Lineamenti del nuovo trentennio: il progetto Neo-Assolutista contro il Populismo
di RICCARDO PACCOSI (FSI Bologna)
In vari interventi letti in Rete, ho avuto modo di leggere una sintesi efficace atta a descrivere il sommovimento politico e ideologico che sta scuotendo i sistemi liberal-democratici occidentali: suddetta sintesi sostiene, in breve, che sia iniziato un nuovo trentennio.
Dapprima, infatti, vi fu il cosiddetto “trentennio glorioso” – dalla seconda metà degli anni ’40 alla prima metà dei ’70 – caratterizzato, in Europa occidentale, dall’egemonia dei movimenti operai, dall’espansione dei diritti sociali e dalla distribuzione del benessere.
A seguire, vi fu il trentennio contro-rivoluzionario – iniziato alla fine degli anni ’70 e proceduto sino a oggi, dunque quasi un quarantennio – caratterizzato dall’egemonia dell’ideologia neoliberista e dalla strategia di distruzione lenta – ma inesorabilmente progressiva – di tutte le conquiste sociali realizzate nel trentennio precedente.
Dopo questi due lunghi cicli, ebbene, ci troviamo alla conclusione della citata onda contro-rivoluzionaria e assistiamo, altresì, alla fase aurorale di una fase storica tanto nuova quanto di difficile definizione.
Sul piano delle categorie politiche, una delle polarizzazioni che caratterizzano questo nuovo trentennio è certamente quella che contrappone sovranismo a globalismo. Ma quest’ultima, a sua volta, è inclusa in una polarizzazione ancora più ampia, che investe la dottrina giuridica dello Stato e la filosofia politica: ovvero lo scontro tra il costituzionalismo – strutturante da oltre un secolo e mezzo gli stati-nazione europei – e un progetto liberale di nuovo assolutismo.
Quest’ultimo, a differenza dell’assolutismo storico, non vuole fondarsi sullo stato-nazione ma, al contrario, punta alla dissoluzione di quest’ultimo entro un dispositivo di governance globale.
Inoltre, il neo-assolutismo non ha alcuna intenzione di ripristinare la vecchia società disciplinare-patriarcale ma, invece, esprime l’intento di mantenere le caratteristiche della “società aperta” nonché quello di sviluppare dispositivi di partecipazione popolare che siano, però, deprivati di effettivo potere decisionale.
Per conseguire tali risultati, è ovviamente necessario destrutturare gli stati-nazione ma, preliminarmente, è necessario un processo di riduzione e/o svuotamento del suffragio universale all’interno dei vari stati. L’argomentazione posta a sostegno di tale esito, consta del dover contrastare la costellazione sociale e politica che si sta opponendo al disegno neo-assolutista, ovvero la costellazione che i progressisti-globalisti hanno definito “populismo”.
Finora, nessun capo di stato ha enunciato pubblicamente una riforma volta a ridurre e dunque a eliminare il suffragio universale. Ma un numero sempre maggiore di figure interne al campo progressista-globalista, si sono poste come “avanguardie” atte ad anticipare, presso l’opinione pubblica, la necessità storica di tale sviluppo.
a) In Italia, fra i primi ad aver posto tale prospettiva vi è sicuramente Eugenio Scalfari. Recentemente e a più riprese, infatti, il fondatore di Repubblica ha esplicitamente teorizzato come le democrazie non debbano fondarsi sulla sovranità popolare ma, esclusivamente, sulla partecipazione e sulla consultazione.
b) Mario Monti – sempre più esplicito di qualsiasi altro esponente della èlite globalista – ha invece detto, a proposito della consultazione popolare sui Trattati internazionali, che essa rappresenta “un abuso di democrazia”.
c) Un’altra figura che si trova nelle condizioni di poter esprimere le proprie idee senza doverle delimitare a logiche di mediazione, è Giorgio Napolitano. Questi ha recentemente dichiarato: “il suffragio universale non è sempre stata una storia di avanzamento, ma anche foriero di grandissime conseguenze negative per il mondo”.
