In memoria (sui fatti di Udine e Lavagna)
di LUCIA BIASCO (FSI Foggia)
“Non qui e non ora”. Così scriveva Michele. Se non qui e se non ora, allora altrove. Occorre partire. In viaggio, verso i propri obiettivi.
In fondo partiamo ogni giorno per quel viaggio. Su rotaie spesso dissestate, su vagoni scomodi, presso stazioni poco sicure. Il motore capita che si deteriori, la passione per il panorama viene a mancare, i vetri si offuscano, e il da farsi si fa incerto. Il convoglio può rallentare o addirittura fermarsi in mezzo al nulla. Isteria del ritardo. può anche succedere che la fretta degli obiettivi ci faccia sbagliare fermata. Ma possiamo scendere e risalire sul treno tutte le volte che vogliamo. Possiamo anche cambiare direzione, e riprendere più soddisfatti il viaggio.
Ma si può anche rimanere senza più biglietti, e decidere che non c’è più tempo per acquistarli e che ogni luogo è troppo lontano per essere raggiunto.
E così si sceglie il velocissimo viaggio dell’ultima fermata, l’unica che sembra gratuita, verso un luogo e un tempo dove si crede che non sia più necessario “sopportare sforzi che non ottengono risultati”.
Se sia davvero così non possiamo saperlo. L’ignoto è l’unico spettro che aleggia sia nella vita che nella morte. E poi ci sono i sogni, che quest’epoca famelica ha mutato in gastritiche veglie, invidie, ossessioni, incubi. Perché proprio come un supplizio degli inferi, tutto sembra a un passo dalle proprie mani, ma nulla si lascia afferrare.
Il vento incessante del consumismo ci ha allucinato e convinto che nulla di interessante ci sia nel qui e ora. Ci spinge sempre avanti, verso un non meglio identificato domani dove tutto sarà migliore. Il panino più succulento è quello che mangeremo, non quello che stiamo mangiando. Il cellulare con mirabolanti, imperdibili funzioni è quello che compreremo, non quello che abbiamo già acquistato col mutuo di mille rinunce. L’auto più efficiente, più potente, dal controllo scattante, aitante e sportivo, è quella che prenderemo dopo aver venduto quella familiare comprata da pochi anni. La compagnia più esaltante è quella del bar, del tempo spumoso di una birra, forse due, di persone sempre nuove, conosciute e dimenticate, per far posto ad altre da conoscere e da dimenticare.
Altrove. Sempre altrove. All’indomani dell’amore. Nel calendario non ancora scritto delle occasioni da cogliere. Occasioni che sbeffeggiano il presente. Lo spogliano. Lo denudano. Come bulli fotografano, rubano intimità e le trasformano in imbarazzi, le svendono in scandali e le buttano nella piazza dei dejà vu. Non qui e non ora. Ci hanno addestrato a non credere più in ciò che abbiamo, ma solo in ciò che potremo avere.
Al Mercato piace solo chi corre bendato dal dio del desiderio, sempre pronto alla prossima spesa, non chi arranca spaccando gli spiccioli tra dubbi e rimedi. E così la Mano Invisibile ci seduce, ci inganna, narrandoci di vittorie senza dedizione e di successi senza fallimenti. ci costringe a vergognarci degli sforzi e ci sobilla a sperare di arrivare al futuro senza passare per il presente. Ci dichiara che «non possiamo» pretendere nulla, ma che «dobbiamo» cercare la felicità, nascosta in qualche domani.
E invece “da questa realtà”, si può e si deve pretendere una cosa: il qui e ora.
Nel qui e ora ci si prende cura di se stessi e si impara a “non sprecare sentimenti”. I sentimenti non vanno sprecati, aveva ragione Michele. Vanno concessi con cura e dignità, senza smancerie per accattivare, ma solo con semplicità per conoscere e farsi conoscere. Ma soprattutto i sentimenti vanno costruiti insieme, con la medesima disponibilità, con i mattoni dell’oggi.
