La lingua conserva e riempie il territorio conquistato
La lingua conserva e riempie il territorio conquistato
di Luciano Del Vecchio
La potenza politica, militare ed economica di un paese determina l’importanza della sua lingua e le sconfitte geopolitiche comportano quelle linguistiche. La dominazione linguistica scaturisce dunque dalla conquista, dal soggiogamento militare e politico e dallo sfruttamento economico. Il ruolo della lingua nell'espansione imperialista è l'elemento centrale. “Una lingua non si sviluppa mai grazie alla ricchezza del suo vocabolario o alla complessità della sua grammatica, ma perché lo stato che la utilizza è potente militarmente – così è stato, ad esempio, per il colonialismo – o economicamente, così è per la “globalizzazione” (1). Attualmente l’inglese avanza a detrimento delle altre lingue perché gli Stati Uniti restano al vertice del potere imperiale. Ormai convinti, dopo il crollo del Muro, di essere i soli e i primi militarmente, economicamente, tecnologicamente e «culturalmente”, hanno imposto la lingua inglese, che non è lessicalmente più ricca delle altre, ma semplicemente più “armata”.
Solitamente si pensa che una lingua serva soltanto per comunicare, ma il mezzo di espressione struttura il pensiero dell’individuo, influenza il modo di pensare e di vedere il mondo, una cultura. “Soltanto le persone poco informate pensano che una lingua serva unicamente a comunicare. Una lingua costituisce e rafforza una certa visione del mondo. L’imposizione dell’inglese è funzionale non solo a fini coloniali, ma equivale a imporre i propri valori” (Claude Hagège). La lingua inglese in se stessa non è un veicolo dell’ideologia neoliberista (assurdo pensarlo), ma viene usata come tale dalle oligarchie politiche ed economiche anglo-statunitensi, legate alle multinazionali, che trasmettono e diffondono una filosofia, un corpo di valori e principi prioritari in una visione liberista dell’economia: il profitto, l’affare, la rendita finanziaria, il mercato. “Una lingua unica per un pensiero unico, ossessionato dal denaro e dal consumismo”, un’idea che corre parallela a quella della moneta unica e del mercato unico. “…portatrice di una certa ideologia neoliberale: “ E questa, minaccia di distruggere le nostre culture nella misura in cui è focalizzata essenzialmente sui profitti”. (Claude Hagège). Il globish non trasmette la cultura di Shakespeare o di Wilde, ma la cultura di Wall Street, della City londinese, e della Federal Reserve, delle multinazionali e del mercato, in cui tutto ciò che suona estraneo alla gestione economica del mondo ha poco o punto valore.. “Diceva Carl Schmitt che i concetti stranieri sono peggio delle parole straniere. In verità, gli uni e le altre, a diversi livelli di penetrazione di determinati contesti umani, sono forme di colonizzazione, politica, economica, culturale, ecc. ecc., che segnalano la perdita di autonomia e d’identità di una collettività a vantaggio di modelli estranei esercitanti, precisamente, una pressione egemonica sul modello autoctono.” (2). La lingua non era un’arma; lo è diventata oggi, nella modernità, per un’intuizione degli Americani. “Essi hanno compreso che oltre a quella bellica, diplomatica e commerciale esiste anche una guerra culturale. […] che essi intendono vincere per ragioni nobili – gli Stati Uniti hanno sempre valutato i loro valori come universali – e meno nobili: la standardizzazione degli spiriti è il miglior mezzo per vendere i prodotti americani. […] il cinema rappresenta il prodotto d’esportazione più importante, ben più che le armi, l’aeronautica o l’informatica! Da ciò la loro volontà d’imporre l’inglese come lingua mondiale”. (1).
