Cambi di fronte e propaganda in Siria, aspettando le presidenziali USA
di FEDERICO DEZZANI
Nell’attuale contesto di deterioramento economico e politico, nessun quadrante merita maggiore attenzione di quello mediorientale, candidato ad essere l’innesco di quella possibile “guerra costituente” che ridisegnerebbe gli assetti globali: in Siria, in particolare, l’attrito tra il declinante impero angloamericano e le potenze emergenti è massimo. L’avvicinamento tra Putin ed Erdogan è la principale novità strategica accorsa nell’estate: ne è seguita una campagna mediatica che presenta Aleppo come “nuova Sarajevo”, vittima di un brutale assedio che invoca l’intervento occidentale. Gli sviluppi sono appesi alle presidenziali americane: l’eventuale elezione di Hillary Clinton renderebbe certo il tentativo di imporre una zona d’interdizione di volo sulla Siria, con alte probabilità che il conflitto degeneri in una guerra di larga scala.
Accordo tra Mosca ed Ankara: vince la ragion di Stato
Negli ultimi due anni il Medio Oriente è stato spesso oggetto dei nostri articoli, per due ragioni: primo, è l’area geopolitica dove l’Italia coltiva i suoi naturali interessi, secondo, come abbiamo sovente evidenziato nelle nostra analisi, la regione si è via via guadagnata la funzione di “Balcani globali”, quell’instabile regione, cioè, idonea a giocare sullo schacchiere internazionale lo stesso ruolo della penisola balcanica nel 1914.
Il Medio Oriente è oggi il campo dove le potenze mondiali declinanti (USA e NATO) ed emergenti (Russia, Iran e Cina) convergono, per una sfida che trascende i confini regionali: la posta non è, infatti, la supremazia in questo o quel Paese mediorientale, bensì l’assetto mondiale. Il Medio Oriente, in sostanza, sì è candidato a fungere da innesco per quella possibile “guerra costituente” (l’argomento sarà oggetto di uno dei nostri prossimi articoli) con cui l’ormai esausto ordine mondiale del 1945 (momentaneamente rafforzatosi nel 1991 con l’implosione dell’URSS ) sarebbe seppellito, per lasciare spazio ad uno nuovo, basato sui mutati rapporti di forza.
Il punto dove l’attrito tra potenze è massimo, la Bosnia del 1914 per proseguire con la similitudine, è ovviamente la Siria. Non è un caso se sui media internazionali la città di Aleppo, dove le operazioni dell’esercito siriano per la sua riconquista si avviano alla conclusione, sia sempre più sovente paragonata sui media ad una “nuova Sarajevo”: il riferimento immediato, certo, è alle vicende dell’assedio della città bosniaca negli anni ’90, ma come non cogliere anche una sinistra allusione all’attentato con cui fu uccisol’erede al trono d’Austria-Ungheria, inizio di quella reazione a catena che portò alla prima guerra mondiale? L’evoluzione del conflitto siriano merita quindi la massima attenzione, date le sue implicazioni globali.
Una novità di portata strategica è coincisa con la tentata destabilizzazione statunitense della Turchia: il fallito putsch militare si proponeva, infatti, di impedire il riavvicinamento già in atto tra Ankara e Mosca, passo indispensabile per porre fine all’insurrezione armata che dilania la Siria da ormai sei anni e che ha lungo impiegato Turchia come retroterra. Le indiscrezioni riportate dall’ex-ministro libanese1, Wahim Wahab, secondo cui Mosca non solo avrebbe avvertito Recep Erdogan dell’imminente golpe, ma gli avrebbe addirittura dato ospitalità nella propria base aerea siriana durante le drammatiche ore del putsch, corroborano la tesi che un’intesa tra la Russia e la Turchia fosse stata già raggiunta ed colpo di Stato fossel’estremo tentativo di sabotarla.
Il 9 agosto Recep Erdogan vola a San Pietroburgo, per la sua prima visita all’estero dopo lo sventato golpe. L’incontro con Vladimir Putin verte, ovviamente, sulla Siria, dove i due Paesi hanno militato per sei anni sui lati opposti della trincea: Mosca a sostegno del regime laico di Bashar Assad e dell’integrità territoriale della Siria, Ankara a sostegno dell’insurrezione islamista e della balcanizzazione del Paese, secondo il copione fornitole da angloamericani ed israeliani.