Senza questi mattoni, domani vi saranno solo frane e macerie. E non è vero che la serietà di un sentimento matura solo col tempo. Fin dal suo primo affacciarsi come intento, un’emozione si mostra per come realmente è: fatua, pressante, totalitaria, piuttosto che curiosa, rispettosa, reciproca.
Se non fossimo abbagliati dalla ricerca ossessiva del futuro, non sprecheremmo i nostri sentimenti, li soppeseremmo, e ci accorgeremmo dei pericoli del presente. Ci accorgeremmo che la malia di quest’epoca in cui tutto si deve comprare, ci spinge a indebitarci d’amore, investendo le nostre speranze in un tempo alieno, sconosciuto, dove come per magia i semi che non hanno messo radici oggi, dovrebbero dar frutti domani. Ci accorgeremmo che in quest’epoca in cui tutto si deve consumare, la purezza dei sentimenti viene stuprata dal cinismo, insozzata dalla promiscuità, seviziata dall’egoismo.
Quest’epoca sempre gravida di eccessi, non partorisce mai la gioia. I suoi figli sono spesso vulnerabili, suggestionabili, ribelli contro se stessi, inermi e soli. Oppure sono boriosi, indifferenti, ribelli contro gli altri, in fondo anch’essi senza le giuste armi, e soli. Figli entrambi dell’individualismo, due facce della medesima, falsa moneta di umanità. Non sanno lottare per imporsi senza soffrire o far soffrire. Perché quest’epoca non è mai maestra di equilibrio. Non insegna mai ad affermare la propria personalità senza prevaricare quella altrui.
Quest’epoca mercantilista addestra solo a competere, e quindi a dividerci gli uni dagli altri. Mai ad imparare gli uni dagli altri. Non ci mette davanti compagni di viaggio e sfide da affrontare con lealtà. Non ci mostra il coraggio. Ci scaraventa addosso individui e ci ordina che sono nemici, da combattere e annientare. E ci insinua la paura. Perché solo con la paura scappiamo dal presente.
Scappiamo dai nostri luoghi, dai nostri affetti, alla ricerca di qualcosa che dovrebbe farci vincere.
Michele si chiedeva “cosa si prova a vincere”. Probabilmente se lo chiedeva anche il piccolo Giovanni, e con un pugno di hashish si illudeva di riuscirci. Vittorie misteriose. “Questa realtà”, non ci ha mai detto cosa cercare nella vittoria. Di cosa aver paura nella sconfitta.
E noi che non siamo ancora “stufi di domande”, avremmo dovuto capire che non c’è più niente di ovvio. Che c’è tutto da tornare a imparare. La felicità, sì, ma la felicità del qui e ora. la felicità non di vincere, ma di condividere. Che in quest’epoca di dispotismo delle ambizioni, far fruttare il proprio talento non deve far dimenticare la gioia di possedere quel talento. Che in quest’epoca di spazi sempre più immensi e sempre più anonimi, in cui il futuro è sempre altrove, lontano, da soli, la famiglia è l’unica luce che mostra la lunga, ombrosa, deforme faccia del cannibalismo dei Mercati.
La famiglia è l’unico luogo e l’unico momento in cui si possono sopportare gli sforzi, anche se non ottengono risultati. La famiglia è l’unico bene che dà garanzie e identità. Per questo ai Mercati non piace e tenta in tutti i modi di sbranarla. I Mercati hanno fame soprattutto di famiglia. Di figli. Di amore pulito e di solidarietà. Solo così possono rigurgitare Esseri con la smania di acquistare l’inutile, con il vanto della promiscuità e del disprezzo dei deboli. Esseri aizzati ad essere superficiali, illusi di poter acquistare tutto, anche e soprattutto la felicità, e che in questa inappagabile ricerca diventano schiavi di chi li illude, e neppure si accorgono che non possono comprare più neppure l’indispensabile. Comprano colpe e mai responsabilità.
