Il prezzo del progresso e la tradizione perduta degli Italiani: intervista a Giuseppe Bufalari
Fonte: antoniocelano.wordpress.com
L’uomo che mi riceve nella centrale ma tranquilla via Dei Macci a Firenze ha la barba e i capelli bianchissimi. Ha gesti cortesi e semplici, come il suo modo di vestire: una camicia a quadri, un pantalone scuro di tela, un paio di sandali aperti. Chi mi ospita nella sua casa accogliente di libri, di legno e di un senso antico è Giuseppe Bufalari, classe 1927, autore del libro La masseria [uscito nel 1960 presso Lerici e ripubblicato da Hacca edizioni nel 2015, ndr], uno dei capolavori del romanzo meridionalista. Accanto a lui il figlio Vieri e la moglie Ketty, a cui lo scrittore dedicò il volume.
Bufalari è lucidissimo: “venni in Basilicata nel 1953 e per un anno sono stato in una masseria. Successivamente fui trasferito a Calvello per altri tre anni. Il libro lo scrissi solo dopo, quando ormai ero a Porto Ercole. Lo terminai là nel 1959, fu pubblicato l’anno successivo”.
D.: Il suo libro raccolse davvero molte critiche positive. Dopo averle lette resta però la curiosità di chiarire meglio le circostanze dei suoi esordi di scrittore…
R.: Vasco Pratolini era originario del rione San Niccolò dove sono nato anche io e lì abitava il suo babbo, ormai anziano. Lo conobbi e quando gli rivelai che scrivevo mi esortò a far leggere le mie cose al figlio. Vasco era già a Roma e mi consigliò di mettermi in contatto, a Firenze, con Romano Bilenchi, il quale era da sempre molto interessato alle giovani leve di scrittori. Bilenchi era molto amico di Luzi e me lo fece conoscere. Di Romano ammiravo la capacità di vedere il suo mondo, di saperlo dire, di saperlo far diventare profondo. Con Luzi c’era invece c’era un comune legame con il cattolicesimo. Io me ne ero staccato, ma dentro me ne era sempre rimasta una profonda traccia. Due amicizie diverse che si compensavano.
D.: Che genesi ebbe “La masseria”?
Bilenchi mi disse che a Milano la casa Lerici gli aveva dato il compito di curare una collana che aveva preso avvio con la pubblicazione del siciliano Antonio Pizzuto. Al momento non avevo nulla da pubblicare. Quando invece scesi in Basilicata, presi a scrivere delle lettere che inviavo a mia moglie, alla mamma e a Romano. Parlavo del mondo antico e profondo che avevo trovato: un cattolicesimo antichissimo e la capacità degli uomini, nonostante un mondo duro e avverso, di poter vivere, lottare, vincere o perdere. Nelle lettere c’era tutto questo ma io non me n’ero ancora accorto. Invece Bilenchi mi esortò a scrivere ancora perché le avrebbe volute pubblicare sulla “Chimera”, una rivista di Enrico Vallecchi. Ma a lui era rimasta in mente l’idea di volermi pubblicare in quella collana. Quando poi nacque il libro ebbi subito la fortuna di una recensione scritta da Montale. Da allora tutti si accorsero di me.
D.: Che idea poté farsi del mondo contadino lucano di quegli anni uno come lei che veniva dalla Toscana della mezzadria, delle città a misura d’uomo, da una regione che dell’equilibrio tra tradizione e innovazione già allora faceva vanto?
R.: Fu una scoperta straordinaria. Ero sempre stato in questo mondo cittadino ingombro di cose, fatto di giornali, di macchine, di chiacchiere. Invece mi trovai scaraventato in questa masseria in un tempo antico, antichissimo. Lì i contadini erano autosufficienti. L’unica cosa che mancava era il sale e infatti le donne avevano il gozzo. Facevano il sapone, il vino, l’olio, il pane, tutto. Per cui era un mondo autosufficiente non solo materialmente, ma anche psicologicamente, perché tutto era spiegato: se uno si faceva male era perché era passato tra due alberi posti in un certo modo; se di notte uno si sentiva male era per la fattura di una “maciara” eccetera. I rimedi che si potevano adottare erano certo semplici: una scopa fuori dalla porta, ad esempio. Insomma c’era una tranquillità interiore. Cioè “so perché accadono certe cose, so cosa posso fare per affrontarle, dunque sono tranquillo”. Intendo interiormente. Insomma non c’erano delle nevrosi perché, se c’erano, allora si ricorreva ai balli o a rituali del tutto diversi. Devo aggiungere che essermi confrontato con Luzi su questi aspetti della spiritualità mi fece giungere più preparato a entrare dentro quel mondo, a viverci.
