Considerazioni sulla rendita urbana (2a parte)
Riceviamo e volentieri pubblichiamo – a mo’ di ‘resoconto’- le considerazioni dell’arch. Massimo Rosolini, già assessore all’urbanistica del Comune di Latina, a margine dell’incontro sui temi della rendita urbana organizzato dal FSI di Latina venerdì lo scorso 17 marzo.
Tra gli obblighi internazionali c’è sicuramente quello del rispetto della Convenzione Europea per i Diritti Umani firmata a Roma nel 1950 e a Parigi nel 1952. Proprio a Parigi sarà firmato il protocollo addizionale alla convenzione che al 1° articolo recita: Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale…..”
Con l’effetto di riportare la proprietà privata tra i diritti tutelati da principi generali e sostanzialmente inviolabili. Cosa che per noi in Italia significa, diciamo così, tornare allo Statuto Albertino su un punto in verità assai attenuato dal trattamento che la Costituzione repubblicana riserva alla proprietà privata: semplicemente riconosciuta dalla legge ma non difesa come principio costituzionale in sé.
La riforma del titolo V ha dunque l’effetto indiretto di assorbire, in sostanza, il principio CEDU tra i principi costituzionali. Nella costituzione (art.42) si rimanda all’azione della legge, nella CEDU la legge è sottoposta al principio generale.
Le sentenze della corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007 dichiarano, dunque, la incostituzionalità dell’art. 5bis della legge 359 del 92 e dell’art.37 del TU sugli espropri, proprio in relazione al nuovo art. 117 della Costituzione e dell art.1 del protocollo aggiuntivo della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani (CEDU), con l’effetto di riportare di nuovo al valore venale le indennità di esproprio e di occupazione. In sostanza ancora al principio della L. 2359/1865.
Questo breve excursus per dire che oggi l’espropriazione per pubblica utilità è di nuovo particolarmente onerosa per la PA. L’aspettativa di rendita urbana proveniente da attribuzione di nuove destinazioni d’uso che accrescano il valore di mercato di un area destinata sia ad espansione che a trasformazione, è pienamente legittimata, e dunque la realizzazione della parte pubblica, l’urbanizzazione primaria e secondaria delle aree pianificate, particolarmente difficile.
Se si tiene conto che la principale causa del degrado delle nostre città, che non a caso si riscontra in zone periferiche, ovvero di recente urbanizzazione, si deve alla incompleta realizzazione degli interventi pubblici ed alla carenza di dotazione dei cosiddetti standard, si comprende come il prezzo per le acquisizioni di aree rappresenti un elemento decisivo per la qualità delle nostre città, soprattutto delle loro aree pubbliche. Si può discutere a lungo su quali siano le molte cause della cosiddetta bruttezza delle città contemporanee, specialmente in Italia dove il confronto con il patrimonio di centri urbani storici di ineguagliabile bellezza è particolarmente stridente, ma certo la incompletezza della loro realizzazione e la conseguente incuria fa la prima differenza.
L’ipotesi di Sullo cadde politicamente e la Corte Costituzionale, come abbiamo visto non fa sconti. Come fa, dunque, la PA a costruire una città per tutti garantendo la qualità ed il decoro necessario almeno alla parte pubblica di essa?
Al momento non sembra esserci altra via che quella di evitare del tutto gli espropri aggirando il problema.
La disciplina urbanistica ha da tempo ormai prodotto il concetto di perequazione. Concetto che anch’esso si sviluppa da qualcosa che già la L.1150/ 42 contiene quando considera la possibilità di pianificare per comparti edificatori. La perequazione non toglie il diritto ad edificare ai proprietari dei suoli che ne rimangono titolari ma lo svincola materialmente dai singoli fondi andando a distribuire sull’insieme del piano le volumetrie reali che vi corrispondono secondo un disegno urbano libero da condizionamenti, giacché è superato il conflitto tra chi beneficia di previsioni di edificazione e chi è gravato di vincoli preordinati all’esproprio perché proprietario di terreni su cui il disegno urbanistico ha posizionato parti pubbliche: strade, verde, scuole etc..
La perequazione urbanistica risolve perciò in un certo modo il problema perché attribuisce diritti edificatori uguali a tutte le aree pianificate e pone la cessione gratuita delle aree destinate alle urbanizzazioni in cambio, appunto, dei diritti edificatori attribuiti che i proprietari delle aree soddisferanno partecipando in quota proporzionale alla realizzazione delle previsioni del piano. La PA non spende denaro se non per realizzare le opere di sua competenza che però dovrebbero essere pagate dai contributi per l’urbanizzazione dovuti da parte di chi costruisce, ovvero di chi si avvale del diritto ad edificare che il piano prevede. Nel caso di una PA che non sia in deficit per le spese correnti da colmare con gli incassi derivanti dagli oneri edilizi il cerchio sarebbe chiuso. Sennonché neanche questo è semplice visto lo stato delle economie dei Comuni, oramai praticamente abbandonati a loro stessi ed alla loro capacità di autofinanziarsi, o limitati negli investimenti dall’osservanza al patto di stabilità.