La responsabilità è legata ai doveri, al coraggio, alle sfide, agli affetti, alle radici. I rimorsi e le colpe che non sono seguiti dalla responsabilità, conducono all’accidia, al tormento, alla solitudine, all’arrendevolezza.
Per questo il termine «colpa» piace così tanto ai Mercati. Basti pensare al «redemption fund», in base a cui essere poveri è una colpa, e se ne paga profumatamente lo scotto che porterà a ulteriore povertà e quindi ad ulteriore colpa, in una morsa infernale senza fine, dove redenzione non è mai sinonimo di rimedio, di sacro dovere di rialzare la testa e riprendere per il meglio in mano la propria vita, ma è solo sinonimo di punizione. E quindi, ancora una volta, di schiavitù. Chi ce la fa, vive e paga, chi non ce la fa, muore. Con gran sollievo di chi incassa. Perché questo fanno i Mercati: incassano.
Il loro dogma è: consuma. Il corollario: se non puoi pagare, ti punisco. E il veleno della punizione, tossico come il fumo fetido delle sue industrie, i Mercati da tempo provano a inculcarlo come valore sociale.
Uno dei modi che ha il mercato di attaccare la famiglia, è proprio quello di rendere vana, poco credibile, delegittimata, la sua funzione educatrice. Educare presuppone sì la punizione, ma sempre in funzione della comprensione della responsabilità e del dovere di nobilitare la propria anima e la propria esistenza. Mai è punizione che mira a umiliare, e a impedire di migliorare. Chi educa davvero, insegna l’azione che muta l’errore in conoscenza, e la nuova conoscenza, in nuova e più idonea azione.
Ma i Mercati non amano l’azione che muta l’esistenza e la rende indipendente dai propri diktat. Per questo come viscidi aracnidi tessono la loro tela nelle scuole e nelle famiglie, le due istituzioni nutrici del buon senso. Non meravigliamoci se soprattutto lì, in sfregio di ogni equilibrio, la Mano Invisibile costruisce eccessi: o anarchico, nevrotico affrancamento da ogni disciplina, nel culto di libertà vanesie, sgargianti come arcobaleni ma inquinanti come plastica, o grigio, spietato rigore e giustizialismo.
E molti rimangono con affanno sul filo tagliente di questi due mondi, e a volte, inevitabilmente, cadono rovinosamente in uno dei due.
La mamma del piccolo Giovanni lo ha denunciato. Per punirlo? Per responsabilizzarlo? Per offrirgli un’altra soluzione al problema? Semplicemente perché la sua paura di fare la cosa sbagliata, le ha fatto delegare le sue azioni ad altri? In molti si sono scagliati contro questa decisione. Che sia stata sbagliata, lo ha decretato solo il senno del poi.
Lo stesso senno del poi dovrebbe far tacere chi non ha avuto il senno del prima, chi non ha capito che siamo tutti vittime di un’epoca confusa e atroce, che ci strappa la mente con la paura di essere piccoli e inetti, la rattoppa con il gigantismo delle ambizioni, di un decantato, irraggiungibile perfezionismo, e ci abbandona proprio quando abbiamo più bisogno di aiuto.
I Mercati pensano solo a stabilizzare i prezzi, non a rendere stabili le coscienze, che anzi, fanno loro comodo poco salde e poco attente. Attenzione e solidità che possiamo ritrovare. Guardiamo ora, occhi negli occhi, la faccia, anzi, le tante facce senza vergogna di queste Mani Invisibili. Ci accorgeremo che non sono così invisibili, e che possiamo allontanarle dai nostri beni, dai nostri affetti, dalle nostre case, dalla nostra dignità.
La felicità è nella responsabilità di oggi di riprenderci la nostra vita. Non è mai domani, se non agiamo qui e ora. Cerchiamo di non vivere in memoria di ciò che ci piacerebbe essere. Viviamo nel piacere di chi siamo.
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