Come abbiamo fatto ad affidare la sorte del mondo agli economisti?
di Stefano D’Andrea
Apprendiamo, leggendo casualmente il numero del 12 novembre 2010 del settimanale Internazionale, che una lettrice del Financial Times, la signora Sylvia Graham, ha posto ad un economista di nome Tim Harford, il quale “risponde alle domande dei lettori del Financial Times”, la seguente domanda: “Io e mio marito abbiamo due bambini e un terzo in arrivo. Alasdair, il più grande, si comporta male. Minacciamo di punirlo, ma non abbiamo il coraggio di farlo. Hai qualche suggerimento?”. Il lettore dotato di un minimo di intelligenza, prima di leggere la risposta dell’economista, chiede: per quale ragione la lettrice pone una simile domanda a un economista? Che titolo ha un economista per rispondere alla domanda formulata dalla lettrice, rispetto agli esperti di altre materie, anzi rispetto a qualsiasi persona dotata di un po’ di buon senso, non dico di saggezza?
Vediamo cosa ha risposto l’economista, che ha intitolato la risposta “Equilibrio educativo”.
“La teoria dei giochi è la scienza che analizza le situazioni di conflitto per trovare le soluzioni. Alasdair decide se disobbedirti e tu decidi se punirlo. Lui preferisce comportarsi male solo se non viene punito e tu preferisci minacciare punizioni che non metti in atto. Il gioco ha due equilibri. Il primo: lui è indisciplinato e tu non lo punisci; il secondo: minacci un castigo che non attui perché tuo figlio s’è calmato. Il secondo equilibrio è poco plausibile. Gli economisti lo definiscono non perfetto. Quindi non stupirti se ti trovi nel primo equilibrio. Secondo gli economisti un solo equilibrio non è credibile. Sappi che quando punisci tuo figlio perdi una battaglia, ma vincerai la guerra. Imporre la disciplina è dura, ma così tuo figlio in futuro si comporterà bene. L’importante è avere una buona reputazione come educatore. Questa analisi ha fatto vincere due premi Nobel. Gli economisti stanno lavorando duro per dimostrare che a volte bisogna essere cattivi per fare del bene”.
Che dire? Tim Harford è convinto che l’economia possa offrire qualche utilità per rispondere alla domanda posta dalla lettrice. Quindi non è (solo) uno studioso dell’economia. E’ un fanatico della disciplina. Non ha senso del limite. Probabilmente non ha mai letto una pagina di pedagogia o di psicologia. Né crede che le risposte alle domande possano trovarsi nel sapere tradizionale.
Avete capito? Avete ammirato la “finezza” del ragionamento? E’ stato chiaro? Sinceramente non credo. Dunque abbiamo oscuri fanatici dell’economia che su importanti quotidiani rispondono a domande che non hanno nulla a che vedere con l’economia.
Tim Harford sostiene che il ridicolo – almeno per me; ma credo per tutti i lettori – “ragionamento” che egli ha svolto abbia fatto vincere due premi Nobel per l’economia. Dobbiamo credergli. Ma ciò squalifica, non soltanto i Nobel per l’economia, bensì la stessa disciplina, almeno per come è andata evolvendo negli ultimi trenta anni.
Tim Harford scrive idiozie come “Sappi che quando punisci tuo figlio perdi una battaglia, ma vincerai la guerra”. Chi vince la battaglia quando un genitore punisce suo figlio? Il figlio? Certamente no. E allora nessuno. Direi che se non c’è un vincitore non c’è nemmeno un perdente e dunque non c’è battaglia.
Omette di considerare il profilo dell’autorevolezza che la lettrice deve conquistare, forse perché l’autorevolezza non è agevolmente rappresentabile con giochetti logici da bambini deficienti (vi è soltanto l’oscuro riferimento alla “reputazione”: “L’importante è avere una buona reputazione come educatore”!).
Quando poi conclude che “Gli economisti hanno lavorato duro per dimostrare che a volte bisogna essere cattivi per fare il bene”, confonde “compiere un atto violento” con “l’essere cattivi” – il genitore che punisce il figlio quando è opportuno compie un atto violento ma non è in alcun modo cattivo: e perché mai se stiamo ipotizzando che si sta comportando da bravo genitore?
Tim Harford ignora l’intera storia dell’umanità – storia che reca svariate testimonianze in cui il bene è stato ottenuto mediante atti violenti – oltre che il funzionamento di tutti gli ordinamenti giuridici, i quali sono fondati sulla violenza: ogni legge è un atto che detta un precetto e minaccia violenza contro i trasgressori; e ogni apparato giurisdizionale è volto, in primo luogo, ad accertare se deve essere comminata una pena e, in secondo luogo, a curare l’esecuzione della pene comminate. Anziché “lavorare duro” per dimostrare una verità tanto evidente da essere banale, gli economisti avrebbero fatto meglio a leggere libri di Storia e a imparare i rudimenti della Giurisprudenza.
