Trump presidente
Jacques Sapir riassume con la consueta lucidità i temi principali di questa giornata: la vittoria di Trump che ha saputo esprimere la sofferenza della società americana, la sconfitta di un partito democratico scaduto a puro strumento di Wall Street, il rammarico per Sanders che aveva fatto suoi molti dei motivi che hanno portato Trump alla presidenza – un rammarico che il troppo obbediente Sanders forse non merita. Si profila la crisi definitiva del globalismo americano ed europeista, gli Stati tornano ad essere il centro della storia.
Traduzione di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Trump presidente
di Jacques Sapir • 9 novembre 2016
La vittoria di Donald Trump ha scosso gli Stati Uniti e sorpreso il mondo. Traduce il sollevarsi di un’onda di collera delle classi popolari contro quelle che si chiamano le «élite». Negli Stati Uniti segna una reazione storica contro la frattura sociale, ma anche ideologica e culturale, che ha visto svilupparsi una politica, ma anche dei media, autoreferenziali. Questi stessi media che hanno condotto una campagna isterica a favore di Hillary Clinton sono oggi brutalmente sconfessati. Ne dovrebbero trarre insegnamento; non è sicuro che lo facciano.
Una vittoria, una sconfitta, un rammarico
Ci sono stati, è evidente, dei sentori razzisti nella campagna condotta da Donald Trump, ma gli osservatori che vi si sono arrestati, e che non hanno voluto vedere che questo, hanno trascurato l’essenziale: quest’onda dal profondo che sale da mesi contro la «finanza», contro Wall Street. L’elezione di Trump è, simbolicamente, la vittoria della vita reale su quella virtuale. Questa elezione testimonia anche, implicitamente, che il bilancio di Barack Obama non è così positivo come la stampa vuole dirci, e che l’economia americana non si è mai sollevata dalla crisi del 2007-2009.
Quest’onda avrebbe potuto anche prendere un’altra direzione. Anche Bernie Sanders, lo sfortunato candidato delle primarie democratiche, la incarnava a modo suo, e certo in modo più politico di Donald Trump. È responsabilità storica dell’«establishment» democratico, dei cacicchi del partito, che non hanno esitato a manipolare queste primarie, che hanno esageratamente avvantaggiato Hillary Clinton, aver permesso la vittoria di Donald Trump. Teniamo a mente la lezione. La sinistra può vincere quando riallaccia il legame con il popolo, mai quando si imbarca con i finanzieri e i grandi padroni, con la casta giornalistica e con artisti tanto cangianti quanto incostanti. È uno degli insegnamenti di questa campagna e di questa elezione, e convalida in parte la strategia di Jean-Luc Mélanchon.
Ma questa vittoria è innanzitutto la sconfitta di Hillary Clinton. È apparsa come la candidata della finanza; i suoi legami con le grandi banche d’affari di Wall Street – tra cui Goldman Sachs – erano noti. Intrallazzava con i più ricchi e i più noti. I legami finanziari andavano più in là, e resta da chiarire il ruolo della Fondazione Clinton, in particolare le sue relazioni con i dirigenti di certi paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar. Il suo comportamento, questa commistione di negligenza e di arroganza di cui ha dato prova nell’affare della sua posta elettronica (l’emailgate), è stato rifiutato da una maggioranza di americani. Anche le sue posizioni interventiste e avventuriste in politica estera hanno contribuito a spaventare una parte dell’opinione pubblica.
Le conseguenze
L’elezione di Donald Trump avrà conseguenze importanti, sia negli Stati Uniti che nelle relazioni internazionali. In un senso egli dovrà dare rapidamente soddisfazione a questa maggioranza di americani che ha visto il suo livello di vita abbassarsi mentre quello di una piccola minoranza esplodeva. Il voto degli stati dell’antica cintura industriale degli Stati Uniti, la si chiama la «cintura della ruggine» o rustbelt, è a questo proposito tipico del movimento che ha portato Trump alla presidenza. Dovrà anche ricostruire il partito repubblicano, di cui una parte di élite si è staccata da lui. Il fatto che i repubblicani restino maggioritari al Congresso potrebbe aiutarlo. Ma la sua politica sarà combattuta tra l’ala più reazionaria del partito e la sua volontà di soddisfare i suoi elettori, in particolare con il lancio di grandi programmi di investimenti pubblici. Dovrà, simbolicamente, riconciliare con loro stessi gli americani che escono divisi da questa campagna vista come calamitosa da una grande maggioranza.
