Iraq, dove la guerra continua
di Christian Elia fonte Peace reporter A seguire Un paese a pezzi di Ghassan Charbel fonte canaledisicilia da Al-Hayat
Sunniti contro sciiti e cristiani, nell'impotenza delle forze di sicurezza irachene
Il 22 febbraio 2006 è stato uno dei giorni più drammatici della storia millenaria dell'Iraq. Del mondo islamico in generale. La cupola d'oro della moschea di Samarra, mausoleo sciita dove riposano due dei dodici imam più venerati, cento chilometri da Baghdad, collassò per effetto di un attentato devastante. In una settimana la rabbia sciita causò la distruzione di almeno cento moschee sunnite e la morte di mille e cinquecento persone.
Per molti quel giorno segna il punto di non ritorno della lotta interconfessionale, nel cuore dell'Islam e dell'Iraq. Negli ultimi anni le cose erano andate meglio, fino allo spostamento del grosso delle truppe Usa nel Paese, reindirizzate verso l'Afghanistan. L'azione di ieri, però, con almeno undici cariche esplosive piazzate in quartieri sciiti di Baghdad, che hanno ucciso almeno cento persone, hanno riportato l'attenzione su una tensione che divide l'Islam, non solo in Iraq. Il vaso di Pandora è stato aperto e adesso è molto difficile richiuderlo.
L'Iraq è senza governo da marzo, quando le elezioni sono state vinte da Iyad Allawi, l'unico candidato che ha fatto del discorso multireligioso un punto fermo del programma. Il premier uscente Nouri al-Maliki, però, ha giocato il tutto per tutto e, sciita come Allawi, ha radicalizzato le sue posizioni, avvicinandosi all'ayatollah sciita radicale Moqtada al-Sadr, che molti ritengono manovrato dall'Iran, Paese dove si è rifugiato da tre anni. L'ultimo tentativo di mediazione saudita, che guarda con preoccupazione all'evoluzione politica (e religiosa) delle faccende irachene, è naufragata.
L'Iraq sembra sempre più vicino alle posizioni sciite più radicali e i gruppi sunniti, alcuni dei quali ritenuti vicini ad al-Qaeda, si fanno sentire per imporre la loro agenda, ostile all'influenza iraniana.
I gruppi sunniti più radicali parevano essere stati messi fuori gioco, dopo che il generale statunitense Petraeus (spostato anche lui in Afghanistan), era riuscito a comprare la fedeltà dei cosiddetti Consigli del Risveglio, milizie tribali sunnite, che si erano occupate di ripulire le loro zone dagli 'stranieri', come vengono chiamati i mujhaiddin internazionalisti accorsi da tutto il mondo islamico dopo l'invasione della Coalizione internazionale del 2003. Appena gli Usa hanno allentato la presa, però, gli sciiti al governo – al-Maliki in testa – non hanno rispettato i patti, rifiutandosi di coinvolgere i sunniti delle milizie nell'esercito e nella polizia. Questo ha riportato molti sunniti sulle antiche posizioni radicali, anche perché la deriva sciita del Paese e la crescente influenza iraniana preoccupa pure loro.
Nel mezzo di questa lotta di posizione si viene a trovare, indifesa, la comunità cristiana. Domenica 31 ottobre, a Baghdad, un commando ha assaltato una chiesa cristiana. Quarantaquattro le vittime, tra assalitori, ostaggi e forze di sicurezza irachene che (appoggiate dagli Usa) hanno fatto irruzione nel luogo di culto. Sparando all'impazzata, secondo le ricostruzioni. Lo Stato Islamico d'Iraq (Isi), sigla ritenuta vicina ad al-Qaeda, ha rivendicato l'assalto, definendo i cristiani ''bersagli legittimi''.
L'accusa, senza riscontri, è alla chiesa cristiana copta d'Egitto. Secondo gli integralisti, due donne copte si sarebbero convertite all'Islam e per questo sarebbero 'detenute' in un convento al Cairo.
L'Isi aveva dato un ultimatum di due giorni per liberare le due donne.
La vicenda pare, a prescindere da eventuali riscontri, un pretesto per proseguire quella 'pulizia etnica' denunciata dal Sinodo Vaticano sul Medio Oriente nei giorni scorsi. Obiettivo delle frange estremiste, sunnite e sciite, è quello di liberarsi della comunità cristiana per dividersi il nuovo Iraq.
Una lotta sanguinosa che la polizia e l'esercito iracheno non paiono in grado di contrastare. L'amministrazione Usa, dal 2004 a oggi, ha speso ventidue miliardi di dollari nella formazione di poliziotti e soldati iracheni, nel tentativo di affidargli l'ordine pubblico. La situazione, come dimostrano i fatti degli ultimi giorni, è molto lontana dall'essere sotto controllo. Un'inchiesta del New York Times, pubblicata il 24 ottobre scorso, emerge che la dipendenza da alcool e droghe tra le forze di sicurezza irachene è dilagante.
