4 novembre: la grande guerra di Mario Cambiucci
La Grande Guerra completò l’unificazione geografica e morale dell’Italia, creando per la prima volta nel popolo uno spirito di identità nazionale. In essa si espressero volontarismo, idealismo, generosità, eroismo e si forgiarono caratteri d’acciaio ma i volontari, gli idealisti, i generosi, gli umili patrioti come Mario Cambiucci scoprirono l’orrore, di essere carne da macello, gli imboscati, il dolore di non essere rispettati quando tornavano in licenza, la mostruosità della guerra moderna e in 650.000 diedero la vita.
In questo commovente scritto, che narra la guerra vissuta da un umile patriota non illetterato, riportando molti brani del suo diario, c’è tutta la complessità della guerra, il fascino e l’orrore, l’idealismo e l’opportunismo, la retorica e la realtà. Il 4 novembre si deve festeggiare, perché appunto la grande guerra generò nel popolo lo spirito di identità nazionale, concluse il Risorgimento, e perché il popolo italiano svolse un grande ruolo nella distruzione dell’ultimo impero dinastico. Ma si deve anche ricordare. Infatti, il fanatismo degli esaltati, da un lato, e il fanatismo dei detrattori i quali sono incapaci di ammirare o almeno apprezzare l’idealismo, il volontarismo, il coraggio, il sincero patriottismo che nella guerra si espressero, dall’altro, in generale i fanatismi che vedono sempre soltanto una parte della realtà, vanno rigettati, perché su di essi o si fonda la megalomania che conduce inesorabilmente alla distruzione, o il cinismo che genera disprezzo, repulsione e scissione. Val la pena ricordare, in proposito, ciò che scrisse Chabod:
“L’Italia viene perciò a trovarsi da un lato di fronte all’appello dei contadini (“la terra ai contadini”) e alle rivendicazioni operaie foriere di sviluppi che vanno ben oltre gli aumenti salariali; dall’altro lato di fronte alla insoddisfazione, alle angosce e alle incertezze della borghesia, specialmente della piccola borghesia.
Occorre anche notare che questi gruppi di combattenti (soprattutto studenti, universitari, divenuti ufficiali durante la guerra) che sentono vivamente l’ideale della patria e che già soffrono delle contese intorno ai problemi adriatici, si troveranno spesso in opposizione alle masse operaie delle città, le quali adottano un risoluto atteggiamento di biasimo non soltanto verso la guerra stessa e i capi che l’hanno preparata e diretta, ma anche verso coloro che l’hanno combattuta.
Tale atteggiamento della classe operaia fu, in ogni caso, un grande errore. Uno degli aspetti della tragedia del socialismo italiano prima del 1922 fu appunto l’aver consentito che fra “patria” e “classe” si creasse un’opposizione. Anche a tale riguardo il socialismo italiano ha subito un’evoluzione molto più lenta rispetto a quello francese, il quale fu più precoce nell’accettare una responsabilità di governo, riuscendo altresì a superare con maggior facilità la frattura operatasi nella seconda metà del XIX secolo fra la “patria” delle classi borghesi e l'”Internazionale” delle classi operaie. Lo stesso non avvenne per il socialismo italiano. Certo, uomini come Turati, Treves, Modigliani, Prampolini – cioè le personalità più eminenti del partito socialista – amavano il loro paese; e l’amavano di tutto cuore, altrettanto e forse più profondamente di certi truculenti nazionalisti che levavano alte grida; ma l’azione politica del partito socialista – ed è ciò che conta – restava ancorata a posizioni dottrinali che la paralizzavano; sarebbe stato necessario conquistare al socialismo i sentimenti e gli interessi della piccola borghesia (per la quale la patria è sacra), se si intendeva farne la forza capace di dominare politicamente la crisi del dopoguerra e di sostituirsi alle vecchie classi dirigenti dello Stato” [da Feredico Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, 1961, p. 38 s.] (SD’A)
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Si è scritto molto durante la Grande Guerra, ma troppe di queste testimonianze sono poi state riviste dopo la guerra oppure sono state addirittura scritte a posteriori. Una tra le poche eccezioni tra i sopravvissuti (oltre alle poesie, per esempio, di un Ungaretti o di un Gadda), è la testimonianza di Paolo Monelli poi destinato a diventare un grande giornalista. Il suo “Le scarpe al sole” è considerato uno dei più bei libri italiani sulla Prima Guerra Mondiale: il diario scritto durante il periodo bellico è stato pubblicato già nel 1919 e per suo volere senza revisioni, con la sola aggiunta di alcune note geografiche per dare maggiore chiarezza al lettore. Altre testimonianze come quelle di Lussu (“Un anno sull’altopiano” è stato scritto nel 1936) o di Hemingway, pur assai pregevoli, sono più da iscrivere tra i romanzi storici che non tra i veri e propri diari di guerra: bellissimi documentari, ma mediati dagli anni e dalla impostazione letteraria.
