Immigrazione, coscienza di classe, coscienza nazionale e “sinistra” (o destra?) antagonista
Mi permetto di offrire in lettura un brano tratto dal libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, 2016, invitando tutti i soci del FSI e tutti i sovranisti, nonché tutti i visitatori del sito ad acquistare il libro, che non può mancare nella biblioteca dei sovranisti e, in generale, di tutti coloro che vogliono comprendere le ragioni della crisi italiana e conoscere a fondo il sistema di politica economica dei Trenta gloriosi, al quale si deve tornare abbandonando quello dei Quaranta pietosi nel quale siamo ancora pienamente immersi (SD’A).
“Nel corso dell’ultimo trentennio, non solo per la sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo economico, più in generale della sovranità popolare, ha cessato di essere la bussola di azione politica. Essa rigetta con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua ideologia è ormai essenzialmente costituita da una miscela di antirazzismo e di multiculturalismo, una sorta di cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cioè come un aspetto ineluttabile di quella forza continuamente sovvertitrice del capitalismo che sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi come ad un'”opportunità”. Così per quanto riguarda la questione dell’immigrazione, mentre come abbiamo appena ricordato ancora all’inizio degli anni Ottanta “razzisti” erano per la sinistra di classe padronato e governo che attraverso l’immigrazione stavano alimentando la formazione di un esercito di “schiavi moderni supersfruttati e sottopagati”, per la sinistra antagonista “razzista” è ogni manifestazione di esasperazione popolare nei confronti di questa massa crescente di moderni schiavi, capace di compromettere gli esiti principali del conflitto di classe – livelli salariali, condizioni di lavoro, protezione sociale – e di sconvolgere le condizioni di vita di interi quartieri. Il fatto è che tra lavoratori indigeni e lavoratori immigrati non può esserci che concorrenza e conflitto quando i secondi siano disposti ad accettare salari e condizioni di lavoro e di vita inaccettabili per i primi. Tutta la storia del capitalismo mostra in modo chiaro che tra lavoratori di diversa provenienza e coscienza di classe non può esservi nessuna unione o solidarietà. Già nel 1870 Marx scriveva in una lettera inviata a New York a Sigfrid Meyer e a Augist Vogt:
“Ma ciò che più conta è che attualmente in Inghilterra ogni centro industriale e commerciale dispone di una classe lavoratrice divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. Il normale lavoratore inglese odia il lavoratore irlandese come un concorrente che abbassa il suo standard di vita […]. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe lavoratrice inglese, nonostante la sua organizzazione. E’ il segreto attraverso il quale la classe capitalista conserva il suo potere“
L’unione dei “proletari di tutto il mondo” nel conflitto di classe interno a ciascuna nazione è inconcepibile, a meno di ipotizzare che i rapporti di forza tra capitale e lavoro siano sufficientemente omogenei nei diversi contesti geopolitici. Prima vengono i rapporti di forza all’interno delle singole nazioni e i loro esiti: se questi sono abissalmente diversi, allora nelle nazioni più sviluppate un conflitto interno alla classe lavoratrice, indigena e immigrata, è inevitabile, con conseguente indebolimento generale del suo potere contrattuale. Naturalmente vi sono forme diverse dall'”accoglienza fraterna” degli immigrati per esprimere solidarietà di classe nei confronti dei lavoratori dei Paesi meno sviluppati. Opporsi, come nel corso dei Trenta gloriosi a ogni forma di aiuto a quei Paesi che non sia subordinato al perseguimento effettivo di politiche di crescita dell’occupazione e rivendicare l’erezione di barriere doganali contro le importazioni da Paesi ad infimo costo del lavoro sono due forme concepibili di tale solidarietà”.
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