A dimostrazione che l’uso della lingua degli stati dominanti provoca la scomparsa delle lingue dei dominati si è soliti portare a esempio la lingua latina come lingua imperiale. Ma fin dal periodo repubblicano, il latino non disdegnava il contributo delle lingue dei popoli vinti, in particolare degli idiomi italici e mediterranei orientali, specie il greco. Gli antichi Romani non imponevano il latino; non esportavano il tribunato della plebe o l’organizzazione della res pubblica, così come oggi gli Americani esportano democrazia e godurie del libero mercato. I popoli lo usavano non perché costretti, ma perché indotti a ciò dal prestigio di Roma. Dietro la diffusione del latino, come del greco, non c’era un disegno politico, un’organizzazione scolastica; al contrario, i figli delle famiglie patrizie andavano in Grecia per studiare e imparare la lingua dei vinti, non per imporre la lingua dei vincitori. L’antica Roma, nei secoli dell’impero, era bilingue, greco-latina, sia in Urbe sia per circa metà del territorio imperiale. Dopo la caduta dell'Impero, il latino fu, nel mondo occidentale, la lingua franca della cultura, della scienza e dei rapporti interstatali, e come tale influì sulle varie lingue locali per più di un millennio, durante il quale non fu imposto da nessuna istituzione politica, nemmeno dalla Chiesa, che nelle predicazioni abbandonò il latino classico per adottare il sermo vulgaris, quello parlato, divenuto poi base delle lingue romanze. Il latino non si diffuse per vocazione imperialista; non era strumento di colonizzazione, come lo si intende oggi. Non ci fu un ceto dominante che volesse modificare o sostituire artificialmente dall’alto una lingua autoctona, come oggi avviene in campo internazionale.
Fino ad oggi, infatti, si è creduto che un gruppo dirigente non potesse modificare una lingua o imporla artificialmente dall’alto, ma nel breve volgere di pochi decenni stiamo assistendo esattamente a questo tipo di operazione autoritaria. Oggi l’industria delle comunicazioni e dello spettacolo dispone di strategie e strumenti che consentono di realizzare ciò che, ai tempi di Gramsci e Saussure, era inconcepibile; così come strategie internazionali di organizzazione e coordinamento della ricerca scientifica consentono di omologare linguisticamente le pubblicazioni di tutto il mondo. L’ingegneria linguistica non esclude che una lingua possa essere modificata o addirittura sostituita ad arbitrio e per interessi extralinguistici su un arco di tempo adeguato al progetto. Quando poi, non di modifica si tratta, ma di integrale sostituzione di una lingua con un’altra, allora l’operazione diventa ancor più facile per chi ha il potere di deciderla e dispone dei mezzi per realizzarla. La spontaneità delle masse parlanti nel determinare modifiche e arricchimenti linguistici, un tempo ovvia e naturale, oggi è dubbia. Quando il dominatore usa una lingua come arma di omologazione di massa, fa una operazione politica economica commerciale e culturale. Succede oggi con l’inglese che la lingua venga usata come strumento di dominio, per la prima volta nella storia, in base a un progetto totalitario. Perciò nessuna ossessione complottistica, nessun impeto puristico di mummificare un presunto zoccolo duro del lessico italiano, nessuna velleità di metterlo sotto vetro per preservarlo dall’invadenza organizzata e pianificata dell’inglese, nessuna concezione monolitica: niente di tutto questo può essere attribuito a chi si limita a constatare che la lingua italiana presenta tutti quei fenomeni di estinzione graduale, promossa dall'alto verso il basso, ben noti ai linguisti, e che sorgono quando sono livelli e sedi istituzionali, come ministeri o senati accademici, a caldeggiare e agevolare la sostituzione linguistica.