In genere, i diari, le memorie, le poesie sono state scritte dagli ufficiali, ma è nelle lettere spesso sgrammaticate e scritte di getto dal soldato nelle pause dei combattimenti, che troviamo tutta la realtà della guerra, senza le mediazioni romanzesche o la distanza degli anni che attutisce e decanta. I fanti che vengono mandati al massacro sono in gran parte contadini e quelli che sopravvivono la raccontano come un’esperienza solo un po’ più dura della loro vita di tutti i giorni.
In questo articolo presentiamo invece alcune testimonianze di un maestro romagnolo, Mario Cambiucci, che si pone a metà: non è un contadino, ma non è neppure un sopravvissuto. E’ un protagonista minore, ma non un illetterato, e con i suoi scritti ci fa percorrere un periodo della Grande Guerra e la storia di uno di quei 650.000 che non è più tornato a casa.
Mario, figlio di Vincenzo e di Antonia Mattioli, nasce il 25 Agosto 1896 alla Serra di Castel Bolognese dove la madre insegna alle scuole elementari di quella frazione. Ottenuta la licenza di maestro elementare, prima di partire soldato, anche Mario insegna, ma nelle scuole di Bertinoro. Di Cambiucci è giunto a noi un fitto carteggio, composto di lettere alla famiglia, poesie e scritti vari, gelosamente custodito dalla sorella Amabilia che qui andremo solo molto brevemente a citare, ma che è stato pubblicato quasi integralmente.
Quando scoppia la guerra, la leva di Mario non è ancora tra quelle mobilitate. Tuttavia nonostante Cambiucci sia un interventista, come ricorda il suo amico e collega Mario Boni (“Egli fu decisamente per l’intervento e questa sua fede propagandò fra gli amici e i conoscenti”), lui non parte volontario. Pur inebriato dalle idee di quel maggio radioso e non vedendo l’ora di essere chiamato alle armi, l’amore per la madre lo trattiene dal partire immediatamente volontario. Infatti in una lettera a lei indirizzata appare chiara la sua visione e tra le altre cose scrive:
“Carissima mamma, io non so davvero chi sia stato quel tal signore che s’è preso la briga di chiacchierare sul mio conto e che è andato a dire che mi son firmato per partire volontario. Quel tale si è sbagliato di grosso, cari miei, perché io non ho avuto mai nessuna intenzione di farlo, o meglio: se l’intenzione l’ho avuta, mi ha trattenuto sempre il pensiero di voi che sareste impazziti di dolore se fossi morto partendo come volontario per la guerra.
Vi dico però che aspetto con grandissimo desiderio il momento in cui verrà chiamata la classe del 1896 perché vedendo tutti i miei compagni, sia della Serra che di Forlimpopoli e Bertinoro, alle porte d’Italia per la difesa della patria, ben a malincuore me ne starei a casa a fare il neghittoso, il vile o l’infingardo […]”
Nel frattempo il nostro Stato Maggiore, comandato dal generale Luigi Cadorna, promette una vittoria semplice e rapida, sottovalutando drammaticamente la forza e l’organizzazione nemica. In effetti vengono subito occupate, senza difficoltà, alcune strategiche vette di confine sul fronte Trentino e la città di Grado. Sembra tutto facile, ma i nostri fanti cominceranno a capire il vero volto della guerra solo quando si troveranno di fronte ai reticolati nemici che si sono ritirati, secondo un piano ben congegnato e si sono trincerati in zone rialzate rispetto alle nostre truppe avanzate o ancorate a montagne ripide ed inaccessibili.
