Per la critica dell’etica moderna
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
È nota la differenza tra giudizi di fatto e giudizi di valore: un giudizio di fatto è vero se corrisponde al fatto, falso se non gli corrisponde; invece un giudizio di valore non può essere né vero né falso perché non cerca di esprimere quello che i fatti sono ma quello che i fatti devono essere. Questo ‘dovere’ ha un significato particolare: indica non un’ineludibilità, ma un’esigenza soggettiva, alla quale i fatti restano indifferenti. Per esempio: l’uomo deve rispettare la legge, ma di fatto può anche non farlo; oppure la virtù deve essere compensata dalla felicità, ma i fatti sono indifferenti alla virtù, quindi solo per caso le fanno corrispondere la felicità. Da questo significato di ‘dovere’ come necessità soltanto soggettiva, una necessità che è dunque semplice possibilità, si scivola verso le due concezioni antitetiche che oggi si spartiscono le macerie della filosofia: da una parte quella segretamente dominata dal primato della ragione pratica, che nell’indifferenza dei fatti all’esigenza soggettiva scorge una loro inadeguatezza ontologica, dall’altra quella dominata dalla ragione teorica, che nel rassegnarsi ai suoi limiti nega razionalità alle espressioni della soggettività. Entrambe le concezioni si pongono mediante un rifiuto: una squalifica la scienza a partire dal primato del soggetto fenomenologico, ontologico o esistenziale, l’altra squalifica l’etica negando il senso al suo linguaggio. Ne esce distrutta la filosofia che non può più supporre la verità della scienza e l’etica come scienza.
Il processo di dissoluzione dell’etica ha un inizio lontano, nell’epoca moderna. Questa è contrassegnata dal rafforzamento della borghesia, dalla formazione della società civile e dalla ribellione dell’individuo allo Stato: l’individuo borghese che si rapporta agli altri secondo i propri interessi così da generare la società civile, pretende per sé ogni legittimità etica e la nega allo Stato. La polemica contro lo Stato ha una base di classe: è polemica contro la nobiltà che ne occupa le funzioni, accusata così di frequente e con tale successo di parassitismo – dal rivoluzionario Sieyès al positivista Saint-Simon – che oggi si stenta a ricordare che la nobiltà è la classe che fa suo il compito di difesa della società. – Il sospetto di sostanziale inutilità dello Stato genera la mitologia borghese dello stato di natura. Dopo che Hobbes, con la sua visione della natura asociale degli uomini, lo ha esteso dal rapporto tra gli Stati al rapporto tra gli uomini per giustificare la coazione dell’assolutismo, Locke lo edulcora e ne fa l’archetipo della società civile orientata all’arricchimento pacifico. In effetti, se gli uomini fossero essenzialmente pacifici e se l’arricchimento non provocasse impoverimento, non ci sarebbe bisogno di Stato né tanto meno di difesa. Così, affermatasi la mitologia dello stato di natura composto di individui pacifici, onesti e laboriosi, lo Stato appare all’interno come un limite artificiale, dunque intimamente corrotto, alla libertà naturale, e all’esterno come sorgente di conflitti insensati. Dunque o lo Stato rinuncia alla sua sfera autonoma, apre la società e si limita a garantire le libertà naturali, quelle che oggi si chiamano diritti umani, oppure è meglio che scompaia. L’ideologia borghese, o illuministica, o massonica, deve sfociare nel cosmopolitismo. Strumentale alla polemica borghese contro l’assolutismo feudale, esso in realtà non si sarebbe mai affermato come ideale pervasivo se l’egemonia borghese mondiale non fosse stata esercitata dagli Stati anglosassoni che non hanno bisogno di muri di confine: la Gran Bretagna è fatta di isole e due oceani separano gli Stati Uniti da ogni possibile potenza rivale: per questi Stati l’abbattimento delle frontiere è abbattimento delle altrui frontiere, è altrui disarmo; in altri termini, il cosmopolitismo è il camuffamento più suggestivo dell’imperialismo anglosassone.
Dal punto di vista filosofico la quintessenza dell’etica borghese è la teoria kantiana, il tentativo paradossale di stabilire come legge morale del singolo soggetto il suo farsi legislatore di se stesso. Il singolo agisce secondo massime; una massima ha dapprima un contenuto particolare, opposto cioè a un altro contenuto; ma il particolare può essere universalizzato; secondo Kant è morale il soggetto che agisce secondo quella massima che universalizzata (posta dal soggetto in forma di legge) non nega se stessa; la massima individuale è morale se è universalizzabile, se può prendere forma di legge. Il soggetto morale è dunque colui che obbedisce alle proprie leggi.
Hegel ha mostrato che il contenuto logico della moralità kantiana è la tautologia. ‘A è A’, infatti, inizia da un contenuto particolare A, ne supera la particolarità tramite lo ‘è’, ma finisce in un predicato che è di nuovo ‘A’: lo stesso ‘A’, che come soggetto era esistenza casuale, ora come predicato è anche universale, legge. Mediante la sua forma la tautologia significa che il singolare, nella sua stessa singolarità, è universale, che il quid facti è anche quid juris. Ma l’universalità della tautologia non contiene i particolari opposti, consiste soltanto nella forma di predicato; dunque le si adatta qualunque contenuto: come è vero che A è A così è altrettanto vero che non-A è non-A; come posso considerare legge questa determinata massima, così posso considerare legge anche la massima contraria; come da buon liberale posso considerare sacra la proprietà e furto ogni sua negazione, così da buon socialista posso considerarla furto e sacra la non-proprietà. In definitiva sono io che scelgo quale mia massima determinata mettere in forma di tautologia, far apparire cioè come legge; sono io legislatore, nel senso più estremo per cui ciò che voglio per me lo considero non solo mio interesse ma anche legge universale. Poiché consiste nel far apparire universale una massima che in quanto tale ha sempre valore particolare, la legge morale, anziché manifestare la libertà universale dell’individuo, ne consacra l’arbitrio, anziché essere il criterio della moralità è la forma più radicale dell’immoralità.