Non ingenui complottisti divaganti in rete e fantasticanti strategie occulte, ma a confessare brutalmente l’esistenza del disegno politico di imporre l’inglese come lingua unica sull’intero pianeta furono gli stessi esponenti dei ceti politici anglo-statunitensi, che lo concepirono fin dagli anni ’30 del secolo scorso. Robert Phillipson, professore emerito presso il dipartimento di studi linguistici internazionali e di linguistica computazionale presso la Copenaghen Business School, cittadino inglese, ne dà conferma nel suo saggio “Imperialismo linguistico”: “Tra le due guerre ci fu un progetto ingegnoso: creare una versione ridotta dell'inglese come "lingua ausiliaria internazionale" chiamata "BASIC English" (BASIC = British American Scientific International Commercial – Inglese Britannico Americano Scientifico Internazionale e Commerciale). Fu proposto nella speranza che le lingue meno importanti sarebbero state eliminate: Ciò di cui il mondo ha bisogno è questo: circa mille lingue più morte ed una più viva (Ogden 1934, citato da Bailey 1991, p.210). In questo contesto "la comprensione internazionale" era considerata in modo unidirezionale; si devono abbandonare le altre lingue e si deve assumere la lingua dominante, l'inglese, resa più facilmente accessibile per mezzo di una semplificazione”. (3)
Oggi e senza precedenti storici, la lingua del dominatore non viene proposta ma imposta; non si diffonde per forza e prestigio culturale, per spontanea accettazione o per uso secolare, ma perché gli Americani hanno spostato la guerra dal terreno bellico, diplomatico e commerciale, a quello culturale e linguistico. “Britannici e statunitensi hanno creato una vasta struttura scolastica per diffondere l'inglese su scala mondiale. Il Documento politico chiave, The diffusion of English culture outside England. A problem of post-war reconstruction (La diffusione della cultura inglese al di fuori dell'Inghilterra. Un problema della ricostruzione postbellica.) (Routh 1941) fu scritto da un consigliere del British Council, istituito negli anni 1930 per diffondere l'inglese e contrastare la diffusione delle lingue dei regimi fascisti. Questo fu il documento fondamentale per creare a livello mondiale la professione di insegnare l'inglese, che sorse nei tardi anni 1950 e che da allora cresce impetuosamente. Gli americani versarono ingenti somme nei sistemi scolastici dei paesi del "terzo mondo" e in gran parte nella professione dell'insegnamento dell'inglese come seconda lingua…. l'erogazione di grandi somme di denaro da parte di governi e fondazioni private nel periodo 1959-1970, forse la più grande spesa nella storia con lo scopo di diffondere una certa lingua (Troike, direttore del Centro di Linguistica Applicata, Washington, DC, 1977)” (Robert Phillipson, idem). In questo documento sembra emergere dall’espressione “lingue dei regimi fascisti” una certa diversione da propaganda; a parte l’assurdità di qualificare una lingua come appartenente a un regime, viene da chiedersi se davvero erano le lingue dei paesi fascisti nel mirino delle organizzazioni anglo-statunitensi, o non piuttosto e più credibilmente gli indirizzi keynesiani dei regimi fascisti in politica economica e industriale. Curiosamente il progetto di imperialismo linguistico viene elaborato non in epoca coloniale, ma post coloniale, appunto a partire dagli anni ’30, quando gli Inglesi cominciarono a perdere, decennio dopo decennio, parti del proprio impero. Fu in quegli anni che si resero conto dell’importanza della lingua per continuare a esercitare influenza politica, dominio economico-commerciale, invadenza militare. “Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico ne era d’altronde consapevole lo stesso Sir Winston Churchill, che il 6 settembre 1943 dichiarò senza sottintesi: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente”. (4)
David Rothkopf, professore di Affari Internazionali all’Università Columbia, ex dirigente del Dipartimento per il Commercio Estero degli USA, coltivava idee altrettanto chiare di quelle di Churchill sugli imperi della mente. Durante la presidenza Clinton, estate 1997, sulla rivista Foreign Policy, numero 107, comparve un suo articolo, il cui titolo era tutto un programma: "In Praise of Cultural Imperialism" (In lode dell’imperialismo culturale): “È nell’interesse degli Stati Uniti incoraggiare lo sviluppo di un mondo in cui la linea di separazione tra nazioni sia superata da interessi comuni. Ed è nell’interesse economico e politico degli Stati Uniti assicurarsi che se il mondo si sta muovendo verso una lingua comune, essa sia l’inglese, che se il mondo si sta muovendo verso telecomunicazioni comuni, standards di qualità e di sicurezza, essi siano americani, che se il mondo è collegato da televisione, radio e musica, la programmazione sia americana, e che, se valori comuni si stanno sviluppando, si tratti di valori con i quali gli americani si trovano a loro agio”.(5)