Così, dopo un mese di avvicinamento, si va all’attacco. Il 23 giugno le nostre truppe si lanciano contro il Monte Kuk, le alture di Oslavia ed il Podgora. I reggimenti vengono mandati avanti a ranghi serrati, come nelle guerre ottocentesche. Le mitragliatrici e le artiglierie austriache li falciano senza pietà.
E’ la 1a delle undici battaglie dell’Isonzo che dura, appunto, dal 23 giugno al 7 luglio. Alla fine tra gli italiani si contano 1.916 morti, 11.495 feriti, 536 dispersi. E senza aver raggiunto alcun risultato.
Tuttavia, dopo la 1a Battaglia dell’Isonzo lo spirito delle nostre truppe e del paese è ancora altissimo. I feriti, che come prevede la nostra organizzazione sanitaria, vengono inviati per mezzo di treni agli Ospedali Divisionali o d’Armata dislocati all’interno del paese, sono eroi da osannare. Ed è proprio uno di questi primi convogli che Cambiucci vede a Ravenna e così descrive:
“(21 Luglio 1915) Passaggio di prodi […] Alla stazione affollata, l’anima della città attendeva la venuta dei feriti. Giunsero. Si videro uscire dalla stazione alcuni giovani: apparvero braccia frante e sospese, teste fracassate, gambe e piedi rotti, melanconici sorrisi su le facce nere; gli occhi solo vivevano la vera giovane vita: ne le pupille profonde eran sorrisi vasti o puri come il cielo d’Italia e come il mare. La folla guardava presa da uno smarrimento profondo, come perduta in un vastissimo silenzio che era tutto un canto. […] Nell’agonia lunga sorridevano gli eroi pieni di rassegnazione sublime più alta del tempo e della vita; con le scarne mani stringevano i fiori e sorridevano, sorridevano sempre. Sentivano il trionfo della gloria e dell’immortalità in quell’ultimo sacrificio per la santa patria. Nel silenzio angoscioso, di fronte all’amore e al dolore, pareva che l’universo cantasse: Italia! Italia! Italia! Ed era l’anima che saliva a una purità novella, era la melodia del pianto che svolgeva al passaggio degli eroi”. […]
Il 18 luglio Cadorna ci riprova e ha inizio la 2a Battaglia dell’Isonzo. Tutto il Carso sarà appestato dal fetore insopportabile di migliaia di morti. La battaglia termina il 4 agosto: gli italiani conquistano una fascia di terreno profonda da 200 a 600 metri al prezzo di 50.000 tra morti e feriti. La realtà del fronte è però lontana dalle case della maggior parte degli Italiani e l’entusiasmo interventista spinge ancora migliaia di giovani ad arruolarsi volontari con spavalda ingenuità o a pensare alla guerra come se fosse una festa di paese con i botti e i fuochi artificiali.
Anche Mario Cambiucci non ha ancora le idee chiare su cosa sia veramente la guerra e così scrive:
“(13 Ottobre 1915). […] Nella mia solitudine ho l’anima diffusa fra tutte le anime umane, il mio sogno, il mio canto la mia pura e dolce intimità è come aura ignota che scorre sulle terre sui mari dove romba il cannone e parlano le solitudini d’eternità e d’amore. […]
La 3a Battaglia dell’Isonzo ha inizio in una fredda giornata autunnale, spazzata dalla Bora. E’ il 16 ottobre. Termina il 4 novembre con risultati miserevoli. Si contano 20.000 morti e più di 60.000 feriti. Ma a differenza delle altre due, la 3a Battaglia dell’Isonzo spegne definitivamente l’entusiasmo per quella che pochi mesi prima era considerata solo una inebriante avventura.
La 4a Battaglia dell’Isonzo ha inizio pochi giorni dopo la fine della 3a. Il 10 novembre i fanti italiani vengono di nuovo mandati all’attacco. Piccoli e 5 grandi eroismi si perdono nel marasma di assalti e contrassalti. Nel frattempo arriva anche il turno di Mario che è chiamato alle armi nel novembre del 1915 ed è assegnato a un reggimento d’Artiglieria da Fortezza a Venezia. La 4a Battaglia dell’Isonzo si conclude il 4 dicembre nella solita un’orgia di violenza ed in un mare di sangue. Cadorna strombazza al Parlamento che in quattro battaglie ha conquistato Oslavia (che è poco più di un villaggio) e alcuni ordini di trincee sull’altipiano di Doberdò, ma tace il prezzo: 230.000 tra morti e feriti.