Il fallimento della teoria morale kantiana, che cercando di superare l’eudemonismo illuminista finisce in un formalismo capace di consacrare qualunque contenuto, è il culmine della decadenza moderna dell’etica. Lo sforzo contraddittorio di trovare la legge che limita l’arbitrio soggettivo proprio nell’autonomia soggettiva sorge dall’avere disconosciuto la natura politica della libertà e dall’avere squalificato come eteronomia la legge statale. Se l’individuo nel suo astratto isolamento è in condizione di piena libertà, dunque è pienamente se stesso, la legge politica diventa una rinuncia alla libertà, parziale nel caso del liberalismo, totale nel caso dell’apologia hobbesiana dell’assolutismo; e, viceversa, come scriveva Benjamin, l’anarchia diventa l’unico stato morale degno dell’umanità. Poiché l’etica moderna è il riconoscimento più o meno diretto della sovranità dell’impulso individuale, ogni giudizio di valore perde il significato cognitivo. L’etica perde quindi la sua cogenza teorica non perché sia basata su giudizi di valore, ma perché non è basata su giudizi; le è venuta a mancare l’universalità, laddove il giudizio, come espressione immediata dell’esperienza, non è solo singolarità, ma combina il singolare del soggetto con l’universale del predicato. Viceversa, in quanto è fatta di giudizi, in quanto eleva la singolarità fattuale in formule universali e sostituisce l’’orrida casualità’ con l’ordine, la scienza ha un interno significato etico, perché fonda la legalità razionale nella cui realizzazione consiste l’etica.
Il legame tra ragione teoretica e ragione pratica era chiaro agli antichi. Per Aristotele è il λόγος che consentendo la determinazione del bene fonda lo Stato. Per il suo maestro Platone la base dello Stato è la σοφία. Per entrambi la scienza è la felicità, lasciarsi guidare dalla scienza è la virtù, rifiutare la scienza per abbandonarsi alla sovranità dell’opinione è il male di cui è responsabile la sofistica. Non solo: poiché era la fonte dell’universale, gli antichi non hanno fatto i difficili sulla scienza al punto da dissolverla. Per loro l’astrazione che produce l’universale non è il sacrificio dell’oggetto, ma la sua purificazione dall’inessenziale; così la scienza non è la rappresentazione ‘esatta’ dei fatti, è anzi l’atteggiamento che permette di salvare i fatti come essere dal caos del divenire, ossia di rinvenire una connessione razionale nell’esperienza; solo con questa connessione nascono i fatti e ha senso anche lo sforzo per determinarli con esattezza. Per l’opinione non ci sono fatti, solo interpretazioni in cui il soggetto è sovrano.
In quanto abilita il pensiero a rinvenire la connessione necessaria nell’esperienza, la scienza inizia con Platone, con la scoperta dell’ἰδέα. Della teoria delle idee si comprende la trasfigurazione del particolare nell’universale, sfugge però la natura dell’universale e resta dunque nascosto il senso complessivo. A differenza delle realtà sensibili che esibiscono un’ingannevole totalità, l’idea platonica, qual è determinata magistralmente nel ‘Menone’ e nel ‘Fedone’, è costitutivamente frammentaria, è universale soltanto come limite universale: contemplarla come tale significa esserne sospinti verso l’idea opposta. L’idea è dunque l’oggetto purificato in modo da non lasciare il soggetto a se stesso, ma da spingerlo verso un’altra idea. Questa spinta è la logica; in quanto se ne fa guidare rinunciando al proprio movimento arbitrario, il soggetto è pensiero. Che la libertà renda liberi va così inteso cum grano salis: non significa che il soggetto possa conservare la sua opinione, ma soltanto che partecipa al movimento dell’idea; e il muoversi in armonia con le idee è la ragione che lo orienta nel mondo dei fatti.
Esperti del valore del limite, gli antichi hanno espresso senza reticenze il carattere limitato dell’individuo: ciò che lo caratterizza è il suo bisogno, da cui è spinto verso l’altro. La libertà, che nella mentalità moderna coincide con un’illusoria totalità del soggetto, per gli antichi è prerogativa della collettività: è la πόλις che deve essere libera perché la libertà dell’individuo non ne è che il riflesso. E non solo per gli individui non c’è libertà se la πόλις non è libera, ma per la maggior parte di loro la libertà, anziché un possesso originario nel senso dei ‘diritti umani’, è un suo dono. Di qui il significato determinato della virtù come difesa della libertà della πόλις, e questa difesa è il legame fondamentale, l’unità etica in cui si dà il reciproco riconoscimento tra gli individui, rispetto al quale l’asocialità che secondo Hobbes domina l’umano scade al livello di pettegolezzo. Di contro all’universalità soltanto formale dell’imperativo categorico che cancella la limitatezza di ogni massima e le conferisce una totalità illusoria, la libertà della πόλις è l’universalità concreta, il diritto naturale da cui scaturisce ogni legalità individuale.
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