La riforma degli enti territoriali in Italia
Introduzione
Nel diritto costituzionale contemporaneo, gli enti territoriali locali sono gli strumenti attraverso cui le comunità di una particolare circoscrizione territoriale esercitano l’autogoverno nel proprio interesse. Essi sono subordinati allo Stato, che è l’unico ente sovrano nell’ambito dell’ordinamento interno, soggetto di diritto internazionale e titolare unico della responsabilità nei rapporti internazionali. Rispetto ad altri enti locali non territoriali (quali in Italia le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le aziende sanitarie locali, gli ordini professionali), il territorio è un elemento costitutivo di questi enti, e non solo un limite alla competenza dei medesimi. Lo Stato può attuare nei loro confronti il decentramento autarchico conferendogli particolari funzioni amministrative, mentre si ha decentramento burocratico quando le funzioni amministrative più ampie siano conferite dallo Stato a propri organi periferici. L’autonomia è invece la titolarità di funzioni normative in capo agli enti locali e può consistere nel potere di emanare fonti primarie (autonomia legislativa) o secondarie (autonomia statutaria e regolamentare). Secondo il grado di autonomia attribuito agli enti territoriali locali, si possono distinguere tre diverse forme di stato. Nello stato unitario gli enti territoriali locali sono titolari unicamente di funzioni amministrative (autarchia) e normative secondarie (autonomia regolamentare e non legislativa). Nello stato regionale l'ente territoriale locale di livello più elevato, sotto garanzia di una costituzione rigida, è titolare della funzione legislativa in materie tassativamente elencate (spesso nell’ambito di leggi cornice statali), mentre lo Stato centrale ha una competenza legislativa esclusiva su alcune materie e residuale e generale sulle altre. Nello stato federale l'ente territoriale locale di livello più elevato, sotto garanzia di una costituzione rigida, è titolare della funzione legislativa in via generale e residuale, mentre lo Stato centrale ha una competenza legislativa in materie tassativamente elencate. Inoltre, generalmente lo stato federale ha un parlamento bicamerale in cui una delle due camere è espressione degli enti federati, che attraverso di essa hanno la possibilità di partecipare al procedimento di revisione costituzionale.
Gli enti territoriali locali nella Costituzione Italiana
La Repubblica Italiana, che con la Costituzione del 1948 aveva adottato una forma di Stato tipicamente regionale, con la riforma costituzionale del 2001 si è avvicinata molto a un modello costituzionale di tipo federale. Secondo l'art. 114 della Costituzione, come modificato dalla Legge Costituzionale n. 3/2001, la Repubblica Italiana è costituita, oltre che dallo Stato, dai seguenti enti territoriali: comuni, province, città metropolitane e regioni, che sono “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione". Nella nuova accezione il termine “Stato” è inteso come amministrazione ministeriale – e relativi enti strumentali centrali sottoposti alla vigilanza ministeriale – dipendente direttamente dal governo nazionale, secondo un’accezione limitativa molto vicina al concetto di “Stato apparato” a suo tempo coniato da Paolo Barile in contrapposizione allo “Stato comunità”. Tale accezione riportata nella nuova versione dell’art. 114 della Costituzione, al tempo della riforma, provocò non poche obiezioni, soprattutto da parte di coloro che sottolineavano che anche gli enti territoriali locali, pur non facendo parte dell’apparato ministeriale, sono pur sempre parte dell’ordinamento unitario dello Stato. Esistono inoltre ulteriori enti territoriali non previsti dall'art. 114 della Costituzione, ma elencati nell'art. 2 del D.lgs. 267/2000: comunità montane, comunità isolane, unioni di comuni e consorzi fra enti territoriali.
