La risposta di Stefano Lucarelli
Ringrazio Stefano Lucarelli per aver risposto cortesemente e sollecitamente alla mia richiesta.
Lucarelli nega che vi siano rischi che un eventuale ritorno al protezionismo generi guerre e sostiene che "Uscire dall'euro potrebbe essere una strada razionale per molti Paesi, tra cui il nostro. Si tratterebbe comunque di una scelta che presupporebbe l'acuirsi delle tensioni fra la Germania – il creditore – e i Paesi periferici – i debitori".
Sono ovviamente d'accordo, tanto che nel Documento di analisi e proposte è scritto che "Sarebbe preferibile che l'uscita avvenisse nel medesimo contesto temporale dell'uscita di altre nazioni del sud Europa ed eventualmente dell'Europa dell'Est (ed è probabile che ciò accadrà), per rendere più agevoli le negoziazioni con l'unione Europea. L'importante è che sia chiaro che non si tratterà di un passaggio indolore e che lo scontro e il contrasto politico con la Germania ed altri paesi dell'Unione Europea sarà molto probabile: si verificherà se le parti non troveranno un accordo. La libertà ha, ed è bene che abbia, un costo". Anzi, nel Documento è pure chiarito "che lo sganciamento, pur volendo formalmente utilizzare la procedura prevista dal Trattato di Lisbona, avverrà con provvedimenti di rottura dell'ordine giuridico dell'Unione Europea, che anticiperanno il recesso…". Tenga conto Lucarelli che l'uscita alla quale io mi riferisco è l'uscita dal mercato unico, ossia dall'Unione europea, non soltanto dalla moneta unica.
Lucarelli poi osserva e mi domanda: "Lei crede che questa situazione non avrebbe delle conseguenze sul piano dei rapporti politici con la Germania?".
Rapporti politici, non credo, se tutto sarà gestito dauna vera classe dirigente. Andremmo dalla Germania a dirle: guarda, gli errori commessi nel passato e dei quali abbiamo subito le conseguenze, ci hanno indebolito in molti settori. Dobbiamo riprenderci e in attuazione della nostra Costituzione lo faremo. Niente gare europee, niente antitrust: socialisti, di nuovo come un tempo. Tu Germania scegli i settori strategici che vuoi proteggere; noi scegliamo i nostri. Le diremmo poi che noi vogliamo orientarci, lentamente ma progressivamente, verso una riduzione del commercio internazionale (la finanza internazionale la vogliamo addirittura distruggere).
Che potrebbero dirci? Minaccerebbero di inviare i carri armati? Francamente non credo. L'unico ostacolo è dentro di noi che non sappiamo concepirci come popolo, non dico coraggioso, ma semplicemente dignitoso e diretto verso una meta. Si vuol persistere in un atteggiamento che trasposto sul piano della psicologia individuale rivela servilismo, pigrizia, depressione, squallore, decadenza, pavidità.
La patria è la casa dell'Uomo non dello schiavo e il socialismo, qualunque cosa si intenda con questa parola (socialismo cattolico, democratico, progressivo, popolare, costituzionale, decrescista) non è nemmeno concepibile e desiderabile se manca un popolo fiero.
***
Caro D'Andrea
la sua domanda è importante ed intelligente.
Rispondo in breve:
ha ragione il protezionismo non è causa delle guerre che hanno
caratterizzato il '900. Su ruolo che esso ha avuto nell'alimentare le
tensioni belliche in età moderna se ne può invece parlare. Rinvio alla
voce di Riccardo Faucci e Guido Pescosolido per l'Enciclopedia Treccani.
http://www.treccani.it/
Tuttavia, nella frase di Christian Marazzi da me riportata, ciò che per me
contava era l'accento posto sulla corsa alle svalutazioni competitive per
riconquistare fette di mercato sottraendole agli altri Paesi.