Dopo la 4a Battaglia dell’Isonzo le operazioni militari vengono sospese per affrontare il primo inverno di guerra.
Nel gennaio del 1916 Oslavia, l’unica conquista italiana tanto declamata della Quarta Battaglia, viene ripresa dagli Austriaci.
L’11 marzo ha inizio la 5a Battaglia dell’Isonzo. Questa volta non ci sono obiettivi militari. E’ solo un’azione diversiva per appoggiare l’offensiva alleata in Francia. Si conclude il 19 marzo senza il minimo guadagno territoriale. Tutto come previsto da Cadorna che al modico prezzo di 5000 tra morti e feriti ha raggiunto l’obiettivo di tenere alto lo spirito combattivo.
Dopo i mesi passati a Venezia, Mario entra nella Scuola di Modena, da dove uscirà qualche mese dopo Aspirante ufficiale di fanteria.
Il 14 maggio inizia nel Tirolo meridionale la grande offensiva austroungarica chiamata “Strafexpedition” (Spedizione punitiva). L’obiettivo di Conrad è conquistare Schio e Bassano, penetrare nella pianura Veneta, poi nella pianura Padana e prendere alle spalle l’Armata italiana attestata sull’Isonzo. Per poco non ce la farà.
Nello stesso periodo Mario ritorna a casa per qualche giorno. Dopo questa breve licenza Cambiucci rientra a Modena dove termina la Scuola ufficiali. Siamo in giugno.
Mentre, sugli Altipiani è ancora in corso la Spedizione punitiva, sugli altri fronti, si combatte disperatamente ovunque. Nel frattempo il nostro Stato Maggiore sta progettando la 6a Battaglia dell’Isonzo per la conquista di Gorizia. In luglio Cadorna è così sicuro di riuscirci che lo annuncia addirittura a mezzo stampa.
Il 4 agosto inizia un terribile fuoco di preparazione. Il 6 viene conquistato il Monte Sabotino, vero bastione difensivo di Gorizia, seguendo il piano ideato del colonnello Pietro Badoglio, che poi viene promosso generale. La sera del 7 agosto la città giuliana, ormai ridotta ad un cumulo di macerie, è abbandonata dagli austriaci.
Mario, che deve ancora ricevere il “battesimo del fuoco”, gioisce per l’evento e in una lettera alla madre scrive:
“(11 Agosto 1916) Carissima mamma, […] Avete avuto la notizia della presa di Gorizia? Finalmente! Io non ti so dire della gioia che ne provai appena lo seppi, mi era persino venuto il desiderio di inviarvi un telegramma. E sapete chi ha preso Gorizia? L’hanno presa i reggimenti 28- 27-12-11 i reggimenti cioè di Ravenna, Rimini, Cesena e Forlì tutti romagnoli. Tutti hanno avuto parole di elogio per il contegno meraviglioso di quei soldati a l’assalto de la città ed io sono orgogliosissimo di questo avvenimento il cui merito spetta quasi tutto alla Romagna. […]
Cambiucci viene trasferito a Bagnacavallo per un breve periodo di reinquadramento e dopo questo periodo, Mario viene finalmente inviato in prima linea sul Carso, aggregato al 22° fanteria.
Nel frattempo dopo Gorizia, una conquista che non ha dato i risultati militari adeguati, per non deludere le aspettative dei politici, sempre a sollecitare un risultato rilevante da mettere davanti agli alleati, Cadorna, senza prendersi altro tempo, sferra una dietro l’altra, dal 14 settembre al 4 novembre altre tre battaglie sull’Isonzo (la 7a, 8a, 9a), ottimisticamente indicate come le “tre spallate” da dare agli austriaci.
Ancora una volta il campo principale della battaglia è la linea che da San Grado di Merna si collega alle paludi del Deserto (Lisert). Le trincee nemiche sono scavate in gran parte nella roccia, protette da parapetti di sacchi a terra, blindate con scudi metallici e circondate da profondi ordini di reticolati, abilmente dissimulati in modo da sfuggire all’osservazione. Dietro sono state scavate numerose caverne nella roccia per il ricovero delle truppe durante il nostro fuoco di artiglieria.