Le regioni nell’attuale ordinamento italiano
Le regioni sono dotate di autonomia statutaria, legislativa e regolamentare e trovano la loro disciplina nella Costituzione e nei rispettivi statuti. Le regioni a statuto speciale (Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta) dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Tuttavia, la legge costituzionale 2/2001 ha modificato quattro statuti speciali su cinque (con esclusione cioè di quello del Trentino-Alto Adige), conferendo alle suddette regioni il potere di adottare una legge statutaria sul funzionamento degli organi regionali. Prima della legge di riforma costituzionale n. 3/2001, le Regioni a Statuto ordinario potevano emanare leggi solo nelle materie tassativamente indicate nell’art. 117 della Costituzione e soltanto entro i limiti di una legge-cornice statale o dei principi fondamentali della materia, secondo il principio della competenza concorrente. La competenza legislativa esclusiva era prevista solo in capo alle regioni a statuto speciale. In seguito alla riforma costituzionale del 2001, esiste una competenza legislativa esclusiva dello Stato su determinate materie, una competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni su altre materie e infine una competenza residuale delle Regioni in tutte le altre materie. Organi della regione sono il consiglio regionale, la giunta regionale e il presidente della regione. Dal 2000 quest’ultimo viene eletto direttamente, a meno che lo statuto regionale non ne preveda l’elezione da parte del consiglio regionale. L'autonomia finanziaria della regione ordinaria è disciplinata dall'art. 119 della Costituzione. Il cosiddetto federalismo fiscale è stato disciplinato a livello legislativo dal decreto legislativo 42/2009, ma è in attesa di trovare attuazione con una serie di decreti delegati. L’autonomia finanziaria delle regioni a statuto speciale trova invece il proprio fondamento nello Statuto ed è molto più ampia, poiché queste regioni trattengono dal 60% (Friuli-Venezia Giulia) al 100% (Sicilia) dei tributi erariali riscossi nel territorio regionale. I controlli sulle regioni sono stati notevolmente limitati dalla legge costituzionale 3/2001. La suddetta riforma del Titolo V della Costituzione ha eliminato completamente i controlli sugli atti amministrativi regionali, mentre ha limitato e trasformato da preventivo a successivo (mediante la promozione della questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni – 30 per gli statuti regionali – dalla pubblicazione) il controllo statale sulle leggi regionali. Il governo nazionale ha infine poteri sostitutivi e – previo parere della Commissione Parlamentare sugli affari regionali – di scioglimento degli organi regionali, in gravi casi previsti dalla Costituzione.
Le province nell’attuale ordinamento italiano
Per quanto riguarda le province, nel Regno di Sardegna il relativo ordinamento era contenuto nel regio decreto n. 3702/1859, poi esteso al resto dell’Italia unificata con l’unificazione amministrativa del 1865. Dopo varie vicissitudini, tra cui l’abolizione durante il regime fascista dell’elettività degli organi provinciali (consiglio e deputazione furono sostituiti dal rettorato e dal preside di nomina regia), poi ripristinata dopo il 1945, un’importante riforma avvenne con la legge n. 142/1990, che conferì alle province l’autonomia statutaria e regolamentare. La legge n. 81/1993 stabilì l'elezione diretta a suffragio universale dei presidenti provinciali. Nel 2011, per le sole regioni a statuto ordinario, è stato disposto il mantenimento delle Province come esclusivo organo di coordinamento intercomunale. I consigli provinciali saranno ridotti a non più di 10 membri nominati dai consigli comunali del territorio di riferimento, che eleggeranno al proprio interno il presidente della provincia. Per quanto riguarda invece le regioni a statuto speciale, la Costituzione italiana e gli Statuti regionali prevedono la competenza regionale in materia di riordino degli enti locali. Il 3 luglio 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dei decreti governativi in materia di ordinamento delle province, in particolare proprio per l’utilizzo improprio dello strumento della decretazione d’urgenza per una riforma di sistema peraltro costituzionalmente vincolata. Nel 1861, anno della formazione del Regno d'Italia, le province erano solamente 59. A seguito dell’estensione territoriale dello Stato e della costituzione di numerose nuove province (ben 17 a seguito della soppressione dei circondari nel 1927), alla nascita della Repubblica le province erano 91. Attualmente esistono 110 province. Fino alla legge costituzionale n. 3/2001, gli atti delle province, dei comuni e degli altri enti locali erano soggetti al controllo del CORECO (comitato regionale di controllo), istituito presso le regioni. A seguito della riforma costituzionale, tale organismo è stato abolito con i relativi controlli.