D.: In quel mondo riuscì ad adattarsi così bene anche alle condizioni materiali di vita, spesso così difficili?
Guardi che non era affatto un mondo povero. Lì c’era tutto, avevano tutto. Era percepito materialmente e culturalmente povero solo da chi proveniva dalle città. Ma altro che poveracci! Lì, tra l’altro, mi accorsi di cose che oggi tutti quanti vedono, cioè che questo nostro mondo ha perso tante cose che cerca affannosamente di recuperare in qualche maniera.
D.: Avrebbe potuto scegliere per il suo romanzo un punto di vista diverso: le classi medie, i paesani, privilegiando di più la tematica del rapporto tra comuni e campagne. Invece scelse questa campagna che continua a vivere ignara dell’apocalisse che incombe e che la spazzerà via.
Avrei potuto scegliere parecchi punti di vista alternativi, ma a me non premeva il paesano che avrebbe potuto scegliere di lavorare per la Riforma magari poi rifacendosi una vita altrove. A me interessava rendere pienamente lo stato dei contadini: non solo con l’intelligenza, ma con l’empatia, con tutto me stesso.
D.: Eppure dal suo libro pare che i contadini, proprio a Calvello, che la visse, non abbiano mai attraversato la stagione delle lotte agrarie provando così a inserirsi nell’ampio processo di democratizzazione del secondo dopoguerra…
Ripeto, non è questo ciò che mi interessava, perché i contadini che descrissi quell’esperienza non l’avevano fatta. Le dico solo, tanto per farle capire, che per andarli a trovare dal luogo in cui ero ci mettevo tre quarti d’ora buoni a passo sostenuto. Erano isolatissimi. Oppure che quando c’era da andare a dare il voto loro si recavano a Picerno e andavano da “Don Raffaele” per farsi spiegare bene che cosa fare. Certo qualche contadino della Riforma l’ho conosciuto, ma io volevo rendere un mondo che se ne va, che non avrei più visto.
D.: A questo proposito: è tornato poi in Basilicata?
Per quasi cinquant’anni non sono più tornato, volevo mantenere intatto il ricordo di quell’esperienza. Poi nel 2003 o 2004, non ricordo bene, la Biblioteca Nazionale di Potenza mi invitò per un convegno e partii. Andai anche a Calvello, chiesi informazioni sulla masseria. C’era il vecchio ponte, ma anche una strada nuova, persino la fiumara non aveva esattamente lo stesso corso di prima. Tutto era cambiato. Poi decisi di orientarmi con la punta del campanile di Picerno che io vedevo sempre spuntare da una parte del monte, come descrivevo nel romanzo. Non ritrovai nulla se non delle pietre in terra con vicino una casa nuova costruita dopo il terremoto del 1980. Nella casa c’era un vecchio: mi disse che la masseria non c’era più e mi chiese chi fossi. Presentatomi, mi riconobbe: era uno dei bambini a cui avevo fatto scuola. Chiamò tutti i parenti della vecchia masseria che avevo conosciuto. Vennero in Mercedes: mi fecero una festa che non scorderò mai. Insomma, i luoghi non c’erano più, erano stati resi irriconoscibili dal tempo. Ma l’impasto delle persone, le loro qualità umane erano restate intatte. Quel giorno ho sentito che cinquant’anni fa ero entrato nella loro vita per non uscirne più.
D.: Ma allora lei è per il cambiamento o no?
Nella sua recensione al mio libro Moravia colse con molta precisione il mio atteggiamento verso quell’esperienza: ogni avanzamento del progresso è necessario perché crea nuovi acquisti, ma è comunque pagato con perdite della stessa entità, anche se queste non appartengono necessariamente alla sfera economica.
E’ stato il mio maestro elementare a porto ercole. Conservo di lui un bel ricordo ed una grande stima. Eravamo vicini di casa ed anche dopo la scuola lo incontravo spesso ed aveva verso di me sempre un gesto ed una parola gentile. Un abbraccio maestro.