è possibile un’alternativa? Come possiamo muoverci, con quali lotte, verso un’alternativa? Porre oggi la questione dell’occupazione nel Mezzogiorno è uno slogan, è qualcosa di velleitario, o è un obiettivo che si può perseguire concretamente sul terreno della politica economica, cambiando la politica fiscale e la politica della spesa pubblica, avviando una riconversione dell’apparato industriale e produttivo? Qual è in sostanza un’alternativa credibile, per la quale battersi? Questo a livello generale: ma interrogativi analoghi si pongono in riferimento più specifico ai rinnovi contrattuali. Possiamo, con i contratti e al di là dei contratti, operare una forzatura in direzione dell’occupazione (in particolare per i giovani e il Mezzogiorno), intervenendo sull’orario di lavoro, sul mercato del lavoro, ribaltando una linea di subordinazione del movimento sindacale, con un respiro nuovo di proposte politiche e sindacali? Queste sono tre questioni centrali del nostro dibattito: su di esse chiediamo il contributo dei compagni che sono qui intervenuti.
Federico Caffè
È necessario svincolarsi dalle ricorrenti polemiche quotidiane, dal gioco delle parti secondo cui alcuni sono qualificati a proporre ricette, altri solo a condividerle o a confutarle. Mi rendo conto che nell’incalzante lavoro quotidiano accade proprio così: ci sono delle prese di posizione da parte dei responsabili delle decisioni politiche, ed è necessario farvi fronte anche per l’assillo immediato della pubblicistica, che insiste per una reazione a caldo sulle varie prese di posizione. Ma ciò, per quanto inevitabile, è di ostacolo alla costruzione, sia pure parziale, graduale, di un quadro di riferimento autonomo svincolato dalle polemiche contingenti. A spingere nella direzione di una progettualità autonoma mi sembra che dovrebbero contribuire varie considerazioni.
In primo luogo, la constatazione, ormai sin troppo evidente, dell’atteggiamento costante che la controparte padronale italiana assume nei confronti di qualsiasi concessione da parte sindacale. Vi è un persistente gioco al rialzo, che indurrebbe alla tentazione di chiarire, con un contratto notarile, cosa si vuole una volta per tutte. Ma in realtà, poiché ciò che la controparte vuole non si esaurisce in aspetti tecnico-contrattuali ma mira a mettere indietro le lancette della storia, anche il contratto notarile verrebbe contestato; il gioco al rialzo continuerebbe imperterrito.
In secondo luogo, la difficoltà a prendere sul serio le polemiche correnti deriva da uno stato, non so se di candore o di imprudenza, dei responsabili delle decisioni di politica economica. L’attuale Ministro del Tesoro ha fatto presente, di recente, come nel nostro Paese non ci si trova di fronte soltanto a un eccesso di spesa pubblica: «Si tratta», sono sue parole, «di una questione di fondi promessi, stanziati e poi non spesi, di cifre lasciate sulla carta, che non si sono mai tradotte in azioni». Ora, nel dire questo, come ci si può dimenticare del pregiudizio arrecato alla nostra economia dallo slogan della «spesa torrentizia», che in altri tempi ebbe la funzione di capro espiatorio che viene assegnata oggi alla scala mobile? Invano si cercò – contestualmente e non dopo gli eventi – di dimostrare che la spesa pubblica tutto era fuorché torrentizia.
In verità questo particolare vuole ricordare che nel nostro Paese vi è stata sempre una proposta alternativa, vi sono state sempre delle voci che si sono discostate, non per partito preso ma per meditata riflessione, dalle liturgie abituali. Purtroppo questa progettualità alternativa non ha mai trovato ascolto da parte delle forze di sinistra, le quali continuano a subire la suggestione dell’appello al mercato, oggi come nel lontano 1947.
La stessa sensazione di «politica del tempo perduto» si prova, in terzo luogo, quando si propongono oggi come priorità da realizzare quelle concernenti l’energia, l’agricoltura, l’ambiente, l’edilizia pubblica, la casa. Questo elenco di inascoltata progettualità alternativa, prospettata da decenni, non va considerato come un’espressione di lungimiranza per il futuro, ma come testimonianza di miopia nel passato. Le responsabilità per quanto non si è realizzato nei vari campi sono indubbiamente molteplici: ma non è possibile delineare nemmeno un tentativo di una loro valutazione obiettiva, qualora si insista nell’additare nei comportamenti sindacali e salariali la causa essenziale di un distacco dell’Italia dall’Europa. A tale distacco concorrono anche l’esistenza di un esercito giornaliero di pendolari, valutato in indagini accurate in 17 milioni di lavoratori; il verificarsi di tremila morti all’anno per infortuni di lavoro; una media di alloggi pubblici terminati che nel ’74 era del 7,1% contro una media Cee del 45%; la constatazione di un disavanzo di circa centomila alloggi all’anno rispetto alle famiglie di nuova formazione.
Oggi quindi non si possono chiedere ai lavoratori concessioni o sacrifici per questi obiettivi da troppo tempo negletti: e questo riguarda la politica di austerità. La progettualità alternativa deve procedere oltre, con l’indicazione di traguardi che trovano fondamento nei nostri convincimenti ideali e non nell’adesione, immediata o differita, alla saggezza convenzionale. Non vi preoccupate troppo di quello che dicono le autorità costituite: bisogna procedere in modo autonomo quando siamo convinti di certe cose da realizzare.