''Ho iniziato nel 2004…dopo un mese di turni continui'', racconta al Nyt Jasim Harim, 29 anni, soldato di stanza a Baghdad. ''Mi sentivo un bersaglio disegnato addosso, mi pareva che tutti volessero uccidermi. Mantenere la calma era impossibile…sono scivolato lentamente nelle droghe. Adesso non riesco più a farne a meno''. Si va dalle tradizionali eroina, hashish e marijuana fino a una versione iraniana del Valium, chiamata Sangue, per il colore rosso della scatola. Passando per l'Abu Hajib (Sopracciglia del padre) e il Labenani, ma non mancano anfetamine e antidepressivi. Molto diffuso anche lo 'sciroppo', nome in codice della vecchia grappa Arak, nascosta in flaconi di medicinali. ''Il problema è dilagante'', spiega il colonnello dell'esercito iracheno Muthana Mohammed, seppur il ministero della Difesa di Baghdad smentisce. ''Credo che la metà degli uomini di esercito e polizia abbiamo questo problema. Quando arrestano uno spacciatore, lo rilasciano e lo fanno lavorare per loro. Ma il dramma non riguarda solo i militari, tutta la società irachena è nei guai. La roba arriva da Iran e Afghanistan e il traffico è gestito dai guerriglieri che si autofinanziano''.
di Ghassan Charbel fonte canaledisicilia da Al-Hayat
“L'America uscirà a pezzi dall'Iraq”, così dice il politico iracheno, con un sorriso stampato sul volto. Ricordo di aver sentito questa espressione, o qualcosa di simile, molte volte nei mesi scorsi in numerose capitali arabe.
Anche a me piacerebbe che l'America uscisse malridotta dall'Iraq. Ma non è destino che questa avventura folle finisca necessariamente così. Chi conosce l'Iraq e la regione non è rimasto sorpreso dal fallimento americano. Sarebbe stato da arroganti ed ingenui credere che l'apparato militare americano potesse essere in grado di piantare la democrazia sulle macerie del regime di Saddam Hussein; così come credere che la pianta seminata con la forza potesse germogliare nel suo campo e modificare l'ambiente del Medio Oriente, considerato il responsabile della nascita di attentatori suicidi e militanti che invitano al conflitto mondiale e all'annientamento dell'Altro.
E' un diritto del politico arabo dire che l'America uscirà dall'Iraq crivellata. E' suo diritto gioirne perché la politica americana, soprattutto sulla questione delle protratte ingiustizie inflitte al popolo palestinese, ha generato una grande rabbia. Ma è forse un suo diritto considerare questa frase come un cuscino sul quale dormire sonni sereni?
Ogni volta che sento questa frase pensieri e visioni mi assalgono. Gli Stati Uniti uscirono malridotti dalla guerra di Corea. Hanno assorbito le perdite, fasciato le ferite e dopo un decennio si sono imbarcati nella guerra del Vietnam. Sono usciti dal Vietnam e dopo meno di un ventennio hanno festeggiato la scomparsa dell'Unione Sovietica, la quale aveva avuto un ruolo importante nella sconfitta in Vietnam. Oggi, a distanza di decenni, la Corea del Nord sembra malridotta dall'opera di un dittatore che esercita il suo potere con arsenali di razzi e fame, un artista del ricatto atomico e della violazione del diritto internazionale che dorme al sicuro su di un cuscino nucleare. Allo stesso tempo il Vietnam che mise in ginocchio l'America si prodiga in ingenti sforzi per attirare turisti ed investitori statunitensi.
La Francia uscì bastonata dall'Algeria. Dovette uscirne umiliata e piena di vergogna. Gettò uno sguardo nuovo sulle sue istituzioni. Ha metabolizzato la sconfitta e guardato al futuro. Ha intrapreso la strada della stabilità e la ricerca della prosperità. Chi può censire il numero di giovani algerini che sognano di emigrare nel Paese che ha crivellato i propri genitori? La storia delle carrette del mare non ha bisogno di spiegazioni. Le istituzioni si recuperano dalla sconfitta e ne superano le conseguenze. L'assenza di istituzioni vanifica le vittorie e apre la strada all'autoritarismo, al fallimento economico e ad una serie di guerre civili.
Ho sentito questa frase a Baghdad ed ho pensato ad un Iraq a pezzi. L'ho sentita a Sana'a ed ho pensato ad uno Yemen a pezzi. L'ho sentita a Beirut ed ho pensato ad un Libano a pezzi. L'ho sentita anche in altre capitali di Paesi arabi lacerati.
Siamo un Paese a pezzi. Malato. Che morirà di morte naturale o assassinato. La costituzione è assente, e quando c'è viene disprezzata. Nessuna istituzione vigila, sorveglia o si ritiene responsabile. Nessuna istituzione garantisce diritti o dignità. Le nostre università sono fabbriche che tengono i disoccupati al riparo dal lavoro, che sfornano generazioni che odiano il mondo, incapaci di impegnarvisi e di accettare le regole della differenza e della concorrenza. Le nostre scuole sono fabbriche che imbrigliano le potenzialità e l'immaginazione. I nostri parlamenti sono teatri comici. Le istituzioni non esistono o sono di cartone. L'idea di Stato è assente.
E' una tragedia. Festeggiamo l'America che se ne va via crivellata e dimentichiamo di vivere in un Paese ridotto a brandelli. Un Paese che affonda nel pantano dell'ingiustizia e dell'oscurità, in un mare di povertà, paura, indecisione e puritanesimo. Un Paese che trascura l'avvenire dei suoi cittadini e delle generazioni future e che si rifiuta di riconoscere di essere stato lacerato dalla Storia.
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