Come abbiamo fatto ad affidare la sorte del mondo agli economisti o almeno agli economisti-matematici di scuola anglosassone, che imperversano da trent’anni?
Si dice che l'economia è una scienza triste.
Ma la questione di fondo è: l'economia è veramente una scienza?
Se si segue Feyerabend scienza può essere anche la teologia, e quindi l'economia è una scienza, ma da un altro angolo visuale, l'economia liberale e liberista [perché di questo si tratta] è prima di tutto ideologia, o meglio ideologia di legittimazione capitalistica.
Non c'è stata libertà di scelta nell'affidare le sorti del mondo agli economisti, appunto perché il "successo" dell'economia origina dall'affermazione del modo di produzione capitalistico come prevalente, ed oggi quasi esclusivo.
Il caso della lettrice del F. Times che scomoda un economista in merito all'educazione da impartire ai figli, per quanto può sembrare bizzarro, è un riflesso del dominio del valore di scambio su ogni cosa, tanto che gli stessi rapporti umani più intimi tendono a trasformarsi in rapporti commerciali.
Non è forse il mondo concepito, nelle dimensioni culturali del presente, come una mera rete di scambi commerciali?
Non sono battute, ma amare constatazioni …
Saluti antieconomicisti
Gli "specialisti" vogliono tutto il banco. Ci sono preti che discettano su questioni familiari e sul sesso, ed economisti che istruiscono su principi educativi. Sicuramente i preti non hanno (meglio: non dovrebbero avere) nessuna esperienza nè sul sesso nè sull'avere famiglia. Nè la madre di Alasdair ha chiesto all'economista in questione quale esperienza di padre avesse. Sono dati irrilevanti.
La virtualità è esattamente questa: la morte del buon senso. Una specie di Pesce d'Aprile, dove le lobbies sottraggono l'autorità dell'esperienza e della formazione e la modellano ai propri bisogni. Educare i figli diventa quindi argomento per preti ed economisti.
Tranquilli, comunque. Domani 2 Aprile non sarà diverso da oggi.
Caro Eugenio,
dobbiamo allora dare ragione a quegli autori che negano che il sistema economico italiano ed europeo, fino a trenta anni fa, fosse capitalistico. Questi autori sostengono che si trattase di un autonomo modo di produzione, che chiamano statale. La ragione sarebbe questa: oltre la metà del PIL era pubblico e non veniva scambiato a "prezzi di mercato"; e gran parte del PIL pubblico era erogato nella forma dei "diritti" e non scambiato come merce. Vero che tu scrivi che "il "successo" dell'economia origina dall'affermazione del modo di produzione capitalistico come prevalente, ed oggi quasi esclusivo". Ma appunto perché lo scambio in forma di merce non era nemmeno prevalente, forse quel sistema non era capitalistico.
In ogni caso, fino a trenta anni fa i consiglieri del ceto politico erano giuristi e non economisti. E comunque anche gli "economisti" erano laureati in giurisprudenza che avevano decisio di studiare l'economia. Oggi, invece, i giuristi importano dagli stati uniti l'analisi economica del diritto.
Il diritto è lo strumento che la politica deve conoscere per introdurre nell'ordinamento i propri valori e per tutelare gli interessi che intenda tutelare.
L'economia (liberista e monetarista) è l'ideologia che traccia al politico i confini di ciò che può e ciò che non può fare e che, nel campo di ciò che il politico può, indica ciò che è efficiente e ciò che non lo è.
Trenta anni di dominio di questa ideologia hanno prodotto i risultati che tu e Tonguessy avete ben sintetizzato.
Resta il fatto che quell'economista è un fanatico, perché crede che la propria disciplina dia risposte a domande relative all'educazione dei figli. Quel fanatico scrive su un giornale autorevole e ogni settimana e ripreso da Internazionale e offerto in pasto ai lettori italiani. Io non riesco a comprendere quelli che hanno un odio verso le forme di fanatismo religioso e considerano irrilevante il fanatismo economicistico, quando la prima forma di fanatismo è oggi pressoché inconsistente, mentre la seconda è pervasiva.
A Tonguressy chiedo: la morte del buon senso è la morte del senso? di qualsivoglia senso? Qui non abbiamo soltanto una lettrice che pone domande sull'educazione a un economista, senza aver chiesto all'economista quale esperienza di padre avesse; abbiamo anche un economista che crede di saper dire qualche cosa sull'argomento proprio come studioso di economia; abbiamo un importante quotidiano che pubblica articoli di quell'economista ogni settinana; e abbiamo il figlio di De Mauro che ogni settimana fa tradurre in italiano le risposte di quell'economista alle domande dei lettori.