Il faccia a faccia cementa così il riavvicinamento in atto da mesi e scaturito dall’ambigua posizione di Washington sulla questione curda: Erdogan, infatti, ha compreso che l’appoggio statunitense ai curdi siriani ed iracheni (i corpi speciali americani schierati nell’ovest siriano combattono con le insegne delle milizie curde del YPG2), contempla la nascita di uno Stato curdo al ridosso del confine, con forti rischi che le regioni turche dove i curdi sono l’etnia dominante si dirigano a loro volta verso la secessione.
L’accordo tra Mosca ed Ankara è il classico “do ut des”, il trionfo della ragion di Stato a dispetto di qualsiasi impostazione ideologica o rancore: la Russia ottiene la sospensione dei rifornimenti all’insurrezione islamista nel nord della Siria e la condiscendenza di Ankara per la completa riconquista di Aleppo da parte dell’Esercito Arabo Siriano, la Turchia ha luce verde per varcare il confine siriano senza reazioni russe, formalmente per debellare l’ISIS ma in verità per reprimere le milizie curde.
Truppe russe sono così dislocate sull’ultima strada da cui giungevano i rifornimenti turchi alle milizie attive ad Aleppo3, mentre Ankara, nonostante le proteste formali di Damasco4, può lanciare l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, calando jet e truppe meccanizzate nel nord della Siria da impiegare contro le milizie curde alleate degli USA: a Washington, già ai ferri corti con Erdogan dopo il fallito golpe di luglio, non resta che far buon viso a cattivo gioco, dando il nulla osta all’operazione turca così da evitare una rischiosa rottura diplomatica con Ankara.
L’intesa tra Russia e Turchia rende sempre più concrete le probabilità di una vittoria definitiva di Bashar Assad sull’insurrezione armata: né la fornitura di missili terra-aria spalleggiabili (tra luglio e settembre Mosca perde due elicotteri e Damasco tre jet ed un elicottero), né i saltuari raid NATO ed israeliani a sostegno dei ribelli (vedi i bombardamenti “accidentali” della coalizione anti-ISIS contro l’esercito siriano a Deir Ezzor e gli interventi di Tel Aviv a sostegno degli islamisti nel Golan5), sono in grado di invertire la dinamica assunta dal conflitto.
Abortito lo scenario di un “grande Kurdistan”, evaporato il Califfato sunnita dell’ISIS, persa l’influenza in Iraq a vantaggio di Teheran, raffreddatisi i rapporti con l’Arabia Saudita, l’ultimo appiglio angloamericano per scongiurare un disfatta a tutto campo è impedire la caduta di Aleppo, città più popolosa della Siria e centro economico di primaria importanza.
La posta in gioco trascende la Siria e riguarda anche i rapporti di forza a scala globale, dove è chiaro a tutti che la supremazia di una potenza declinante, gli USA, è apertamente contestata dagli sfidanti decisi a difendere la loro agenda: Russia, Iran e Cina (quest’ultima ha recentemente concordato con le autorità siriane un maggiore coinvolgimento sul terreno6, attraverso aiuti ed addestratori militari).
Nella narrativa dei media occidentali Aleppo assurge quindi al ruolo di “nuova Sarajevo”, aprendo la strada ad un potenziale “intervento umanitario” dalle conseguenze imprevedibili.
Aleppo, “la Sarajevo” che aspetta Hillary Clinton
L’importanza assunta da Aleppo nel conflitto siriano è testimoniata dalla campagna mediatica che infuria attorno alla città da quando l’esercito governativo ha preso il sopravvento: si tratta della classica guerra psicologica con cui i centri d’informazione atlantica preparano abitualmente il terreno per un intervento militare, giustificato dalla necessità di difendere i diritti umani.
La Siria non è certo un “terreno vergine” sotto questo aspetto, perché già nell’estate del 2013, quando israeliani ed ampi settori dell’establishment angloamericano spinsero per la prima volta per un intervento militare, era stato orchestrato l’episodio delle armi chimiche nei sobborghi di Damasco, opera, secondo la ricostruzione dei media internazionali, del “regime di Assad”, ma attuato in realtà con gas sarin turco e manovalanza saudita.