Trovarsi a proprio agio in ogni angolo del pianeta comporta l’arredare l’intero globo come casa propria, cioè considerarlo ‘sfera’ riservata (lebensraum?). ”Così i teorici anglo-americani del mondo globalizzato hanno potuto elaborare, basandosi sul peso geopolitico esercitato dalla lingua inglese, il concetto di “Anglosfera”, definito dal giornalista Andrew Sullivan come “l’idea di un gruppo di paesi in espansione che condividono principi fondamentali: l’individualismo, la supremazia della legge, il rispetto dei contratti e degli accordi e il riconoscimento della libertà come valore politico e culturale primario”.(6) A fugare dubbi o incredulità sulla determinazione dell’oligarchia anglo-americana di inserire la lingua inglese nei propri arsenali e santabarbare, forse bastano le affermazioni non di un linguista, non di un glottologo, non di un semiologo, ma di un militare: “Al medesimo ordine di idee si ispira il generale Jordis von Lohausen (1907-2002), allorché prescrive che “la politica linguistica venga messa sullo stesso piano della politica militare” e afferma che “i libri in lingua originale svolgono all’estero un ruolo talvolta più importante di quello dei cannoni”. Secondo il geopolitico austriaco, infatti, “la diffusione d’una lingua è più importante d’ogni altra espansione, poiché la spada può solo delimitare il territorio e l’economia sfruttarlo, ma la lingua conserva e riempie il territorio conquistato”.(7) Non si può prevedere se questo progetto sarà pienamente realizzato, ma troppe testimonianze e troppi fatti confermano che, avviato parecchi decenni or sono, è tuttora in corso di realizzazione, con finanziamenti massicci e ininterrotti alle organizzazioni e agli istituti anglo-americani di propaganda sulla presunta indispensabilità della lingua inglese.
“L'imperialismo linguistico invariabilmente implica la superiorità della lingua dominante sia nell'epoca coloniale che in quella postcoloniale (Muhlhausler 1996; Phillipson 1992). Gli Stati che resistono alla diffusione dell'inglese e pretendono eguali diritti per le loro lingue, sono marchiati come "sciovinisti"; essi soffrono di un "arcaico orgoglio nazionale"(8). Anche in Italia questa accusa è ricorrente e viene lanciata spesso da troppi esterofili, espressa in vari modi; “purismo apocalittico e nazionalistico” è una variante associata incautamente all’esperienza fascista. All’incirca negli stessi anni di quella vicenda storica, gli anglo-americani avviavano il loro progetto di sciovinismo linguistico, evidentemente consentito solo a loro ma non agli altri popoli. Robert Phillipson, ricordando che i governi e il popolo britannici non si entusiasmano all’integrazione europea e contribuiscono poco alla stessa, cita parecchi esempi di trionfalismo sciovinista. Nel novembre 1991 il Daily Mail di Londra intima sulla prima pagina: “Se l'Europa avrà un futuro, essa avrà bisogno di qualcosa che è al di là della moneta comune, della politica estera comune e del diritto comune. Essa dovrà avere una lingua comune. Questa lingua può essere solo l'inglese”. Nel 1995 il British Council lancia Il progetto English 2000 e, nel suo materiale pubblicitario, informa: “Lo scopo è di sfruttare il ruolo dell'inglese per promuovere gli interessi britannici come una delle facce del compito di continuare ed espandere il ruolo dell'inglese come lingua mondiale del prossimo secolo….Parlare inglese apre agli uomini le realizzazioni culturali britanniche, i suoi valori sociali e gli scopi commerciali”. Il Sunday Times del 10/07/1994 così sentenzia: “La via di salvezza della lingua francese è che si insegni nel modo più efficace l'inglese come seconda lingua in tutte le scuole francesi….Solo quando i francesi riconosceranno il dominio dell'inglese-americano come lingua universale in un mondo che si restringe, essi potranno efficacemente difendere la loro propria unica cultura……la Gran Bretagna deve continuare il lavoro di diffondere l'inglese e i valori britannici che gli fanno da sfondo”.