Per il momento, nella cornice di uno scontro fra i paradigmi del costituzionalismo e del neo-assolutismo, possiamo trarre due inesaustive e temporanee conclusioni riguardanti le due categorie – più strettamente politiche – che sono diretta espressione di suddetto scontro: il sovranismo e il populismo.
1) La parola “sovranismo” – la cui presenza è sempre più frequente e trasversale nel dibattito politico – non si limita a sostenere la difesa dello Stato-nazione. No, la parola “sovranismo” implica un approccio filosofico-politico che pone al centro la sovranità popolare. In altre parole, il sovranismo è ciò che rispetta il significato etimologico e storico del concetto di democrazia; non identifica quest’ultima, cioè, nei diritti o nella partecipazione bensì nell’esercizio effettivo del potere – ancorché relativo e ancorché utilizzante strumenti di mediazione quali partiti e corpi intermedi – da parte delle masse popolari.
È per questo motivo strategico che un numero lentamente ma insesorabilmente crescente di marxisti – come il sottoscritto – sta sposando la causa sovranista: l’obiettivo marxista del potere politico da parte della classe lavoratrice, infatti, risulta non perseguibile se scompare dal quadro il costituzionalismo e, di conseguenza, il più generale potere politico da parte delle masse popolari.
In sintesi, il sovranismo riconduce la democrazia al suo valore fondante e originario che non è quello della partecipazione, bensì quello del potere popolare.
2) Per quanto riguarda la categoria di populismo, solo di rado essa viene correttamente interpretata perché l’analisi tende a fossilizzarsi sulle formazioni politiche e sui leader che si sono fatti interpreti e catalizzatori del fenomeno. Ma il ruolo di catalizzatore non è detto coincida con quello di soggetto storico. Se analizziamo le istanze ricorrenti nella costellazione populista, infatti, osserviamo che la soggettività in campo non è affatto quella dei vari Beppe Grillo, Marine Le Pen o Donald Trump. Le istanze ricorrenti nei vari paesi – critica alla globalizzazione, difesa sovranista dello stato costituzionale, protezionismo e dirigismo economico – sono il filo comune dei vari elettorati francese, inglese, americano, italiano. Quindi, le citate istanze sono l’espressione della soggettività delle masse popolari di diversi paesi, non dei leader populisti che le raccolgono.
All’interno di questo processo costitutivo della soggettività, va altresì ricordato, un ruolo particolare e centrale è stato svolto dalla classe operaia e dai ceti più disagiati.
Il problema delle formazioni e dei leader che hanno saputo interpretare tali istanze e tradurle in consenso elettorale, invece, sono due:
a) la natura di destra di molte di queste formazioni, può portarle a perseguire lo stesso schema semplicistico dei neoliberisti: a fronte della trasformazione in atto, il costituzionalismo potrebbe essere cioè considerato un sistema rischioso e imprevedibile e di conseguenza – proprie queste forze aventi ottenuto consenso in virtù dall’istanza di ripristinare il potere popolare – potrebbero invece proporre una variante del neo-assolutismo;
b) collegato al precedente, vi è poi il problema dell’assenza di cultura e teoria politica; oltre che portare alla deriva autoritaria, la mancanza di un pensiero forte e sistematico potrebbe far sì che gli attuali rappresentanti del populismo possano non essere all’altezza di fronteggiare il progetto neo-assolutista – e cioè la reazione – del fronte progressista-globalista.
Pertanto, ciò che rimane da fare è continuare a leggere il populismo come fenomeno storico che sostiene il costituzionalismo in contrapposizione al neo-assolutismo. In questi termini, qualunque lettura “di sinistra” che interpreti il populismo come fenomeno storico reazionario, è decisamente fuorviante e, pertanto, da respingere.
Infine, occorre non perdere mai di vista le istanze che la soggettività di classe esprime tramite il populismo e, al contempo, è necessario lavorare pazientemente alla costruzione di partiti e corpi intermedi dotati – a differenza delle formazioni populiste attuali – di una visione sistematica del processo storico in corso.
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