La impossibilità sostanziale della PA di operare sul territorio mediante espropri onerosi per poi realizzare opere pubbliche egualmente a carico del pubblico bilancio, ha imposto ormai, tra PA e privati proprietari dei suoli e/o privati capaci di realizzare opere, un rapporto di tipo negoziale. Vale a dire che la PA opera sul territorio ormai frequentemente in regime di partnership con il privato. Questo come è intuitivo impone ad essa un requisito in più. Alla capacità di pianificare secondo i bisogni della collettività, che è il suo ruolo tradizionale, si deve aggiungere quello di saper attrarre su questo obiettivo l’interesse dei privati: proprietari e imprese.
Non potendo dunque semplicemente liquidare i proprietari dei suoli con somme adeguate né agevolmente pagare direttamente le imprese che appaltano le opere pubbliche, né infine disponendo di competenze e risorse per gestire servizi complessi, la PA è costretta a scambiare col partner privato una moneta astratta ma dalle conseguenze molto concrete: i diritti edificatori, che la PA stessa e in particolare i Comuni amministrano mediante la pianificazione urbanistica come loro specifica prerogativa.
Nel piano perequativo l’attribuzione di diritti edificatori omogenei – anzi uguali – a tutti i proprietari dei suoli, con conseguente liberazione a costo zero delle aree per l’urbanizzazione, è intrinseca alla pianificazione e nasce con essa. Il che comporta che l’entità di tali diritti è stabilita in base alla decisione collettiva e tecnicamente verificabile di quale carico insediativo si può ragionevolmente attribuire ad un area,ad un comparto, ad una città. Diversamente, nel caso di una trattativa puntuale tra PA e proprietà, finalizzata alla realizzazione di un singolo progetto di trasformazione urbana, la materia della quantità di edificabilità che la PA può attribuire in cambio della cessione gratuita delle aree per spazi ed impianti pubblici e spesso per la realizzazione degli impianti stessi, è definita volta per volta. Ed impegna l’amministrazione nella definizione della compensazione urbanistica opportuna.
Sono di questi giorni, ad esempio, la questione del nuovo stadio della Roma e le alterne posizioni dell’amministrazione della capitale sul punto. Dopo una crisi politica, un bel po’ di parapiglia e la sostituzione di un assessore , siamo informati che il Comune di Roma darà il suo assenso alla realizzazione dello stadio proposto da un gruppo privato perché si è giunti a tagliare del 50% le volumetrie inizialmente richieste dai privati come compensazione della realizzazione dello stadio stesso e di tutte le infrastrutture necessarie ad urbanizzare la zona.
Chi è informato dei fatti solo dalla stampa non può certo valutare se l’equilibrio è stato raggiunto senza danno ed anzi con vantaggio per il territorio romano e si deve accontentare del risultato dichiarato senza sapere se si tratta di un obiettivo raggiunto per la città, un atto puramente demagogico o, peggio, un’operazione pesantemente speculativa.
C’è da osservare che essendo le città sempre più bisognose di trasformazioni del già costruito, di riqualificazioni delle parti degradate, di recupero e riconversione di siti dismessi, di sostituzione del patrimonio edilizio obsoleto per aumentarne l’efficienza energetica e diminuirne l’impatto sull’ambiente, di modernizzazione ed incremento degli impianti pubblici, e decisamente meno di previsioni di espansione, esse sono impegnate piuttosto su interventi puntuali che non su pianificazioni estese. Almeno non su pianificazioni di tipo tradizionale. Il che comporta un accentuazione del carattere negoziale della progettazione urbanistica.
Questo vuol dire anche che la tradizionale aspettativa di rendita urbana che ha caratterizzato le pressioni speculative negli anni dell’espansione, limitata in fondo ad un gioco di posizionamento, si sposta appunto verso la negoziazione con la PA di accordi complessi di cessione di aree e di realizzazione di opere, in cambio di diritti edificatori. E non si consuma diciamo così una volta per tutte ad ogni Piano Regolatore, ma è sempre attiva e richiede alla PA un’attività continua di valutazione e selezione delle proposte di intervento.
E’ una PA debole o forte quella che deve adeguarsi ad una modalità simile? Sarebbe un grave errore scambiare la flessibilità che un approccio del genere richiede per debolezza. Credere che una PA minima, con meno vincoli, meno principi condivisi e fondanti, con una visione della città meno netta e chiara, e soprattutto meno dichiarata, possa essere congeniale alla negoziazione, alla realizzazione di interventi urbani in partnership con le parti private. È evidente il contrario. Solo un PA forte, chiara nei suoi indirizzi e totalmente trasparente, che tenga fermo l’obiettivo comune di ottenere il massimo beneficio per la città e che sia in grado di misurare e dimostrare ogni volta questo beneficio, che abbia saputo costruire una sua visione del futuro del territorio che governa e soprattutto condividere questa visione consentendo il controllo democratico delle aspettative e dei risultati attesi, può negoziare con le forze economiche private facendo si che le aspettative di semplice rendita urbana non distorcano il progetto per la città, ma che le convenienze parziali siano trasformate in ricchezza per la città e in aumento reale della qualità della vita per tutti.
È il contrario della deregulation, ma anche dell’ipertrofia del potere burocratico che frena le iniziative e drena tangenti. Non è per niente facile perché ci vuole una politica autorevole e con capacità costruttive, nulla di simile ai liberismi e populismi che oggi si dividono il campo.
Qui la prima parte dell’intervento
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