Nel libro pubblicato in anteprima mondiale in Italia “Americanizzazione e inglesizzazione come processi di occupazione globale”, Robert Phillipson sostiene che le politiche imperiali di Gran Bretagna e Stati Uniti siano state esplicitamente volte all’occupazione fisica e mentale a livello mondiale, portando di conseguenza alla disuguaglianza globale: “Nel mio paese, l’Inghilterra, stanno cercando…di promuovere l’inglese in tutto il mondo, per rafforzare gli interessi, gli investimenti e l’influenza inglese nel mondo.[…]negli ultimi venti anni. L’inglese è stato rafforzato in molti paesi del mondo, specialmente nelle ex-colonie, ma anche, in misura crescente, nell’Europa continentale[…]l’espansione dell’inglese è strettamente legata ad interessi economici, commerciali, al neoliberismo.…la politica che sta dietro all’inglese ha a che fare con gli Stati Uniti, che hanno l’intenzione di dominare il mondo, o se preferite l’impero USA nel mondo, che guarda caso utilizza l’inglese. Ci sono forze così potenti dietro agli interessi politici ed economici legati a questa espansione dell’inglese, che…occorre che la politica linguistica venga presa sul serio. Questo sviluppo, molto preoccupante, ha a che fare con l’imperialismo linguistico delle colonie tradizionali e ora con il neoimperialismo neoliberista che rafforza l’inglese.”(9)
Il progetto politico anglo-statunitense di imporre la lingua inglese non potrebbe realizzarsi se non con l’appoggio e la complicità delle classi dirigenti dei paesi inglobati nell’anglosfera, in particolare quelle degli stati europei continentali che, pur non essendo l’inglese lingua ufficiale in nessuno di essi, l’hanno accettata supinamente come lingua internazionale. “Le classi dominanti sono spesso le prime ad adottare la lingua dell’invasore. Adottando la lingua del nemico, essi sperano di avere profitto sul piano materiale, assimilandosi a esso per beneficiare simbolicamente del suo prestigio”.(Hagège). Oltre a un profitto materiale o a un prestigio riflesso – mancando di luce propria -, i sub-dominanti raccattano anche spizzichi e briciole di potere che i dominanti si degnano di lasciar cadere ogni tanto ai lor piedi. Nel caso italiano, l’arretratezza culturale, il provincialismo, l’insensibilità della classe scodinzolante a sostenere investimenti a favore della scuola, dell’università, della cultura, del patrimonio artistico e della ricerca scientifica, non spiegano tutto. L’incultura, la noncuranza, il cinismo e la pochezza dei valvassini nostrani è solo un dato del problema, non il motivo principale dell’abbandono pianificato della lingua. In realtà l’aspetto più preoccupante e più avvilente è il grado di servilismo politico e di prona accettazione ed esecuzione del disegno di dominio globale dei ceti dominanti d’oltreoceano e d’oltremanica. È un’adesione ingenua e illusoria perché non avvertono questi caudatari che, allorquando si prendono importanti decisioni specie in politica estera (e non solo), essi non contano nulla. Costoro sentono di far parte di una superclasse globale e apolide e per ciò stesso, non identificandosi con un popolo e una nazione, non provano la vergogna e il disonore del tradimento; quisling che aderiscono con zelo e piaggeria a un progetto imperialista che dispiega tra le sue armi l’imposizione organizzata e finanziata della lingua unica. Costoro hanno già deciso che le cose che contano vanno espresse in inglese, pompando untuosamente il prestigio e la tasca degli americani e sbottonandosi all’influenza linguistico-culturale funzionale a quel progetto.
Nessuna lingua porta nella sua struttura strumenti di dominazione. La lingua inglese non è in sé imperialista come la lingua italiana non è fascista; è una lingua come tutte le altre, con la sola differenza, storicamente contingente, che è quella del padrone, cioè dell’oligarchia globale che la usa come strumento di dominio tramite l’industria culturale, pubblicitaria, ludica, di intrattenimento. Il grado di organizzazione, sofisticazione e invasività di questa industria – anche se c’è ancora chi stenta a crederlo – è tale da riuscire a imporre subdolamente una lingua allogena. Il progetto dei governi inglese e statunitense, in pieno corso di attuazione, è un’operazione non piattamente linguistica, ma politica; riguarda l’esercizio del potere, la supremazia permanente sui vinti. Per comprendere il fenomeno non ci sono d’aiuto le pur straordinarie e autorevoli lezioni e ricerche di Saussure o De Mauro sull’uso, la modifica, la stratificazione diacronica e sincronica del lessico nell’idioma dei vinti, ma piuttosto le realistiche dottrine sulla guerra e sulla politica di Machiavelli, o von Clausewitz, o Sun Tzu. E ancor più utile alla comprensione è l’illuminante concetto di “guerra totale”, che gli Americani hanno perfettamente inteso e che applicano conducendo una guerra non solo militare, ma politica, economica, commerciale, culturale a raggio planetario. Il progetto di glottoglobalizzazione viene spacciato per ‘modernità’, parolina magica che vanificherebbe, se pur esistesse ma non esiste, qualsiasi velleità puristica di resistenza all’invasione. La taccia di purismo nazionalista viene erroneamente imputata a chi solleva un problema apparentemente linguistico, ma in realtà di guerra di logoramento e di occupazione politica.