Un’ipotesi di riforma degli enti territoriali
I pessimi risultati gestionali raggiunti dalle regioni ordinarie a oltre quarant’anni dalla loro istituzione hanno sollevato sempre più numerose perplessità sull’utilità di ben tre livelli di amministrazione locale (regione, provincia e comune). Si rende necessario valutare l’ipotesi, piuttosto che della mera soppressione di uno dei due livelli di governo tra regioni o province (ipotesi, quella della soppressione di queste ultime, maggioritaria nel dibattito politico e dottrinale attuale), di una loro ”unificazione” in un nuovo ente intermedio. Anche la Società Geografica Italiana è intervenuta nella discussione sulla riforma degli enti territoriali locali proponendo l’istituzione di 36 distretti federali che dovrebbero sorgere a seguito della soppressione delle attuali regioni e province. Tale proposta, tuttavia, a parere di chi scrive allontanerebbe troppo l’istituzione intermedia dalle comunità locali, profilando in tal modo il rischio di una sorta di “centralismo distrettuale”. Al posto delle attuali 20 regioni e 110 province, pertanto, potrebbero essere istituite circa 60 “grandi province” (numero peraltro corrispondente al numero delle province – 59 – esistenti al momento della costituzione dello Stato unitario), ciascuna con popolazione compresa tra un minimo di 500.000 e un massimo di 1.500.000 di abitanti. Nelle più grandi aree urbane in cui è già prevista dalla legislazione vigente l’istituzione della città metropolitana, le Province assumerebbero la denominazione di Città Metropolitane. I territori rurali appartenenti alle province il cui capoluogo diviene sede della città metropolitana, verrebbero trasferiti a nuove “grandi province” limitrofe. Le nuove “grandi province” acquisirebbero tutte le competenze regolamentari e amministrative, nonché le risorse umane, strumentali e finanziarie delle attuali regioni e province. Per quanto riguarda la funzione legislativa, un’analisi disincantata di oltre quarant’anni di legiferazione regionale non può che portare a una sola conclusione: tutte le competenze legislative dovrebbero essere ricondotte allo Stato, che in questo modo tornerebbe a essere l’unico titolare della funzione legislativa nell’ordinamento giuridico. In questo modo cesserebbero per sempre i conflitti di competenza tra Stato e regioni derivanti dall’emanazione di leggi e verrebbe maggiormente garantita la certezza e l’unità del diritto nazionale, premessa imprescindibile di un ordinato svolgimento dei rapporti economici e sociali intercorrenti tra i soggetti dell’ordinamento. Le nuove “grandi province”, pertanto, sarebbero al contempo organismi di programmazione e controllo, quanto di amministrazione attiva, pur avvalendosi preferibilmente dei nuovi “grandi comuni” mediante la delega di funzioni amministrative. Sarebbe peraltro opportuno che la funzione legislativa tornasse a rivestire il carattere di generalità e astrattezza che naturalmente gli compete, lasciando alla potestà regolamentare dello Stato e in particolare delle nuove “grandi province” la definizione delle norme di dettaglio, secondo un riparto di competenze da definirsi con legge dello Stato. Gli attuali Comuni dovrebbero essere riordinati e accorpati in “grandi comuni”, ciascuno con popolazione compresa da un minimo di 20.000 a un massimo di 200.000 abitanti. Ciò consentirebbe di abbassare il numero totale dei Comuni italiani dagli attuali 8.071 (di cui peraltro solo 500 superano i 15.000 abitanti) a circa due migliaia. L’accorpamento dei comuni più piccoli è peraltro un processo che è stato da anni anticipato dal fenomeno del passaggio di molte competenze alle unioni di comuni e alle comunità montane e dall’obbligo, sancito nel 2011, per i comuni sotto i 5.000 abitanti di consorziarsi per svolgere le funzioni di stazione appaltante. Le comunità di riferimento dei comuni soppressi potrebbero comunque essere rappresentate all’interno dei “grandi comuni” da organismi quali “municipi” o “circoscrizioni di decentramento”. L’erogazione dei servizi pubblici verrebbe comunque conservata presso le sedi ex comunali accorpate secondo parametri garantiti