Contro questa linea si effettua, tra il 14 e il 16 settembre, il primo nostro attacco (7a battaglia dell’Isonzo) preceduto da fuoco intenso e rovinoso di artiglierie e di bombarde, che infuria per più giorni su una ampia e profonda zona colpendo ed annientando ogni cosa. Nel pomeriggio del 14 settembre, dopo che alcune ardite pattuglie hanno potuto verificare gli effetti distruttori del fuoco di preparazione, le nostre truppe sono lanciate all’assalto sotto una pioggia torrenziale. Per la prima volta Cambiucci si trova a descrivere la vita vera della trincea e scrive:
“(15 Settembre 1916) Carissimi, l’azione quassù è incominciata ieri mattina alle 5. Ieri, questa notte e stamane il bombardamento era talmente forte che scuoteva le mura dell’ospedale e il mio letto tremava.
Ieri incominciarono a scendere soldati e ufficiali feriti. Non descrivo le loro condizioni perché erano veramente deplorevoli, sparuti, laceri, sporchi con le teste, le mani, le vesti insanguinate; veramente facevano pena. Molti si lagnavano e soprattutto di soldati si odono lamenti atroci e penosissimi.
Io ho preso subito informazioni del mio reggimento. Ha dovuto andare all’attacco e il mio battaglione, per primo e ancora sta lassù, sotto un terribile fuoco. Il mio comandante di compagnia e alcuni colleghi miei venuti da Modena, sono stati feriti, uno è morto e la lotta continua e continuerà. Quanto sangue e che sfacelo di carne umana si vede qua sul fronte! […]
Il 18 settembre un uragano di fuoco mette fine alla 7a battaglia. I bollettini di Cadorna descrivono entusiasticamente ogni trincea conquistata come un “enorme successo”. Ma in realtà è un altro nulla di fatto, caratterizzato da rabbiosi faccia a faccia, uomo contro uomo. Un corpo a corpo in cui si strangola il nemico anche a mani nude.
Pietre, buche, macerie, tende, baracche, trincee, caverne. Ecco l’inferno sudicio della guerra. Un inferno fatto di sporcizia, fame, sete, pidocchi, ansia, paura, disperazione in un abbrutimento fisico e morale.
L’8a battaglia è sferrata il 9 ottobre. Solito tentativo di spallata che si conclude il 12 ottobre con un leggero arretramento delle linee austriache.
Il 25 ottobre la nuova offensiva sul Carso viene rimandata per il tempo burrascoso. E i nostri soldati che aspettano che il tempo migliori sono sistemati in condizioni pietose così come ci descrive Mario:
“(29 Ottobre 1916). […] Io dormo in una baracca che (non so perché) è stata costruita sotto il livello del suolo e, siccome qua piove molto, specialmente in questa stagione, l’altro giorno si allagò. Io dormivo e presso di me, seduto, stava l’attendente, il quale aperse la porta e un’onda di acqua travolse la baracca. La paglia su cui ero sdraiato cominciò a galleggiare, galleggiavano i fiaschi, le scarpe ed io dovetti fare un salto su di una panca per salvarmi dall’improvvisa innondazione e far preparare un ponte con assi per uscire. Questa notte ne è successa una migliore. Mentre io e un collega, in quella stessa baracca si dormiva, si son rotte le brande e ci siamo trovati a terra: pazienza! Ci siamo collocati alla meglio, biascicando qualche accidente e abbiamo ripreso a dormire. A notte alta è incominciata una pioggia indiavolata e – come era naturale – l’acqua ha invaso la baracca. Dapprima non abbiamo badato a tutto questo, ma poi ci siamo sentiti umidi umidi sotto e ci siamo accorti del nuovo flagello. Abbiamo continuato a rimanere sdraiati come prima !!! questo non meravigli: qua – una volta abituati alla malaria – non ci si ammala nemmeno a velerlo per forza. Non vi parlo dei topi: è una disperazione! Questi animali sono qua di una grossezza fenomenale e ce n’è ovunque: per i fossati nelle baracche, nelle case, anche nelle più ricche e pulite. La notte si sentono fare un pandemonio e svegliano ad ogni momento, ma di tutto si impara a ridere quassù. […]”
Ma Cambiucci, “anche senza volerlo”, si ammala gravemente di febbri malariche e viene ricoverato in ospedale.