Gli anglo-americanismi stanno sicuramente infettando il lessico italiano, e negli ultimi dieci anni con particolare recrudescenza. E dunque le percentuali sulla frequenza di esotismi accolti nella lingua italiana, rilevate da ricerche condotte circa dieci anni or sono, non sono indicative. Il fenomeno in corso s’è talmente accelerato da renderle rapidamente poco importanti e poco significative per una descrizione scientifica. L’aumento esponenziale degli esotismi in breve volgere di tempo è sospetto, e conferma indirettamente un’azione concertata e mirata di centri di potere mass-mediatici. Ammesso e indiscusso che una lingua non è un’architettura rigida e normativa da conservare vanamente contro il tempo e l’uso, le percentuali di quelle ricerche sono tutte da ricalcolare con nuove indagini. Non si tratta infatti di negare il carattere evolutivo di una lingua, perché il problema non è la sostituzione di singole parole con altre di un'altra lingua; non è la trasformazione e la modificabilità del codice che, a seconda del contesto, può accogliere il vocabolo o l’espressione straniera. Ad ogni modo, non esistendo un nocciolo duro e incontaminato del lessico italiano e di ogni altro lessico europeo, nessuna riserva si pone contro i prestiti lessicali o le contaminazioni semantiche, purché queste operazioni, – non si sa quanto naturali e spontanee -, non diventino lasciapassare diretti all’erosione sistematica della nostra madrelingua.
Se è importante sapere la percentuale di parole inglesi introdotte nell’italiano, diventa risibile interessarsene quando la percentuale raggiunge il 100%, cioè quando la comunicazione si svolge interamente in lingua inglese. Così come non importa più quanto pura o quanto diacronicamente contaminata sia la lingua italiana, se decisioni politiche dissennate l’hanno condannata all’estinzione. Lunghi elenchi di percentuali di frequenza d’uso di lessici endogeni ed esogeni, sicuramente necessari per una maggior conoscenza dell’italiano, diventano dati trascurabili e insignificanti se, oltre che frutto di ricerche datate, vanno considerate nella prospettiva che la lingua italiana vada ad allungare l’elenco di quelle morte. I risultati su quante parole appartengono al vocabolario fondamentale, a quello d’alto uso, a quello comune, a quello tecnico-specialistico, a quello dialettale, a quello esotico, a quello usato in occorrenze ufficiali o nella vita quotidiana, sono di estrema utilità per migliorare l’uso di una lingua viva; ma rivestono scarso interesse se i corsi universitari, le pubblicazioni scientifiche, i film in televisione sono svolti, scritti e trasmessi interamente in lingua straniera; in definitiva se nel futuro prossimo venturo la nostra lingua verrà progressivamente ignorata in alto e in basso, in solennità e nel quotidiano. Le lingue che interagiscono influenzandosi e arricchendosi a vicenda sono quelle usate. Una lingua, di cui si prospetta l’abbandono, non né pura né meticcia, semplicemente si avvia all’estinzione. Mentre le trasformazioni linguistiche avvengono per spinta naturale dal basso verso l’alto, le estinzioni linguistiche si abbattono per pressione pianificata dall’alto verso il basso.