La svalutazione del dollaro nei confronti dell'euro accentua infatti la
tendenza al "quasi colonialismo" da parte della Germania nei confronti
delle periferie europee su cui mi sono soffermato nel punto 4 dei miei
"Appunti sulla guerra valutaria".
Segnalo a tal proposito che tra aprile e fine ottobre 2013, il cambio
dollaro-euro è passato da 1,28 a 1,38. Rispetto alle principali valute,
l'apprezzamento dell’euro è stato del 7,2 per cento.
Secondo Unicredit un apprezzamento del 10 per cento equivale ad un rincaro
di 0,5-1 punto dei tassi di interesse che, a loro volta, hanno un impatto
negativo sulla crescita del Pil dello 0,8 per cento in due anni.
Noto per inciso che – in questa prospettiva – la recente manovra di
riduzione del tasso Bce ha tra i suoi scopi principali:
1. la gestione del debito pubblico europeo;
2. il controllo della bolla speculativa che ha per oggetto la
rivalutazione dell'euro. La manovra della BCE ha infatti colto di sorpesa
gli hedge funds che avevano puntato 12 miliardi di dollari su un ulteriore
rialzo dell'euro.
La svalutazione competitiva che interessa l'euro innesca delle tensioni
forti fra la Germania e gli Stati Uniti e dentro la stessa euroarea.
Uscire dall'euro potrebbe essere una strada razionale per molti Paesi, tra
cui il nostro. Si tratterebbe comunque di una scelta che presupporebbe
l'acuirsi delle tensioni fra la Germania – il creditore – e i Paesi
periferici – i debitori.
Immaginiamo che l'Italia esca dall'euro e adotti al contempo delle misure
protezionistiche. Lei crede che questa situazione non avrebbe delle
conseguenze sul piano dei rapporti politici con la Germania?
Immaginiamo invece uno scenario ancora meno probabile, cioè che il lavoro
diplomatico all'interno dei Paesi membri dell'euroarea conduca la Germania
ad uscire dall'euro. Come si comporterebbe la Germania nei confronti dei
Paesi che restassero in un'eurozona caratterizzata da regole diverse da
quelle che la stessa Germania ritiene legittime? Come reagirebbe ad una
svalutazione del nuovo euro nei confronti del nuovo marco, ciò che
innanzitutto significa un ridimensionamento al ribasso del valore in euro
dei debiti che essa pretende di riscuotere?
Con queste domande non voglio certo sostenere che "fuori dall'euro c'è la
guerra", ma semplicemente che le svalutazioni competitive producono forti
tensioni fra stati sovrani.
Nel ragionamento che ho posto alla sua attenzione esse mi appaiono simili
alle tensioni che caratterizzano una colonia che voglia ribellarsi dal suo
stato di dipendenza politica ed economica.
La saluto molto cordialmente.
Quello di Marazzi mi sembra un argomento superato: ormai la critica al "liberoscambismo di sinistra" è compiuta. La questione è stata già chiarita da Emiliano Brancaccio, che in questi anni penso che sia stato il primo economista di formazione marxista ad avere messo in discussione il taboo sinistrorso e sgombrato il campo da sciocchezze come quella secondo cui "il protezionismo porta alla guerra". Posto qui sotto il link al capitolo di un libro che Brancaccio ha scritto con Marco Passarella, e che è stato da poco messo in rete:
http://www.emilianobrancaccio.it/2013/11/08/contro-il-liberoscambismo-di-sinistra/
A Sergio mi permetto di segnalare:
questo mio articolo del 2010: https://www.appelloalpopolo.it/?p=1742
questo articolo di Massimo Pivetti, che si sofferma anche sulla libera circolazione delle persone: https://www.appelloalpopolo.it/?p=5540
Bene, mi fa piacere notare che in tanti stiano contribuendo all'abbandono dei vecchi dogmi. Brancaccio già parlava del "taboo liberoscambista" al Social Forum di Firenze nel 2003. All'epoca non ci capivamo niente. Adesso dobbiamo ammettere che è stato preveggente.