Mi convinco sempre di più che si tratti di follia. Trenta anni fa una cosa del genere non era nemmeno pensabile. Non c'era il capitalismo? Era un capitalismo razionale o ragionevole? Era un capitalismo che non aveva vinto completamente sul passato? Se fosse vera l'ultima ipotesi, dovremmo fondare qualche speranza sul recupero del passato: non del vecchio, ma dell'antico. Per esempio tornare ai giuristi e obliterare gli economisti. Ma purtroppo anche i giuristi non esistono più e sono diventati "economisti della legge". Non se ne esce, nemmeno al livello teorico e ipotetico.
Noto una certa similitudine tra Tim Harford e l'Ayatollah Ali al-Sistani. Il primo è un laureato in economia che riceve interpelli sulla corretta interpretazione delle relazioni interpersonali, a cui dà un responso secondo i canoni della "probablità" e della "convenzienza". Il secondo è un laureato in teologia e giurisprudenza islamica che riceve interpelli sulla corretta interpretazione delle relazioni interpersonali, a cui dà un responso secondo i canoni del "lecito", "illecito", "consigliato", "sconsigliato", "indifferente". I comportamenti umani entrano nel dominio della disciplina del primo grazie alla teoria della scelta, fondamento della microeconomia, mentre ricadono nella competenza del secondo per esplicita formulazione normativa (il Santo Corano). Che dire? Altro indizio sul carattere neo-feudale dei tempi che stiamo attraversando.
"A Tonguessy chiedo: la morte del buon senso è la morte del senso? di qualsivoglia senso?"
Domanda difficile. Cerchiamo di inquadrare il problema: siamo in pieno afflato postmodernista, che fa del virtuale la propria forza. Baudrillard parlava di simulacri. Aspetti che si incuneano nella Realtà per sostituirla. Se la realtà medievale era essenzialmente agricola e la realtà postbellica essenzialmente industriale, la realtà postmoderna è essenzialmente virtuale. Se la civiltà industriale ha smarrito il senso agricolo della vita (cosa confermata dagli addetti nei vari comparti, con un misero 2% medio delle società industriali che si occupa di agricoltura), così la società postmoderna ha smarrito il senso "industriale" (oltre che agricolo) della vita.
Tentiamo ora di fare un passo indietro: cos'è il buon senso? E' forse legato alle stagioni, alle fasi lunari, alla storica consapevolezza che certe azioni portano irrimediabilmente a certi risultati? Se sì, allora dobbiamo rifarci alla vita agricola, collaudata da millenni, tanti millenni. Nulla a che vedere con la vita industriale, appena rodata (diciamo qualche secolo, esagerando) . Va peggio ancora con la postmodernità, roba di pochi anni.
Tento di arrivare al dunque: che senso può avere la rete di relazioni di un uomo postmoderno (lo siamo tutti, volenti o nolenti) se paragonate a quelli di un uomo di qualche millennio fa? Che aspettative può accampare l'umanità postmoderna se messe a confronto con quanto offriva la vita premoderna? Se la vita premoderna ha avuto un qualche successo lo deve a fattori come l'ampia condivisione di significati. Ovvero di sensi. Oggi invece viviamo nella quasi totale svalutazione di questi significati, senza peraltro averne immessi di altrettanto validi. Questo è il dramma della comunicazione virtuale della postmodernità.
Se le parole hanno perso di significato, non possiamo pretendere che le azioni ne abbiano. Succede così che ciò che ho chiamato politically ready-made sia la cifra che accompagna le azioni dei governi moderni. Più specificatamente: si possono considerare governi moderni solo se le azioni intraprese hanno un valore parecchio distante dalle parole che le accompagnano. Bombardamenti per portare la pace, ad esempio. Questa è la prova che azioni e significati sono così scollegati da poter essere solo postmoderni. Cioè al passo con i tempi che viviamo.
acc…. per fortuna non mi sento un economista….. ma solo un appassionato di questa materia, che ha letto tanto , ma ragionato ancora di più, fino a trovare quelle regole che rendono tutto vero. (almeno quanto è noto).
ed al contrario di molti "economisti" ho posto il centro dell'attenzione sull'uomo, e non sulle regole matremetiche, proprio perchè è il comprìortamento dell'uomo, o degli uomini, che modificano in continuazioni quel coefficiente (umano) che è da inserire in ogni formula.
Che dire? Concordo completamente con quanto scritto nell'articolo e nei commenti: l'economia non è una scienza, è una religione. Da tren'anni siamo in un nuovo Medioevo, governato da questi economisti-sacerdoti. Consiglio il libro "L'invenzione dell'economia" di Serge Latouche su tale argomento.