Non mancano gli studi sulla formazione diacronica e sincronica del lessico delle lingue; rare sono invece le ricerche sulle strategie moderne di sostituzione di una lingua con una altra, come quelle di Claude Hagège in “Morte e rinascita delle lingue”. Infatti il problema è, non la percentuale dei termini allogeni intromessi senza motivo o esigenza nei discorsi in lingua italiana, ma la sostituzione di tutto il codice con un altro estraneo alla massa parlante. Il problema sorge quando nelle situazioni comunicative della vita scolastica, politica, mediatica, commerciale, produttiva, accademica, convegnistica, l’uso esclusivo della lingua inglese sostituisce totalmente la lingua italiana. In una società libera, un decreto (accademico o meno) che imponga la lingua straniera per insegnare e studiare una determinata materia, sarebbe considerato un intollerabile atto degno di un regime totalitario, oltre che misura di esclusione sociale ai danni di chi non può pagarsi i corsi all’estero. Questi atti dimostrano che sì, è vero, si può arrivare a rinunciare a tavolino alla propria lingua (comportamento un tempo inconcepibile) sotto la spinta di interessi carrieristici coltivati all’estero e di adesione a un progetto globale di glottomologazione planetaria.(10)
La lingua italiana ha certamente in se stessa le risorse per evolversi, a condizione che venga usata, cioè mantenuta in vita. Nessun organismo vivente ha l’opportunità di rinnovare cellule e tessuti se lasciato morire. E se la lingua viene abbandonata, non che coltivare vezzi puristi, ma non avrà neanche l’opportunità di modificarsi, di evolversi, di arricchirsi, di contaminarsi, di infettarsi, di imbarbarirsi e di imbastardirsi; alle masse parlanti saranno negate queste libertà, se sarà impedito loro di parlare e ascoltare la loro lingua. Il morto che parla esiste soltanto come numero estratto nel tradizionale gioco della tombola. Le lingue ora morte una volta erano vive perché usate. Non sono gli studi e le ricerche di linguistica, scienza descrittiva, a mantenere in vita una lingua, per quanto brillanti, puntuali, precise, scientifiche possano essere le descrizioni delle modifiche, dei prestiti, dei calchi, della frequenza dei lemmi e delle polirematiche. Questi fenomeni, queste possibilità e potenzialità, sono consentite a una lingua viva, che non venga ignorata sol perché vanesi accademici o servili politici decidono che è inadeguata perché è parlata dai vinti.
Il modo in cui le masse parlanti usano e trasformano la lingua non è imposto e prescritto, ma quale lingua usare è una scelta, ed è una scelta politica, attiene al potere di influenzare i comportamenti dei popoli, come da circa 90 anni gli esponenti politici anglo-statunitensi dichiarano e mettono in pratica con incontrastata prepotenza. Se decidiamo che l’italiano non è la lingua da usare nei corsi universitari, nella stesura delle tesi, nelle sedute di laurea, nei convegni scientifici, nell’insegnamento delle discipline nelle medie superiori, nei programmi televisivi, nelle occasioni solenni e formali, questa è una scelta politica, non linguistica; non è una spontanea manifestazione arbitraria delle masse parlanti che stratificano lessici nel tempo. Se la scelta è politica, e lo è, da quando la lingua è concepita come arma, allora per analogia è lecito parafrasare la formula “cuius regio eius religio” e affermare con forza “cuius regio eius lingua”. La lingua dei cittadini di uno Stato deve essere quella di chi ne detiene la sovranità e, per la nostra Costituzione, il sovrano è il popolo italiano, dunque sua sia la lingua da usare. Non per intolleranza, ma questa formula potrebbe essere uno dei pochi e indispensabili strumenti rimastici per mantenere libertà e indipendenza di popolo e di nazione, e non morire colonizzati.
