L'Università sotto assedio
di Daniele Balicco Alfabeta2
Universitaly di Federico Bertoni è un saggio politico. Il suo oggetto immediato è la metamorfosi inquietante dell’università pubblica in Italia; ma, come in ogni vero esercizio saggistico, l’oggetto è in realtà pretesto per un discorso più generale. Bertoni, mentre discute di università e di ricerca, sta in realtà costringendo il lettore a riflettere su una questione di fondo, inaggirabile benché ovunque elusa: se si manomettono le forme istituzionali di educazione pubblica di massa è la qualità stessa della nostra democrazia a essere a rischio. Questo è il nodo attorno a cui il saggio ruota. E il decalogo che chiude il volume – le dieci pratiche di resistenza a cui il testo invita – andrebbe letto come un piccolo manifesto portatile di disobbedienza civile. Ma andiamo con ordine.
Universitaly si apre con una domanda spiazzante: «perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane?». La risposta non è semplice e il testo prova ad articolarla in tre mosse. La prima si intitola esperienza. Federico Bertoni è professore di letterature comparate e teoria della letteratura all’Università di Bologna. È dunque un insider. Per spiegare come si insegna e come si fa ricerca oggi, il primo passo è quello di descrivere in presa diretta la vita quotidiana di un professore italiano. Bertoni si diverte a mostrare la follia della routinenella quale è imprigionato; ma il tono generale della scrittura è amaro. In questa prima parte del volume lo seguiamo mentre cerca di dribblare il sovraccarico di burocrazia, la mole di email senza fine, le richieste sempre più astruse degli organi di valutazione della ricerca, gli intimidatori comandi dei centri informatici, la scrittura a ritmo fordista di abstract, le lettere di presentazione per gli studenti, eccetera… Ma il lavoro del professore universitario non dovrebbe essere quello di fare ricerca e di insegnare? Sembrerebbe di no. È stato costruito, in meno di due decenni, un esorbitante apparato normativo che per funzionare richiede un lavoro continuo. Ed è precisamente questo il lavoro per cui viene selezionato oggi un professore universitario. Ricerca e docenza passano in secondo piano.
La seconda mossa del saggio si intitola narrazione e ha il compito mostrare al lettore i dispositivi che producono il discorso sull’università, vale a dire quella rappresentazione aggressivamente demolitoria del sistema pubblico alla quale da oltre due decenni siamo quotidianamente sottoposti. A iniziare dalle classifiche di rating mondiali: tutti sappiamo che il nostro sistema non eccelle in queste classifiche. Pochi però si interrogano sul senso di una comparazione che valuta realtà quasi incomparabili. È sensato analizzare allo stesso modo una piccola università privata come Harvard, che ha poco più di 15.000 studenti e che da sola ha un finanziamento pari al 40% dell’intero sistema pubblico italiano, con una università statale come, per esempio, quella di Bologna, dove gli studenti sono quasi 100.000 e le risorse finanziarie, rapportate alle sue dimensioni, sono decisamente scarse? E come mai, nonostante questa disastrosa posizione, l’emigrazione scientifica italiana ha assunto ovunque posizione di rilievo proprio perché molto ben preparata? Non è forse che i conti non tornano del tutto?
Il discorso sull’università ipnotizza però la discussione pubblica soprattutto con tre concetti: merito, eccellenza e valutazione. Sono tre termini tossici. Perché impediscono di ragionare seriamente sul significato politico di un’istruzione universitaria di massa. Bertoni giustamente ricorda che «la meritocrazia tende a premiare chi può accedere a grandi risorse, opportunità, orizzonti sociali e culturali, reti di relazioni. Non c’è bisogno di essere raccomandati dal potente di turno per essere favoriti nella competizione: basta nascere in una “buona” famiglia, crescere in un ambiente sereno, avere i mezzi per viaggiare o studiare le lingue, disporre di una grande biblioteca, rientrare in un sistema ramificato di scambi e di relazioni sociali». Ed è per questa ragione che «merito è solo un altro nome per privilegio». Il secondo termine tossico è eccellenza. Presentata come obiettivo da conquistare grazie al merito, l’eccellenza non è altro che una martellante strategia retorica. Si vuole compensare, in realtà, il senso profondo del fallimento istituzionale dello Stato, nascondendo cause e responsabilità politiche. L’ultimo concetto ipnotico è quello di valutazione: il dispositivo che deve certificare l’eccellenza. Queste sono, fra le pagine del libro, quelle più importanti, un vero e proprio microsaggio di retorica, di politica e di psicologia sociale. Bertoni interpreta la valutazione come un dispositivo di potere che impone, in chi lo subisce, una sorta di auto-coercizione volontaria con effetti pratici immediati: è dal buon funzionamento di questo dispositivo, infatti, che dipendono fondi di ricerca, acquisizioni e posti di lavoro.
L’ultima mossa del volume prende il nome di politica. Bertoni avanza un’analisi impietosa di come l’università si sia progressivamente trasformata in una consumer oriented corporation senza alcuna forma di opposizione da parte di un corpo docente per lo più irresponsabile perché incapace di difendere il nesso humboldtiano ricerca-educazione, ripensandolo all’altezza del presente. A questo quadro già di per sé sconfortante si aggiunga poi una dosa massiccia di esterofilia, aggravata, nel caso della ricerca umanistica, da un senso di inferiorità verso le scienze pure e il loro delirio di onnipotenza. Come se ne esce? Il libro si chiude con dieci azioni semplici e due libri. Anzitutto dieci piccole pratiche di resistenza quotidiana capaci di mantenere viva un’idea altra di università come istituzione in grado di «promuovere una buona qualità media dell’istruzione collettiva, di fondare il progresso del Paese nell’estensione dei diritti e delle opportunità sociali». Quindi la lezione di due libri di Luigi Meneghello: I piccoli maestri (1964) e Fiori italiani (1976). Entrambi insegnano cosa produce l’uso sbagliato dei libri: uno scollamento sempre più grave fra conoscenza astratta ed esperienza del mondo. Quanto una buona università dovrebbe con ogni forza scongiurare.
A margine, una riflessione. È possibile pensare la trasformazione attuale dell’università come risposta politica a un problema di fondo, che potremmo identificare nel nesso fra qualità dell’istruzione di massa e conflitto sociale potenziale? Uno studio degli archivi della Fulbright Commission, sugli anni Settanta italiani, potrebbe forse rivelare risposte inaspettate. In questi anni ci siamo tutti dimenticati che l’istruzione pubblica resta uno dei campi privilegiati della battaglia per l’egemonia.
Universitaly, La cultura in scatola, Laterza, 2016
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