Massimo Pivetti, qui citato da Augusto Graziani (https://www.appelloalpopolo.it/?p=8502), poneva il problema nel 1994 (nel 1993 il Manifesto gli negò la pubblicazione di un articolo in cui affermava addirittura che il mondo del lavoro doveva essere favorevole a una rigorosa limitazione dell'ingresso degli stranieri: era fuori linea e evidentemente sul tema i comunisti non dovevano nemmeno dibattere). E qualche post più giù trovi la proposta dell'economista marxista e membro dell'assemblea costituente Antonio Pesenti il quale nel 1947 voleva introdurre come principio costituzionale la protezione delle imprese pubbliche e private italiane. Quindi le posizioni che si vanno diffondendo hanno una lunga e autorevole tradizione di pensiero.
Ma ripeto non può essere irrilevante il protezionismo delle esperienze del cosiddetto socialismo reale. Bastava riflettere su quelle esperienze.
Ho abbandonato la militanza a sinistra (e finalmente ho ritrovato la militanza, sovranista questa volta) perché mi appariva da tempo evidente che i militanti di sinistra, sia pure all'interno di diversi orientamenti e indirizzi, seguono in modo assoluto le idee dei leader politici o intellettuali (Negri, Asor Rosa, per alcuni anche Viale) e credono che un pensiero giusto debba comunque venire da un marxista autorevole. Insomma quando un marxista autorevole afferma un concetto, alcuni lo seguono; se il medesimo concetto è affermato da un non marxista o da un marxista non autorevole, nessun militante o discepolo marxista accoglie quel principio.
Io, che allora studiavo tutt'altro, rinunciai a partecipare al forum sociale di Firenze perché i new global avevano chiaramente prevalso sui (pochi in fondo) no global: in l'"Antologia del dissenso" c'era anche vero pensiero no global (Marcos stesso).
Questa volta sono certo che le cose siano cambiate: chi diventa sovranista non torna indietro e chi è unionista è il nemico reale (per ora il fascismo è il nemico ipotetico e in parte immaginario). I sovranisti saranno sempre di più. Anni fa mi prendevano per paranoico; ora non più. Che Brancaccio e Sebastiano Isaia, Pivetti e Toni Negri stiano da una stessa parte perché comunisti (ciascuno a suo modo) è assurdo: Brancaccio e Pivetti stanno da una parte; Toni Negri, Guido Viale e Sebastiano Isaia dall'altra. Sono chiaramente avversari politici Possibile che non lo sappiano? Possibile che la parola comunista renda ciechi?
Christian Marazzi non è un liberoscambista di sinistra. Apprezzo il libro di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, studiosi con cui sono solito confrontarmi con grande franchezza, che con me condividono il rifiuto di ogni dogmatica. Ribadisco il punto centrale su cui nulla è ancora compiuto: La svalutazione del dollaro nei confronti dell'euro accentua la tendenza al "quasi colonialismo" da parte della Germania nei confronti delle periferie europee.
Si, Lucarelli, il suo ragionamento appare, anche a un non economista come me, assolutamente lineare. Però in certo senso direi che avvicina anche il giorno del giudizio, sicché, personalmente, non me ne preoccupo.
Caro D'Andrea, cerchiamo di fare un passo avanti in questo sforzo congiunto di riflessione. Le chiedo: da cosa dipende la possibilità di vivere il giorno del giudizio (immagino che per Lei coincida con il crollo dell'UME e il ritorno alla sovranità nazionale) come un'opportunità per ridurre il saggio di sfruttamento nel nostro Paese?
E' probabile che Lei ricorra ai concetti di "vera classe dirigente" e di "popolo fiero", concetti – da Lei richiamati – che prendo sul serio.
Le chiedo di chiarirmi cosa intende per "vera classe dirigente" e per "popolo fiero".
Inoltre: chi potrebbe oggi in Italia costituire una "vera classe dirigente"? Il popolo italiano è un "popolo fiero"?