dalla legge dello Stato. Inoltre gli enti pubblici intermedi come le comunità montane, le comunità isolane, le unioni di comuni e i consorzi fra enti territoriali sarebbero soppressi, mentre le competenze di questi ultimi verrebbero devolute ai nuovi “grandi comuni” o eventualmente alle “grandi province”. In particolare, le funzioni delle aziende sanitarie locali e delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, nonché gli ambiti territoriali ottimali e i consorzi fra enti territoriali, passerebbero alle nuove “grandi province”. Nelle aree metropolitane da elevare a città metropolitana, peraltro, il territorio comunale del comune capoluogo, ove superiore a 200.000 abitanti, dovrebbe essere diviso in tanti nuovi “grandi comuni” con popolazione non superiore a tale soglia, mentre le competenze di “area vasta” potrebbero essere esercitate dalla Città Metropolitana. Le Prefetture, la cui competenza territoriale dovrebbe coincidere con quella delle “grandi province”, dovrebbero essere integrate con le Questure. A parte le competenze tipiche dell’amministrazione civile dell’Interno, che sarebbero mantenute e ampliate, nelle Prefetture dovrebbe realizzarsi anche il processo di integrazione tra le varie forze di polizia. In capo alle Prefetture dovrebbero essere ripristinati poteri di controllo sugli atti delle nuove “grandi province” analoghi a quelli esercitati in precedenza dai CORECO soppressi nel 2001: l’abolizione dei controlli amministrativi sugli enti locali ha di fatto ampliato, secondo la Corte dei Conti, il tasso di illegittimità dell’azione amministrativa locale, fenomeno cui urge porre rimedio. Per garantire la presenza unitaria dello Stato centrale sul territorio, infine, anche gli altri uffici periferici dell’amministrazione statale (ragionerie territoriali dello Stato, direzioni territoriali del lavoro, uffici scolastici provinciali), dovrebbero essere progressivamente ricondotti, in alcuni casi solo a livello di coordinamento e ove opportuno anche mediante incorporazione, all’interno delle Prefetture, secondo il modello degli Uffici Territoriali del Governo istituiti nel 1999 e mai attuati.
Conclusione
La Repubblica Italiana, optando per la riforma sopra proposta, sceglierebbe di tornare alla formula dello Stato unitario abbandonando l’attuale situazione di incerta e disordinata transizione tra Stato regionale e Stato federale. Tuttavia, è opportuno sottolineare che questo non significherebbe in alcun modo un ritorno a vecchie e desuete forme di centralismo amministrativo. Le nuove “grandi province”, quali enti di autogoverno delle rispettive comunità, godrebbero infatti di amplissima autonomia statutaria, regolamentare, finanziaria e programmatoria. Tramite il proposto riparto di competenze tra Stato ed enti territoriali locali, si eliminerebbe in radice la possibilità stessa di duplicazioni e conflitti di competenza tra diversi livelli di governo, garantendo in tal modo il migliore coordinamento e sviluppo delle energie nazionali, necessarie in vista della riconquista della piena sovranità internazionale dello Stato. In questo modo la Repubblica Italiana, che il legislatore costituente del 1948, fedelmente allo spirito del Risorgimento, volle “una e indivisibile”, tornerebbe a essere espressione fedele della Nazione Italiana, formatasi in oltre due millenni di storia comune, e delle comunità particolari che indissolubilmente vanno a comporne l’unità spirituale, culturale e politica.
Luca Cancelliere (ARS Sardegna)
La proposta è molto convincente. Ho sempre visto con molta diffidenza le regioni e lo stato regionale, e ancor di più quello federale. Credo che le regioni siano organismi artificiali, che non rispecchiano la vera e autentica tradizione autonomistica italiana, rappresentata storicamente da Comuni e Province. Un ritorno allo Stato unitario è auspicabile per fronteggiare al meglio le aggressioni di organismi globalizzati contro gli stati nazionali. Questi organismi internazionali spesso fanno leva proprio sull'articolazione interna degli stati regionali e federali per sferrare i loro attacchi mirati alla disintegrazione sociale e territoriale.