La nuova campagna è stata aperta alla fine di luglio, quando l’ong americana Physicians for Human Rightsaccusa l’aviazione di Damasco del bombardamento di sei ospedali nella zona d’Aleppo, un vero e propriocrimine di guerra. Trascorrono pochi giorni ed i circuiti d’informazione sono sovraccaricati dalle immagini del piccolo Omran Daqneesh, il bambino sanguinante e coperto di polvere, fotografato attonito all’interno di un’ambulanza: “Little boy in Aleppo a vivid reminder of war’s horror” titola la CNN, che ricorda le efferatezze dei bombardamenti russi e governativi in Siria. L’emittente nazionale cinese CCTV controbatte senza esitazione: le foto del piccolo Omran sono state confezionate ad hoc e rientrano nella classica propaganda di guerra7.
Il salto di qualità coincide con la riesumazione dei più recenti “interventi umanitari” condotti dagli USA: sui media internazionali Aleppo comincia ad essere associata al nome di un’altra città tristemente nota per le vicende belliche: Sarajevo. Il blocco di Aleppo da parte dell’Esercito Arabo Siriano è l’odierno equivalente dell’assedio di Sarajevo da parte delle truppe serbo-bosniache: “Siria, Aleppo come Sarajevo: dopo quattro anni di assedio 40mila morti e 300mila civili in trappola” titola il Fatto Quotidano il 31 luglio;“Aleppo come Sarajevo? L’accusa delle Ong: Un altro fallimento dell’Onu” ribadisce il Corriere della Sera l’11 agosto; “Salviamo Aleppo, Sarajevo del Duemila” insiste l’ex-ministro Andrea Riccardi su Avvenire.
Gli interventi più interessanti, però, si trovano ovviamente sulla stampa americana, come l’editoriale “America’s Retreat and the Agony of Aleppo” apparso il 26 agosto sul New York Times e firmato da Roger Cohen. Al suo interno si tesse il paragone tra le due città, rimpiangendo gli anni ’90 e la risolutezza di Bill Clinton:
“Sarajevo and Aleppo, two cities once part of the Ottoman Empire, two cities whose diverse populations have included Muslims and Christians and Jews, two cities rich in culture that have been besieged and split in two and ravaged by violence, two cities where children have been victims — 20 years apart. What a difference two decades make! Sarajevo was headline news through much of its 44-month encirclement. NATO planes patrolled the skies to prevent, at least, aerial bombardment of the population. Blue-helmeted United Nations forces were deployed in a flawed relief effort. President Bill Clinton, after long hesitation, authorized the NATO airstrikes that led to the lifting of the Serbian siege and an imperfect peace in Bosnia. (…) Aleppo is alone, alone beneath the bombs of Russian and Syrian jets, alone to face the violent whims of President Vladimir Putin and President Bashar al-Assad.”
Corre, infatti, l’anno 1994 quando il processo di dissoluzione della Jugoslavia, patrocinato dagli angloamericani ed attuato con l’interessata collaborazione di austriaci, tedeschi e sauditi, compie un balzo in avanti: Bill Clinton avvalla i bombardamenti NATO contro le postazioni dell’esercito serbo-bosniaco attorno a Sarajevo, per poi lanciare, a distanza di un anno, l’operazione Deliberate Force. In entrambi casi il fattore scatenante è un bombardamento al mercato della città, che ha tutto il sapore dell’attentato falsa bandiera: i caschi blu presenti a Sarajevo, infatti, accusano i mussulmani di essere i veri responsabili della strage8 e la velocità con cui le immagini del mercato bombardato rimbalzano sui media anglosassoni desta fin sa subito più di un interrogativo. Quello contro l’esercito serbo è il primo degli “interventi umanitari” con cui l’establishment liberal incarnato da Bill Clinton porta avanti la propria agenda geopolitica, camuffandola come missioni militari a difesa dei diritti umani: seguiranno, di lì a poco, la guerra in Kosovo ed i bombardamenti su Belgrado.