Il 31 ottobre, quando inizia la 9a battaglia, continua a piovere a dirotto e ulula la bora. Alla fine, il 4 novembre, conquistiamo una sacca di cinque chilometri quadrati: una inutile pietraia carsica.
Purtroppo, nonostante le gravi perdite di altri 37.000 morti e 88.000 feriti, i “tre urti” contro delle postazioni limitate, ottengono scarsi risultati a livello strategico e di conseguenza anche su quelli politico.
Dopo gli insuccessi delle ultime tre battaglie isontine, le operazioni belliche sul fronte italiano si interrompono per affrontare il secondo inverno di guerra.
Senza conoscere le fosche aspettative che li aspettano, ai soldati non rimane che festeggiare il Natale. Festività che Cambiucci, a causa della febbre malarica, trascorre presso l’Ospedale di Mestre dov’è ricoverato e da dove scrive:
“(26 dicembre 1916) Carissima Amabilia, […] Ho passato un Natale felicissimo. Alla mattina ho assistito a una bella funzione alla quale hanno partecipato ufficiali e soldati. Dopo la messa noi ufficiali siamo scesi col grammofono nel reparto truppa ed abbiamo dato un allegro trattenimento musicale. A mezzogiorno una buona colazione e alla sera un pranzo abbondantissimo e succulento con vini di Sicilia, Emiliani e Toscani. Piatti di carne di frutta di dolci ci hanno riempito al punto da dover prendere stamane dei purganti. Dopo il pranzo canti, balli e giochi fino oltre la mezzanotte. Non poteva essere migliore questa festicciola; non ci è stata concessa la libera uscita, ma pazienza. […]”
In questa logorante guerra di trincea, chi sopravvive ha modo di temprarsi e diventare d’acciaio. Tuttavia i giovani colti come Mario sono irrimediabilmente travolti da questa esperienza che li cambia nel profondo, li sfigura dentro ancor più delle granate. Quelli che sopravvivono non saranno mai più come prima. In questo scritto troviamo tutte le inquietudini, le delusioni e le amare constatazioni di Cambiucci: un giovane maestro, romantico ed idealista travolto da quella che credeva una inebriante esperienza. La guerra cambia le persone e mette a nudo la realtà delle cose senza alibi e senza maschere.
[…] La guerra ha rivelato tanti lati della psiche umana che rimanevano velati nascosti sotto convenienze che si [volevano?] risaltare per leggi. Tanti ideali sono crollati […]
[…] Si ostenta una commozione che non esiste, perché il vero grande dolore non ha parole, ma ai giorni nostri non esiste oramai più dolore, né amore. Tutto precipita nel crogiuolo degli affari, chi muore è dimenticato chi vive si lascia sfruttare e sfrutta; sono pochi oramai gli uomini che hanno una coscienza per sé e per gli altri, che hanno fede, amore. Forse furono sempre pochi, ma ora più che nel passato si rivelano perché le convenienze sono scomparse. Questo grande sacrificio ha cancellato molte ipocrisie; le enormi sofferenze e le sventure incessanti, hanno indurito la sensibilità umana. […]
[…] L’ambiente militare è quello dalle grandi apparenze e dalla minima sostanza. Alla fine del mese di gennaio scorso quando ero a Venezia giunsero colà molti richiamati, gente di tutte le età, di tutte le classi sociali e fra un gruppo di richiamati di 40 anni vidi uno che aveva indossato gli abiti migliori e col tubino avanzava maestoso fra gli altri incolti nelle vesti e nel portamento. Sembrava che quel tale dovesse andare ad una serata di gala mentre stava per entrare in una lurida caserma dove è bandita ogni forma di estetica. Era ridicolo ma pure nella sua originalità mostrava di aver conosciuto a fondo l’ambiente militare, dove tutto è apparenza […].
[…] E’ facilissimo trovare nelle autorità militari persone di pochissima cultura o di scarsa intelligenza, ma nel loro ambiente sono celebrità e alle celebrità è concesso dire scempiaggini. […]
Tra gennaio e metà maggio del 1917 non ha luogo nessuna operazione di rilievo sul fronte italiano.