Ma è sicuramente nelle relazione internazioni che le conseguenze dell’elezione di Donald Trump segneranno progressivamente i più grandi cambiamenti. Il presidente appena eletto non ha fatto mistero della sua volontà di migliorare le relazioni degli Stati Uniti con la Russia, di mettere fine alla sovra-estensione dell’apparato militare americano, di tornare a una visione più realista degli scambi internazionali, lontana dai dogmi del libero scambio. Non sarà più l’ora dei grandi trattati internazioni come il TAFTA o il CETA. Il protezionismo è di ritorno, e bisognerà pensarlo se se ne vuole trarre tutti i vantaggi e mettere in opera questa «demondializzazione» ragionata che mi auguro e che oggi sembra inevitabile. Accettiamone dunque l’augurio, per quanto consapevoli che la politica di un paese come gli Stati Uniti non cambia direzione in qualche giorno o qualche settimana.
Ma è chiaro che l’elezione di Donald Trump è portatrice di speranza per le relazioni con la Russia, e che l’atteggiamento di scontro adottato da Washington sull’Ucraina o sulla Siria non sarà mantenuto. Anche questo è un punto positivo di questa elezione. Ci auguriamo che sia compreso anche nei paesi europei che hanno – stupidamente – deciso di mantenere le sanzioni contro la Russia.
Le conseguenze per l’ideologia europeista
Più in generale, questa elezione rimescola le carte anche per l’Unione Europea. Non è un caso se l’ex primo ministro italiano, Enrico Letta, dice che si tratta dell’avvenimento più importante dalla caduta del muro di Berlino. Le élite europeiste hanno perduto un sostegno decisivo nella presidenza americana , e lo si sente tanto dalle reazioni di Juncker e Tusk quanto da quelle di Angela Merkel o di François Hollande. Viceversa, le personalità politiche che contestano questo europeismo, da Nigel Farage a Beppe Grillo, passando per Marine Le Pen, si rallegrano di questa vittoria di Donald Trump.
Beninteso, si tenterà di intonare il famoso ritornello sull’Europa federale e si cercherà di rianimare le fiamme moribonde di un’integrazione europea. Ma le divisioni tra gli Stati della UE non spariranno per incanto. Gli interessi di questi Stati resteranno quelli che sono, opposti a ogni integrazione. Occorrerà dunque, un giorno o l’altro, trarne le conseguenze e tornare a questa politica delle nazioni, che d’altronde non esclude la cooperazione e l’amicizia tra le nazioni stesse. Rifiutandola, i dirigenti europei rischiano di esasperare la collera che, anch’essa, bolle nell’Unione europea. Le negazioni di democrazia sono state troppo numerose, troppo sistematiche. Questi dirigenti sono sotto la minaccia di sperimentare, nella loro misura e nelle loro condizioni, la sorte di Hillary Clinton.
È però poco probabile che comprendano che abbiamo cambiato epoca, certo non per questa elezione presidenziale che è soltanto un elemento di più nel cambiamento, ma perché oggi, e da più di dieci anni, viviamo il grande ritorno delle nazioni. Nulla è più drammatico di quando le élite, politiche o culturali, si aggrappano a una visione del mondo che la realtà ha sorpassato e smentito. Si può vivere in una bolla fino a un certo punto. Ma, arrivato il momento, la bolla scoppia e bisogna pagare ad alto prezzo questo mondo di illusioni che ci si è costruiti.
Fonte: russeurope.hypotheses.org
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