Senza dover pretendere di dare in alcun modo completezza a un quadro di progettualità alternativa, vorrei delinearne soltanto alcuni elementi essenziali.
In primo luogo, tutta la nostra attenzione dovrebbe essere portata sul problema della creazione di opportunità di lavoro. A partire dal 1975, negli Usa sono stati creati 9 milioni di posti di lavoro addizionali; i posti creati nello scorso anno, pari a 3,5 milioni, corrispondono alla disoccupazione totale delle tre maggiori economie europee. Come parte di questo programma aggressivo nei confronti della disoccupazione, rientra la creazione di 250mila posti per i giovani nell’amministrazione pubblica e l’intenso impiego delle opere pubbliche.
Vi sono alcune lezioni da trarre da questa esperienza, che sintetizzerei nel modo seguente. Viene confermato che la creazione dei posti di lavoro è responsabilità congiunta dell’esecutivo, del Congresso e del sistema della riserva federale. Questo significa abbandonare l’idea che la creazione venga dal mercato: e questo insegnamento ci viene da un’economia come quella americana.
Viene riconosciuto che all’obiettivo della creazione di nuovi posti di lavoro deve accompagnarsi quello della riduzione del tasso d’inflazione, ma in questo ordine di priorità, e soprattutto senza alcuna concessione all’aspettativa che la maggiore stabilità sia di per sé in modo automatico creatrice di maggiore occupazione, che è sempre un po’ l’illusione che viene portata avanti nei nostri discorsi.
Vengono superate molte inibizioni circa la maggiore occupazione nel settore del pubblico impiego, circa la pretesa improduttività del settore terziario e circa il ruolo dei poteri pubblici nell’apprestamento di adatte qualificazioni professionali. Queste sono idee che dobbiamo portare avanti, perché da noi si dice che la pubblica amministrazione ha un eccesso di manodopera, che il settore terziario è improduttivo, e la qualificazione professionale sapete bene a che punto sta.
Questi sono tutti compiti da stabilire e da sottolineare. Il problema degli oneri finanziari non è subordinato ma è condizionato all’accettazione di questo compito dei poteri pubblici come «occupatori» di ultima istanza. Tutto ciò significa che le politiche anti-inflazionistiche hanno senso solo in termini di traguardi compensativi di maggiore occupazione. Indubbiamente oggi questo non può ottenersi soltanto mediante una manovra della domanda aggregata, ma richiede (sul piano internazionale non meno che su quello interno) una costante preoccupazione per le carenze dell’offerta, a cominciare da quella riguardante le qualificazioni professionali.
L’attaccamento spasmodico dei lavoratori ad aziende inefficienti o a enti superflui è conseguenza dell’assoluta sfiducia in nuove possibilità di occupazione in un mercato del lavoro contraddistinto da aberranti segmentazioni e corporativismi. L’azione slegata e frammentaria dei singoli e degli organismi locali non può essere sostitutiva delle responsabilità pubbliche.
Tra queste responsabilità rientrano incontestabilmente quelle che ricadono sulle organizzazioni sindacali. Ma ai discorsi ormai vacui sull’egemonia dell’una o dell’altra classe sociale, con riguardo speciale al processo di accumulazione, vorrei sostituire richieste del tutto concrete, che, riaprendo il discorso sulle contropartite (perché delle contropartite ci vogliono, da contrapporre ai sacrifici richiesti al mondo del lavoro in generale), mirino a contenere l’eccesso di discrezionalità che esiste in molte decisioni economiche gravide di conseguenze per il mondo del lavoro.
È incongruo considerare le spinte salariali come determinanti ultime della dinamica monetaria e dei tassi di cambio, e nel contempo decidere nell’ambito di ristretti direttori la possibilità di stabilire margini convenuti di oscillazione del cambio, cioè quello che si chiama in gergo il «serpente allargato» che è il problema di cui si discute in questi giorni e da cui l’Italia è esclusa anche dalla partecipazione alla discussione. Infatti, una volta accettate queste cose, i problemi salariali ne vengono condizionati, e questo credo che risponda a quanto si diceva sull’integrazione dell’Italia in una parte dell’Europa.
Se si pensa che tra le condizioni che dovrebbero contraddistinguere la creazione di una moneta europea vi è quella della concordata predeterminazione dei tassi di crescita dell’offerta monetaria dei singoli Paesi, appare evidente quanto sia rilevante l’interesse delle organizzazioni sindacali per questi problemi.
Pure, non soltanto esse ne rimangono completamente emarginate, ma mentre tutto l’accento viene posto sui vincoli che opprimerebbero il nostro sistema economico, scarsa attenzione viene data alla discrezionalità estrema di decisioni concernenti il mondo creditizio e valutario. Ovviamente c’è la responsabilità politica delle decisioni di fronte al Parlamento, ma essa interviene sempre ex post (quando interviene).
Dedicare maggiore attenzione a questi problemi, dai quali dipende la possibilità non remota di «germanizzazione» economica del nostro Paese (non so quanto preferibile al vassallaggio verso l’imperialismo statunitense), è un compito che non mira ad affermare egemonie ma a superare situazioni finora subite e accettate di emarginazione decisionale. Limitare il discorso ai difficili e complessi problemi delle strutture e delle dinamiche salariali può essere nei fatti un modo indiretto per ribadire questa situazione di emarginazione conoscitiva e decisionale.
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