Ad inizio anno Cambiucci è ricoverato presso il convalescenziario di Gorgo al Monticano, sempre a causa delle febbri malariche che lo avevano colpito nel novembre precedente. E’ un periodo di forzato riposo e così Mario ha tempo e ricorda le esperienze in trincea durante l’estate del ‘16. Così, come in scritti di altri soldati, troviamo l’incredibile capacità dell’uomo di sapersi adattare ad ogni situazione: i primi giorni di trincea tra morti e bombardamenti stordiscono e annichiliscono, ma poi il “turbamento passa” e si ricordano “quasi con compiacimento” i giorni passati al fronte.
[…] “Uno dei ricordi più grati per me è quello dei giorni passati in trincea. Sapete perché? La trincea, lo spauracchio dei più, l’orrendo loco dove la vita cessa di essere umana, la ricordo con piacere o forse con orgoglio più che con piacere perché mi sono trovato presso la morte e nella sofferenza con una calma e una serenità che non speravo mai di provare in me. Pochi giorni furono quelli passati a quota 44 ma mi bastarono per apprezzare me stesso più di quello che facessi. Il primo e il secondo giorno furono pieni di timore e di angosce dato l’orrore del fuoco, il frastuono immenso delle artiglierie perché giunsi e rimasi quando la battaglia infuriava intensissima. Io e un compagno trovammo ospitalità in un ricovero dove ci furono offerte due brande e potemmo chiamarci fortunati, ricchi, per quel conforto lassù. In quel ricovero ebbi le prime impressioni e vidi i primi macelli, fui scosso dai primi orrori. E il primo e secondo giorno, stordito, inorridito, non concepivo il perché di tutto quello che passava per lassù di tutto l’inferno che si scatenava e distruggeva. Non scrissi alla famiglia, credetti che sarebbe stato impossibile ritornare da quella bolgia e un poco mi angustiai benché a volte non credessi ai miei occhi, ai miei sensi e pensassi di trovarmi fuori del mondo o di essere preda a un sogno o a qualche morbosa fantasticheria. Subito al terzo giorno però il turbamento passò ed io ritornai quale ero, tranquillo, conscio dei pericoli ma freddo […].
Con l’allungarsi del conflitto lo Stato si vede costretto a controllare la produzione e per aumentare lo sforzo produttivo vengono esonerati dal servizio attivo non solo gli operai necessari al funzionamento degli impianti, ma anche tutti coloro ritenuti indispensabili ai vari servizi bellici. Ciò produce un vasto fenomeno di imboscamento. Chi combatte al fronte considera imboscati tutti gli uomini validi rimasti a casa, siano essi operai, ferrovieri, postelegrafonici o impiegati dello stato. Molti sono i volontari famosi, ma molti anche gli imboscati illustri. A Udine, presso il Comando Supremo, c’è il Sottotenente Edoardo Agnelli vicedirettore del parco automobilistico, mentre Piero Pirelli è addetto all’Ufficio Cifre. Lo stesso Presidente del Consiglio Salandra, che la guerra l’ha firmata, ha poi provveduto ad infilare nelle pieghe del sistema amministrativo tutti e tre i suoi figli. E a demoralizzare ancora di più i combattenti durante le licenze, c’è quella atmosfera di indifferenza o addirittura di ostilità di cui si sentono circondati.
Così risulta comprensibile la rabbia di Cambiucci per i “lustri imboscati” che traspare da questo brano senza data, scritto probabilmente durante il periodo di convalescenza. […]
Chi è il volontario che non è pentito di essersi offerto alla causa della patria prima del tempo? I volontari della guerra (fra i quali sono pure io) sentono un rimorso di quello che fecero perché in Italia c’è chi vive tranquillo e ingrassa sulle sofferenze altrui c’è chi non pensa a questo immane sacrificio, che non vuol comprendere ride sulle invocazioni di pace dei nostri soldati e dice apertamente che vittoria o sconfitta, finché la pelle è sicura, sono la stessa cosa. E questi imboscati che sono infiniti in ogni grande e piccolo centro, ne l’ambiente in cui vivono comandano su di noi reduci dal fronte e ci disprezzano. Dal generale al soldato, questi uomini militarizzati che vivono in Italia e non intesero mai un colpo di fucile, sono sulla malvagità menzogna scelleraggine; per attaccarsi ognor più tenacemente al loro posto d’imboscamento non sdegnerebbero assassinare; e quando un reduce della trincea li richiama rispondono, col più beffardo sorriso, che il loro tempo non è ancora venuto […].