Apprezzo molto questo contributo. I miei complimenti a Luca Cancelliere.
D' accordissimo sulla critica alle regioni e con l' idea della grandi provincie. Non sulla sopressione dei comuni al di sotto dei 20 000 abitanti. Quantomeno, dovendo venire incontro a questa proposta, abbasserei la soglia.
Concordo con la modifica delle regioni e loro cambiamento in "grandi province", e pure con la diminuzione dei Comuni (peraltro già avviata per quelli più pccoli). Concordo in generale con la restituzione dei poteri legislativi e di controllo allo Stato, tuttavia mi pare che lasciare la funzione di controllo statale alle sole Prefetture-Questure lasci fuori i cittadini, esattamente come è successo negli ultimi 25-30 anni con i gravissimi danni sociali, patrimoniali ecomici culturali politici., ricaduti sugli stessi cittadini, che ormai ARS conosce molto bene. E' mio parere che occorra prevedere , e quindi anche codificare, una funzione e un potere almeno propositivo e di controllo ai gruppi di cittadini riuniti in associazioni, riconosciute giuridicamente, aventi lo scopo della difesa della salute, la salvaguardia del paesaggio e del territorio, e dei beni comuni in generale.
Ottimo. Chiunque abbia studiato un minimo di diritto costituzionale e abbia una qualche esperienza di amminstrazione pubblica non può che condividere questo progetto. Vorrei solo segnalare un aspetto, per altro implicito nella ottima trattazione di Luca Cancelliere, e cioè la necessità di recidere il nesso funzionale tra Sindaco e Segretare comunale. Sarebbe necessario ripristinare il sistema antecedete nel quale il Segretario comunale non era scelto dal Sindaco e svolgeva in posizone di terzietà una funzione di controllo della legittimità dell'azione dell'amminstrazione comunale. Coerentemente, a garanzia della sua terzietà il Segretario comunale era un dipendente dello Stato e non dell'amminstraizone comunale.
Effettivamente l'unificazione di due livelli di governo, regioni e province, in un ente intermedio da nominare (distretto, area, dipartimento, ecc.) unito a un ripristino dei controlli amministrativi ex-ante, avrebbe non solo riflessi positivi sulle economie delle singole zone, ma contribuirebbe a contrastare e ridimensionare le piaghe della corruzione e del malaffare a beneficio dell'economia locale e centrale.
Quello che non trovo soddisfacente è la proposizione di numeri per la suddivisione territoriale dei distretti, individuando (secondo me con insufficienti motivazioni) in 60 il loro numero ottimale e proponendo accorpamenti di comuni sulla base di parametri di popolazione non si sa bene scaturenti da quali considerazioni.
Trovo inoltre non corretto scartare con sole due righe e mezza la proposta della Società Geografica di creazione di 36 distretti o aree ("Tale proposta, tuttavia, a parere di chi scrive allontanerebbe troppo l’istituzione intermedia dalle comunità locali, profilando in tal modo il rischio di una sorta di “centralismo distrettuale”) quando, a consultare l'ebook della stessa Società Geografica, ci si accorge che la mappa di proposizione delle 36 aree è preceduta da più di 200 pagine di considerazioni e studi sulle suddivisioni territoriali italiane dall'unificazione a oggi.
Credo pertanto sia necessario emendare il testo del documento per ricondurlo alla logica del medesimo, di indirizzo politico, senza entrare nel merito di quante possano essere le nuove aree intermedie o di che dimensioni debbano essere i nuovi comuni accorpati.
Osvaldo, il testo è stato in parte rivisto, sebbene non credo nelle parti da te considerate. Vai su riconquistarelasovranita.it formula un emendamento e scrivi ilcommento. E' assolutamente necessario che tulo faccia. L'emendamentolo devi scrivere tu.