Oggi, è il ragionamento di Roger Cohen e di buona parte dell’establishment americano, l’America è “in ritirata”, perché di fronte ad uno scenario simile a quello bosniaco, Barack Obama ha rifiutato l’intervento militare (“No, Syria has been Obama’s worst mistake, a disaster that cannot provoke any trace of pride”), quando nel 2013 le famose armi chimiche glielo avevano servito su un piatto d’argento e sia i falchi democratici che i neocon premevano apertamente per la guerra.
Affinché la ritirata statunitense si fermi e l’esito dell’assedio di Aleppo sia simile a quello di Sarajevo, occorre quindi che alla Casa Bianca sieda nuovamente un fautore degli interventi umanitari “muscolosi”, un degno erede di Bill Clinton: chi meglio, allora, dell’ex-first lady Hillary?
Non c’è alcun dubbio che, se eletta alla Casa Bianca, Hillary Clinton coglierebbe al balzo la situazione ad Aleppo per un radicale mutamento di strategia: archiviate le operazioni sporche della CIA, il discreto sostegno finanziario e logistico all’ISIS ed i saltuari raid a favore dell’insurrezione islamista, si passerebbe all’intervento umanitario con il dispiegamento massiccio della flotta e dell’aviazione, così da creare l’agognata zona d’interdizione di volo nei cieli siriani, già invocata in passato.
Illuminante, a questo proposito, è l’intervista rilasciata dal suo consigliere Jeremy Bash, reduce di un’esperienza nelle più alte sfere del Dipartimento della Difesa ed alla CIA9:
“Hillary Clinton will order a full review of the United States strategy on Syria as a first key task of her presidency, resetting the policy to emphasise the murderous nature of the Assad regime. A Clinton administration will not shrink from making clear to the world exactly what the Assad regime is. It is a murderous regime that violates human rights; that has violated international law; used chemical weapons against his own people; has killed hundreds of thousands of people, including tens of thousands of children. The Clinton campaign strategy as listed on its website revives a long proposed, but never implemented, plan to create “safe zones” on the ground for civilians. This would require a de facto no fly zone to prevent air strikes in the area”.
Non serve lanciarsi in voli pindarici per immaginare che alla zona d’interdizione di volo programmata dalla Clinton in Siria, dove è già massiccio il dispiegamento dell’aviazione e della contraerea russa, seguirebbe a ruota un’escalation militare con Mosca, Teheran e probabilmente Pechino.
Sarebbe, in sostanza, l’avvio di un conflitto con cui la potenza declinante, gli USA, cerca di arrestare la propria ritirata sfidando in campo aperto i rivali che ne contestano l’egemonia: l’incipit di quella guerra costituente con cui le élite senescenti, quelle euro-atlantiche, e le élite emergenti, quelle euro-asiatiche, si sfiderebbero per ridefinire gli assetti globali.
Ecco perché l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca avrebbe reali implicazioni geopolitiche: il suo“America first”, “prima l’America”, tacciato sui media come pericoloso isolazionismo, è in realtà l’ultimo appiglio per scongiurare che Aleppo si trasformi nella peggiore Sarajevo, non quella degli anni ’90, ma quella del 1914.
All’avvicinarsi delle elezioni presidenziali statunitensi, un’analisi dei due sfidanti è quindi necessaria, per comprendere davvero chi sono i due candidati e perché le stesse fazioni che nel 2013 premevano per l’intervento militare in Siria sono confluite oggi verso la candidata democratica: salvo sorprese, ce ne occuperemo la prossima settimana.
1https://www.youtube.com/watch?v=NfpyXKtbeH0
2http://www.aljazeera.com/news/2016/05/ypg-emblem-syria-160527185041767.html
3http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-council-idUSKCN11J1XL
4https://www.almasdarnews.com/article/syrian-government-condemns-turkish-armys-illegal-entry-aleppo/
5http://www.reuters.com/article/us-israel-syria-idUSKCN11J0EY
6https://www.rt.com/news/356161-china-syria-military-training/
7https://www.rt.com/news/356734-aleppo-child-image-china/
8http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/3459965.stm
9http://www.telegraph.co.uk/news/2016/07/29/hillary-clinton-will-reset-syria-policy-against-murderous-assad/
fonte: http://federicodezzani.altervista.org/cambi-fronte-propaganda-siria-aspettando-le-presidenziali-usa/
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