Dopo essersi ripreso Mario viene inviato a Lonigo, dove viene reinquadrato nel 129° Fanteria. Ormai ristabilito Cambiucci viene inviato al corso per gas asfissianti.
A metà maggio il fronte si muove. Fervono i preparativi per la 10a Battaglia dell’Isonzo. Il 12 maggio la nostra artiglieria comincia a tempestare le linee nemiche di Monte Kuk e Vodice con 2.500 cannoni e 1.000 bombarde. Il 14 maggio entra in scena la fanteria.
Mario riparte per il fronte del Carso il 17 maggio e si trova subito nel mezzo della battaglia. Il 18, 19 e 20 sono tre giorni di sangue, di stragi, di soliti e spesso inutili eroismi.
Il 22 maggio piove a dirotto. All’alba si alza la bora che accompagna una nuova ondata di assalti al Monte Kuk e al Vodice. I combattimenti corpo a corpo durano fino al calare della sera. Dopo ogni assalto ci si conta e ci si domanda con stupore per quale inaudita casualità si sia ancora vivi. In questo stralcio lettera scritta lo stesso giorno, Mario Cambiucci racconta quella terribile giornata e descrive il Carso come “la bocca di un’orrenda, smisurata fornace”, una visione da inferno dantesco.
“(22 maggio 1917) […]”Qua continua ad infuriare la battaglia, ma noi sentiamo fortunatamente questa lotta solo da lontano. Son rombi, boati immensi che soprattutto nella notte si distinguono chiari, numerosi, enormi e diffondono per l’aria un’eco che fa rabbrividire mentre lassù sulle colline squassate, insanguinate, macerate, arse è una ridda cupa di razzi, di lampi e di fiamme. Nella notte si guarda al Carso come alla bocca di un’orrenda, smisurata fornace e quando si pensa che milioni di uomini lassù, vegliano, vigilano ansiosamente, laceri, affamati e stanchi per settimane e mesi interrottamente e si azzuffano e si macellano, più che inorriditi si rimane stupefatti e ci si domanda per la millesima volta: “Ma perché mai tutto questo?” […]”
Il 23 e 24 maggio sono i giorni culminanti dell’offensiva della 3a Armata. Le nostre truppe avanzano da Castagnevizza al Timavo.
Mentre gli italiani passano Timavo e conquistano quota 28, Cambiucci viene ferito da schegge di granata alla testa e muore in battaglia quel 29 maggio. Il suo corpo non verrà mai ritrovato: è anche lui inghiottito da quella “orrenda fornace”.
Mario Cambiucci è dichiarato disperso in battaglia il 29 maggio 1917.
E qui finisce la nostra storia. Ma non quella della Grande Guerra che terminerà un anno e mezzo dopo, il 4 novembre 1918. Con la battaglia di Vittorio Veneto si chiude il conflitto e i rintocchi festosi delle campane, che Mario Cambiucci non sentirà mai, sovrasteranno le voci di sofferenza causate da quattro interminabili anni di lotta che hanno annientato, con ben 10 milioni di morti, un’intera generazione di persone e che si sono conclusi, per i principali sconfitti (la Germania), con una pace, quella di Versailles, talmente umiliante da far covare in essi, profondi sentimenti di rivincita che sfoceranno poi, nel 1939, nella seconda guerra mondiale.
Tuttavia nel bene e nel male la Grande Guerra completò l’unificazione geografica e morale dell’Italia, creando per la prima volta uno spirito di identità nazionale.
Tutte le guerre finiscono per essere ridotte a statistiche e strategie, discussioni sulle cause e sugli eventi. E in particolare i dibattiti sulla Grande Guerra sono importanti, ma non come le storie umane di coloro che vi hanno combattuto o vissuto e gli insegnamenti che da esse sapremo trarne, insieme alla memoria che dobbiamo serbarne. La conoscenza, non l’oblio, è l’unico antidoto al ripetersi di tragedie così immani. Certamente quella di Mario Cambiucci è una storia come tante, ma fa parte della nostra storia: non saremmo in grado di capire il presente se la dimenticassimo.
Bibliografia A. Soglia e A. Nataloni (a cura di), Mario Cambiucci: un maestro romagnolo nella bufera della Grande Guerra, Carta Bianca editore, Faenza, 2011.
Fonte: http://www.arsmilitaris.org/pubblicazioni/Guerra%20di%20Mario.pdf
Grazie Mario…