Ipotizziamo infine che effettivamente la riduzione del saggio di sfruttamento (l'obiettivo che credo vogliamo porci) dipenda dai due concetti di "vera classe dirigente" e di "fierezza del popolo italiano". Cosa ci garantisce che nel "giorno del giudizio" in Italia vi siano una "vera classe dirigente" e un "popolo fiero"?
Per rendere meno astratto il ragionamento le segnalo due letture, in cui la "capacità della classe dirigente" è limitata alla capacità di governare la dinamica economica strutturale, cioè la politica industriale e delle innovazioni: la prima è un breve articolo di Segio Parrinello. La seconda è un lungo saggio a firma di Daniela Palma, Robero Romano e mia. Entrambi sono scaricabili dal web:
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Dopo-l-austerita-quali-politiche-espansive-17358
http://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/view/10421/10305
Caro Lucarelli,
quello italiano oggi non è un popolo fiero. Sorvolo sulle cause che hanno condotto all'attuale situazione.
La fierezza nasce da una ricostruzione della storia passata, non esiste altra possibile genesi. Dunque, per cominciare a ricostituirla, è necessario andare alla ricerca del meglio della nostra storia: il volontarismo risorgimentale, il pensiero di Mazzini, la figura di Garibaldi, la Costituzione romana, la precoce abolizione della pena di morte, la compattezza mostrata nella macelleria della prima guerra mondiale, l'eccellente legge bancaria del 1936, lo scoperto infinito dello Stato presso la banca d'Italia (1936-1945), il divieto di acquistare titoli emessi all'estero per motivi speculativi (1934), la stratosferica tecnica legislativa dei codici, la resistenza, la costituente, la riforma agraria, l'abolizione della mezzadria, la piena occupazione, la scala mobile, lo stato sociale, il piano casa, la enorme mobilità sociale degli anni settanta e ottanta, il non aver avuto per decenni, fino a Berlusconi, imprenditori che abbiano ricoperto ruoli politici di primo piano, una scuola e una università di massa a lungo più serie e (quindi) severe rispetto a scuola e università di altri Stati a noi simili, la repressione della rendita finanziaria fino al 1981, l'attenuazione delle differenze tra nord e sud nel periodo 1951-1981, le partecipazioni statali e altro ancora.
Come si genera questa fierezza della propria storia, l'unica forza dalla quale può nascere la volontà di progettare un futuro, anche limando pian piano i propri limiti? Essa non nasce certamente dal nulla; può sorgere soltanto dal connubio di pensiero volontà e azione. E ovviamente, all'origine del processo non può che esserci una minoranza, impegnata nella promozione di un soggetto collettivo. E' dentro il soggetto collettivo che un popolo può generare una "vera classe dirigente", che forse può svolgere e storicamente ha svolto, in Italia e altrove, anche altre funzioni rispetto a quelle alle quali lei accenna. Non vi è altro modo nel mondo contemporaneo per generare una vera classe dirigente che quello accennato – anche se, in fondo, già il primo Parlamento italiano, sebbene con non pochi tradimenti e atteggiamenti conservatori, fu un Parlamento di membri di quel soggetto: esuli, guerrieri, gente che aveva combattuto sulle barricate, ex prigionieri politici.
Nessuno può dire oggi che nel giorno del giudizio, che potrebbe verificarsi tra un anno o cinque, sarà vivo vitale e forte il soggetto collettivo capace di egemonia; tutto dipende sia dalla collocazione storica del giorno del giudizio (un anno o cinque anni non sono la stessa cosa), sia dall'impegno e dalla capacità delle minoranze che avranno avviato il processo di costruzione del soggetto collettivo. Ma la possibilità che quel soggetto collettivo, con la classe dirigente che avrà saputo selezionare, sia pronto soltanto qualche anno dopo il giorno del giudizio non mi preoccupa; né è una ragione per rinunciare a iniziare o a proseguire la marcia.