L’estinzione di una lingua procede attraverso operazioni previste e studiate dalla linguistica: per competizione quando ad esempio la lingua del vincitore è preferita alla lingua nazionale nelle pubblicazioni scientifiche; per rifiuto da parte della pubblicità, di società e di enti di usare certe lingue; per logoramento, definito anche suicidio linguistico per obsolescenza. In quest’ultimo caso, nel corso di più generazioni, i dominati parlanti una lingua prendono in prestito lessico, pronuncia e sintassi dalla lingua del padrone in misura tale da rendere la propria lingua tendenzialmente indistinguibile dalla seconda. Gli studiosi hanno ben presenti questi fenomeni come indotti e provocati da un disegno di predominio politico, che ricorre solitamente alla sostituzione per logoramento. La sostituzione, il più delle volte strisciante e non percepita perché diluita su decenni, avviene quando una lingua straniera soppianta la lingua attestata in un gruppo umano. La lingua autoctona, dopo aver coesistito per un periodo variabile con la lingua imposta dall’alto, ne viene assimilata e fusa in modo crescente e impercettibile. Al termine del processo né le strutture né il lessico della lingua d’origine si conservano nell’uso generale; tutt’al più sopravvivono in un numero limitato di situazioni comunicative, progressivamente confinate in ambiti familiari e affettivi; il che determina la rovinosa e ineluttabile declassificazione della lingua a dialetto. Quando i sub-utenti della lingua straniera, acquisendo competenze in questa, cominciano a usare sempre meno la base lessicale della lingua madre, perdono di pari passo la capacità di formare parole nuove. Quasi per riflesso condizionato, cominciano a introdurre nei discorsi in madrelingua un numero considerevole di parole mutuate dalla lingua dominante, che da occasionali diventano sistematiche; in parallelo scompaiono i termini autoctoni nel patrimonio lessicale dei soggetti glottocolonizzati. Fonologia e grammatica, le parti più strutturate e più resistenti nel tempo all’influenza della lingua straniera, nella maggior parte dei casi, si conservano più del lessico. Ma quando questo nocciolo duro viene colpito, è la grammatica a scomparire per prima: si perdono le opposizioni essenziali che costituiscono gli aspetti più specifici della fonologia. In campo morfologico si riducono fortemente le variazioni tra una forma e un’altra. I glottocolonizzati non sempre sono consapevoli del ritmo vertiginoso al quale la lingua madre si disgrega; spesso si illudono di continuare a parlare una lingua vitale, che invece è moribonda. Nella maggior parte dei casi le forme che danno l’illusione di una continuità sono già quelle dell’altro sistema, che si instaura subdolamente e prelude all’estinzione totale della lingua autoctona.(11)
(1) Claude Hagege, Delle cose prepolitiche 1 – La propria lingua, redazione https://www.appelloalpopolo.it/?p=7287
(2) L’Italia al bivio (dove ci attende lo straniero) di Gianni Petrosillo – 08/01/2014 Fonte: Conflitti e strategie
(3) (Lingue internazionali e diritti umani internazionali di Robert Phillipson. http://www.agimsito.it/notizie_esperanto_2.htm)
(4) (La lingua dell’imperialismo statunitense, di Claudio Mutti – 05/10/2013. Fonte: Bye Bye Uncle Sam
(6) La lingua dell’imperialismo statunitense, di Claudio Mutti – 05/10/2013. Fonte: Bye Bye Uncle Sam.
(7) la geopolitica delle lingue, xxxi (3-2013) Claudio Mutti 6/9/2013
(8) (Lingue internazionali e diritti umani internazionali di Robert Phillipson. http://www.agimsito.it/notizie_esperanto_2.htm)
(9) (E.R.A.Intervento di Robert Phillipson, Linguista e autore de “L’imperialismo linguistico continua”. http://www.democrazialinguistica.it/100/forum/viewtopic.php
(10) La prevalenza dell’inglese e la prevalenza del cretino, 15 giu 2013, da Ars Longa in Politica italiana
(11) riferimento, Claude Hagege in “Morte e rinascita delle lingue”
Luciano Del Vecchio, socio ARS
Articolo interessantissimo
Beh , notavo l'evoluzione degli spot pubblicitari, da qualche tempo , non c'è nemmeno la volontà di tradurli in italiano, si lasciano nella lingua originale, inglese e/o francese.
Francamente non so quele possa essere la cause costi , o per marketing, fatto sta che prima non si verificava.
Aggiungero' alle giuste riflessioni dell'articolo che, obbligando tutti a studiare l'Inglese, li si spinge anche a leggere libri o ascoltare trasmissioni che diffondono giudizi politici e versioni degli avvenimenti utili alla Potenza dominante.
Terza puntata di una discussione appassionante, a beneficio dei lettori :)
Segnalo: BASTA INGLESISMI INUTILI !
Appello per salvare la lingua italiana, prima che venga soppiantata dall'ita-nglese
http://www.progettocomenio.it/itaappello.htm